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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV
In questo mezzo tempo le macchinazioni Inglesi avevano sortito l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni delle corti Europee presso al Divano avevano per modo operato, che la Porta Ottomana si era scoperta nemica alla Francia, e le aveva intimato la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la Francia. Erano l'esercito Italico, ed il suo capitano, l'uno e l'altro tanto formidabili, in paese lontano senza speranza di poter tornare a soccorrere la patria loro nei campi di Europa. La guerra di Turchìa con Francia toglieva il timore, che la prima potesse adoperarsi in favore della seconda ed apriva l'adito sicuro alla Russia di correre in aiuto dell'Austria. Stipulavasi anche per le medesime cagioni, e per maggiore sicurezza della Russia, un trattato di pace, e d'alleanza tra lei e la Turchìa. Già le schiere Moscovite s'incamminavano alla volta di Germania: Paolo imperatore si versava con tutto l'empito suo contro Francia. Si sapeva oltre a ciò, che gl'Italiani erano sdegnati per le esorbitanze dei repubblicani; che gli Svizzeri erano molto più, e si sperava, che lo sdegno di questi popoli fosse per riuscire di non poco aiuto alla guerra. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore aveva fondato, cessato il terrore, s'accostava alla sua ruina.
Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre a questo, che tutte le genti Francesi, che allora erano in Italia raccolte insieme, non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che i repubblicani già inferiori di numero, erano dispersi quà e là nei presidj della Cisalpina, dello stato Veneto, del Piemonte, e della Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter far la guerra da se con frutto contro la Francia, senza aspettare il tempo, in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria e la Russia, avrebbero potuto venire in suo soccorso. Aveva anche udito le novelle, che per la lega fatta tra la Russia e la Turchìa, le flotte confederate, passati i Dardanelli, arrivavano alle fazioni dell'Jonio contro gli occupatori delle isole Veneziane poste in questo mare. Gli pareva altresì da non doversi lasciar raffreddare la fama della vittoria d'Aboukir, e la presenza del vincitore Nelson, che col suo consiglio, e con la sua forza si dimostrava pronto ad aiutar l'impresa, grandemente il confortava a cominciarla. Accrebbero questi desiderj le novelle, che gl'isolani di Malta si erano ribellati ai Francesi, e tolto loro l'uso della campagna, gli avevano sforzati a ritirarsi alle fortezze. Alla risoluzione medesima inclinava Napoli pensando, che se facesse da se, coglierebbe maggiori frutti della vittoria, perchè la cupidigia di aver Fermo con alcune altre terre della Marca, e la speranza di aversi a liberare dalle pretese della santa sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma, non gli erano ancora uscite di mente. Finalmente aveva testè udito, che i Francesi, che si erano accorti dei moti di Napoli, e dei nuovi pensieri dei principi contro di loro, erano venuti nell'antica deliberazione del direttorio di farsi signori della Toscana, e di porre anche le mani addosso al gran duca, se a tale estremo gli accidenti gli sforzassero. Nè si dubitava, che i repubblicani assaliti quasi all'improvviso, e innanzi che avessero tempo di provvedersi, avessero presto a cedere del tutto le terre Italiane.
Il re risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Francesi quello, a che sapeva che ei non potevano consentire, e questo fu, che sgombrassero da tutti gli stati pontifici, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente, non poter consentire alle domande, giudicando benissimo, che l'inchinarsi a tali condizioni era peggio che perdere tre battaglie campali. Per la qual cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi sdegnato per la occupazione dello stato Romano e di Malta, bandiva al mondo, aver preso le armi per allontanare dai suoi dominj ogni danno e pericolo, per restituire il patrimonio della chiesa al suo vero e legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla sicurezza, ed all'onore della religione; lui stesso, diceva, essere venuto co' suoi invitti soldati a così santa opera, proteggerebbe i buoni ed i virtuosi, accorrebbe con affetto paterno i traviati che si volessero ridurre al buon sentiero, ed a penitenza; dimenticassero, inculcava, ogni ingiuria, spegnessero ogni desiderio di vendetta, imitassero la reale comportazione, solo intenta a far fiorire nuovamente la religione, la quiete, e la giusta libertà di tutti. Esortava finalmente i capi d'ogni esercito estero a ritirarsi incontanente dal territorio Romano, ed a non ingerirsi più oltre negli accidenti di questo stato, la cui sorte per ragione di vicinanza, e per altri legittimi motivi principalmente interessava la sua regia potestà.
Dalle parole trapassava tosto ai fatti: partito l'esercito in tre parti marciava alla volta delle Romane terre. Era venuto per consigliare il re sulle faccende di guerra il generale Austriaco Mack, mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Fu suo disegno in questa mossa, sapendo che i Francesi erano dispersi in alloggiamenti lontani fra di loro, e sperando che i popoli tumultuerebbero in favor dei Napolitani, di occupare un gran tratto di paese. Confidava, che gli avversarj sarebbero stati circondati, e presi senza molto sangue. Perlocchè aveva Mack in tale modo ordinato l'assalto, che la più grossa schiera condotta da lui medesimo, avendo con se il principe ereditario di Napoli, per la strada degli Abruzzi, se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era stata mandata a rinforzare Corfù minacciato dalle armi Ottomane e Russe. Era suo intento, che questa schiera tagliasse il ritorno ai Francesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata dal re, che aveva con se per moderatore Colli, aveva carico di far impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo di Ferdinando. Ma pensiero di colui, che aveva ordito tutta questa macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Francesi per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i comandamenti del generale Naselli: la parte più grossa di lei posta su navi Inglesi e Portoghesi governate da Nelson s'incamminava ad occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti che accennavano a Roma, si era dato opera, che la minor parte, che obbediva al conte Ruggiero di Damas, fuoruscito Francese, radendo i lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della Toscana, che portano il nome di Presidj. Per tal modo ordinato il disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle parti, aveva con se poca gente, nè certamente bastevole a far fronte a tanta moltitudine, se i soldati Napolitani fossero stati pari a' suoi per perizia e per valore; conciossiachè non avesse con lui, che cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni, due compagnie di artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila soldati. Erano per verità con lui alcuni reggimenti Italiani, ma ei faceva sopra di loro poco fondamento.
Il dì ventitrè novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane, che le si pararono avanti, s'avvicinava a Terni. Mandava Championnet domandando a Mack, qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra contro Francia. Rispondeva con troppo maggior alterigia che se gli convenisse, che l'esercito di sua maestà Siciliana occupava il territorio Romano sovvertito, ed usurpato dalla Francia contro la fede dei capitoli di Campoformio; che il nuovo stato di Roma non era consentito nè dal re, nè dall'imperatore, suo alleato; però andrebbe avanti, non commetterebbe ostilità, se non se gli resistesse; se sì, commetterebbele contro chiunque, e qual fosse il nome che si avesse. Replicava modestamente Championnet, la repubblica Romana essere sotto la tutela della Francese, e difenderebbela. Intanto non vedendosi, pel piccol numero de' suoi soldati sparsi in luoghi lontani, pari al resistere a tanta piena, nè a custodire tanta larghezza di paese, raccoglieva i suoi e gli mandava, lasciando un sufficiente presidio in Castel Sant'Angelo, a far capo grosso a Civita-Castellana. Ma udendo, che i Napolitani erano stati ricevuti in Livorno, sebbene con protesta della neutralità violata per parte dei magistrati del gran duca, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero di Damas arrivava sui confini fra lo stato ecclesiastico e la Toscana, soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente, e non senza grossa strage dei regj combattuto dal generale Lemoyne, si era impadronito di Fermo, e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in su per le rive del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia, perchè temeva, che il generale Napolitano gli tagliasse le strade dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti, e vi trasferiva anche il governo Romano, che aveva abbandonato, per la forza di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda dei regj. Trovarono qualche aderenza di popoli nello stato pontificio, come era succeduto a Viterbo, ed a Civitavecchia. Ma generalmente poco si muovevano, o tepidezza verso l'antico governo del papa, o odio innato contro i Napolitani, o non cessata paura delle armi repubblicane, che sel facessero. Che anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono virilmente in favor dei Francesi, e diedero loro campo di ridursi a salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì ventinove di novembre. Il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita cupidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità, che dall'amore, gli fece feste, e rallegramenti di ogni sorte: le Romane e le Napolitane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Si rallegravano dell'essere liberati da quel vivere tirannico e soldatesco, e si auguravano, certo molto leggermente, tempi migliori; perciocchè non andò gran pezza, che si accorsero come si può cambiar di signore, e non di servitù. S'incominciava intanto a trascorrere in vituperj ed in fatti peggiori dei vituperj, contro coloro che avevano seguitato il governo nuovo, chiamandogli il popolo, o mosso da se, od incitato da altri, Atei e Giacobini. I vituperj poi, ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i Giacobini per odio pubblico, i non Giacobini per odj privati. Non parlo dell'atterramento degli alberi della libertà, e della ruina a furia di popolo del monumento eretto in Campidoglio all'ucciso Duphot; perciocchè avesse pur voluto Dio, che a queste opere piuttosto oziose che dannose si fossero rimasti, ma s'incominciava a far sangue, e a demolir case. S'interpose Ferdinando, e fe' cessare i tumulti, creando una milizia urbana, e confidandola ad un cavaliere Gennaro Valentino. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli, il marchese Massimi, ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il Romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza.
Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i Napolitani che i Francesi, quantunque gli uni e gli altri si chiamassero col nome di liberatori. Portarono le logge del Vaticano dipinte da Raffaello, risparmiate, ed anche rispettate dai Francesi, lungo tempo le vestigia della barbarie delle soldatesche Napolitane. Nè i quadri si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti sfuggiti alla rapacità degli agenti del direttorio. Da tante enormità nacque, che il popolo cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti fra i partigiani del papa diventavano partigiani Francesi. Tali furono le opere Napolitane in Roma; ma poco durarono, perchè era fatale, che in quella nobile, e sventurata Roma, un dominio insolente in brevissimo giro di tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti saranno per noi raccontati nel progresso di queste storie.
Era costume del direttorio di Francia, per sovvertire i paesi, di accarezzare e fomentare i desiderosi di novità, o che tali fossero per fin di bene, o per fin di male; ma conseguita la mutazione, i suoi agenti più accarezzavano i cattivi che i buoni, perchè trovavano i primi più arrendevoli, e meglio inclinati a servire ai desiderj loro. Tanto più poi vezzeggiavano i cattivi, e trasandavano i buoni, quanto più erano lontani i pericoli. Ma quando sovrastava un tempo forte, tosto si davano a far le chiamate ai buoni, perchè questi per la virtù loro avevano volti in lor favore gli animi dei popoli, il che era fondamento di potenza. Da un'altra parte gli amatori veri di libertà tanto più vivi si dimostravano, quanto più il paese loro aveva sembianza d'indipendente, perchè il resistere alla tirannide pareva loro vano, ed il non servire alla indipendenza, vile. Questi adunque sorgevano, quando era data al loro paese, se non in fatti, almeno in parole, la indipendenza, sperando di trovar modo di acquistarla vera e reale. Quindi i dominatori, mettendosi in sospetto, usavano di ritrarre lo stato dalle mani loro, ponendolo in balìa di coloro, che, o più vili o più prudenti essendo, si accomodavano facilmente alle voglie dei forestieri. Quindi nasceva, che assai più dei partigiani della potestà regia, assai più dei fautori dell'aristocrazìa, e della oligarchìa stessa, che per altro abborrivano, o fingevano di abborrire, gli agenti del direttorio, odiavano gli amatori dell'indipendenza. Queste cose si vedevano manifestamente in Cisalpina, dove essi allontanandosi dagl'indipendenti, si accostavano ai novatori avidi di denaro e di dominio, ed anche agli aristocrati, perchè sapevano che a questi, purchè e' siano guarentiti, ed abbiano sicurezza contro gl'impeti e le insolenze popolari, poco importa chi abbia il reggimento supremo in mano. Per bene intendere queste cose, e' bisognerà incominciarle dal loro primo principio. Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria, ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza, condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano, perchè quella comporta per se ogni cosa, questa dovrebbe avere moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì ventinove di marzo, per forza dall'ambasciatore ordinario di Cisalpina Visconti, volentieri dall'ambasciatore straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche, Francese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che la repubblica Francese riconosceva come potenza libera e indipendente la Cisalpina, e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza, e l'abolizione di ogni governo anteriore a quello, che attualmente la reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse, così per le difese come per le offese, a favore della Francia; che la Cisalpina avendo domandato alla Francese un corpo, che fosse bastante a conservare la sua libertà, indipendenza, e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, che la Francese manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non fosse altrimenti convenuto, ventiduemila fanti, duemila cinquecento cavalli, cinquecento artiglieri sì da piè che da cavallo, e che per questo la Cisalpina pagasse alla Francese ogni anno diciotto milioni di franchi, ogni mese un milione cinquecentomila franchi; che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina ai generali Francesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quelli a cui pareva, che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che alleanza ed indipendenza, non gli voleva consentire. Ma ebbe ad udire dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica Francese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla, se volesse. Il che era verissimo, ma certamente nè generoso, nè consentaneo alle belle parole, nè conducente a indipendenza. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse il trattato.
Arrivato quest'accordo in Cisalpina, vi sorse uno sdegno grandissimo: i consigli legislativi nol volevano ratificare. Scriveva pubblicamente Berthier, che da Roma se n'era venuto a Genova per andarsene alla spedizione d'Egitto, che quel trattato era la salute della Cisalpina, se ella il ratificasse. Altri sottomano insinuavano, che se ratificasse, sarebbe ingrandita, se ricusasse, spenta.
Queste promesse e queste minacce operarono di modo che i consigli ratificarono, non senza però molti discorsi contrari, e molta discordia. Gli amatori dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella repubblica. S'aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi, e nove dei consigli legislativi, che più vivamente degli altri si erano versati al trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia. Di più si fe' dire e stampare, che fossero fautori dell'Austria, e nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire, che è dubbio, se siano o più ridicole, o più false. Ma la persecuzione non si rimase alle parole; perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori.
In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina mandato dal direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvé, giovane di spirito, e che faceva professione di amare la libertà. Si sollevarono gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta un ministro di Francia presso quello stato nuovo, ed ognuno si stava ansiosamente aspettando, che cosa portasse. Gl'indipendenti ne auguravano bene pel fatto stesso; gli aristocrati quieti si rallegravano ancor essi, perchè speravano, che un reggimento più regolato gli preserverebbe dalle improntitudini dei libertini. Fu l'ingresso di Trouvé al direttorio Cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della Francia magnificamente, della Cisalpina amorevolmente. Piacque soprattutto agl'indipendenti il principio del suo favellare, che fu con queste parole: che veniva in nome della grande nazione a salutare l'indipendenza della repubblica Cisalpina. Poi continuando affermava, che era venuto per adempire presso a lei un carico onorevole, e caro all'anima sua, quello cioè di giungere all'ammirazione verso gli eroici fatti, l'amore che inspira la pratica delle virtù; che tal era il desiderio, tale il bisogno del governo Francese, che a questo generoso fine per comandamento di lui, ed in adempimento della sua tenerezza paterna indirizzerebbe egli tutti gli sforzi, tutti i pensieri suoi. Allontanassero pertanto da loro, come egli allontanava da se, le dimostrazioni vane di un'astuta politica, che adula per corrompere, che accarezza per uccidere: allontanassero le sottigliezze, allontanassero le ingannatrici promesse, le seduzioni, la duplicità; animi aperti e leali, confidenza vicendevole, giustizia sincera, probità incorrotta, unione inalterabile fra i magistrati le due repubbliche congiungessero; congiunzione, continuava vieppiù nella sua poesia infuocandosi il giovane ambasciatore, congiunzione gloriosa e toccante; congiunzione giurata sull'ara della patria per difendere i principj della ragione, e per dilatare il culto della libertà. Queste belle poesie, che coprivano brutti fatti, giravano a quei tempi. Rispondeva all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorj, e lingua Italiana sucidissima il presidente del direttorio Constabili: il linguaggio stesso disvelava la debolezza degli animi, la servitù dello stato.
Scriveva sulle prime, cioè il dì trenta maggio, Trouvé a Birago, ministro degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che il governo Cisalpino facesse risoluzioni vigorose contro i fuorusciti Francesi, che si erano ricoverati sul territorio Cisalpino: gli mandava indizi sopra alcuni di loro: voleva, che a termine del capitolo decimoquinto del trattato d'alleanza fra le due repubbliche, essi fuorusciti fossero arrestati, onde il direttorio di Francia gli potesse bandire, e confinar ne' luoghi, che stimerebbe; accusava, quelli di aver combattuto contro la loro patria nelle legioni parricide, come le chiamava, di Condè, questi, di spandere fra i Cisalpini novellamente liberi le dottrine della schiavitù, di calunniare i repubblicani Francesi, e di far sorgere contro di loro il fanatismo, il pregiudizio, e tutti gli odj possibili: voleva finalmente, che il ministro della Cisalpina pubblicasse la sua lettera, affinchè tutti i fuorusciti sapessero, che la legazione Francese dichiarava loro una guerra, la quale non avrebbe termine, se non quando i medesimi cessassero di contaminare la terra della libertà. Rispose il Cisalpino ministro all'ambasciadore di Francia, che il direttorio Cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali, come gli qualificava, contaminati, ed ipocriti. Brutto principio di legazione era certamente quello, che s'annunziava con un'opera inumana, e brutto principio ancora di governo libero era quello che la secondava.
Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciadore nella sua mente e per se, e per comandamento di chi il mandava. Aveva il direttorio osservato, che la vivezza dei libertini era stata cagione, che i popoli Cisalpini, che sono generalmente di natura quieta e savia, si fossero messi in mal umore. I medesimi libertini, siccome quelli, dico i sinceri, che senza freno parlando accusavano continuamente di prepotenza e di ladroneccio gli agenti del direttorio di Francia, operavano, che l'odio contro i Francesi moltiplicasse ogni giorno. Tenevano nei due consigli, massimamente in quello dei giovani, il predominio, e le proposte che vi si facevano, ed i decreti che vi si pigliavano, indicavano molta ardenza negli animi. Già insospettiva la Francia, che sapeva, che la smoderatezza può dare contro ogni cosa, ed ella non voleva che si desse contro di lei. L'opposizione tanto gagliarda, che era sorta nei consigli contro il trattato d'alleanza, accresceva ancora maggior colore a questi pensieri e sospetti, dimodochè divenne certo pel direttorio, che se non domava quei partigiani tanto risentiti di libertà e d'independenza, la sua superiorità in Cisalpina sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Infatti si vedeva, che il medesimo spirito d'opposizione, che nei consigli ed in una parte del direttorio si era manifestato, si radicava anche nei magistrati subalterni, ed ognuno gridava libertà ed independenza, con tali grida accennando non più ai Tedeschi, che ai Francesi. Parve, che fosse arrivato il tempo per Francia di aggravar la mano e di porre il freno, perchè per la pace fatta con l'imperatore d'Austria essendo passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava, che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si appartenesse di farsene un appoggio, introducendovi un vivere più quieto, e che più piacesse ai più ricchi, e notabili cittadini. Per la qual cosa Trouvé, usando così i cattivi, come i buoni, sì veramente che favorissero i suoi disegni, fece in sua casa un'adunanza segreta, in cui si esaminarono i cambiamenti da farsi nella costituzione Cisalpina. Ajutavano questo moto principalmente Sopransi, antico ministro di polizia, per vendicarsi del direttorio che l'aveva licenziato, Adelasio quinqueviro, e Luosi, ministro della giustizia. A loro si accostavano Aldini di Bologna, Beccalozzi di Brescia, Villa di Milano, Martinelli, ed Alborghetti di Bergamo, uomini meno odiati dall'Austria, che amati dai Francesi. Era il progetto di ridurre la constituzione a forma più aristocratica con diminuire il numero dei membri dei consigli, e così ancora quello dei dipartimenti, e dei membri dei magistrati distrettuali. Si voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza ragione osservato, ch'egli si trovava nella constituzione molto impari ai due consigli, e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare la libertà della stampa, e serrare i ritrovi politici, per la quale e pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i cattivi peggiori per l'impeto.