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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV
Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato, e principalmente diretto contro Ginguené, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto la mente inferma, del cammino, a cui si andava con quegli amatori di libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse aspettare. Intanto tutta l'ambascerìa di Francia n'era mossa a romore. Ginguené prese contegno con Cicognara, a cui si era sempre dimostrato amico, ed egli a lui. Poi parendogli cosa d'importanza, ne scriveva al direttorio, con molta instanza pregandolo, operasse efficacemente col direttorio Cisalpino, affinchè Cicognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in ciò andarvi la salute di Francia.
L'ecatombe mentovata nello scritto fu questa. Eransi, come già abbiam narrato, i Piemontesi nemici al nome reale adunati sotto la guida di Seras e di Léotaud sulle rive del lago Maggiore, e già condottisi fin oltre Gravelona, marciavano contro i regj che loro venivano incontro. Erano stati armati, e forniti d'abiti, d'armi e di munizioni con secrete provvisioni del governo Cisalpino. Si noveravano nell'esercito regio circa quattro mila soldati descritti sotto le insegne dei reggimenti di Savoja, della Marina, di Peyer-Im-Off, di Zimmerman, e di Bacman. Le due parti si preparavano alla battaglia. Si combattè tra Gravelona ed Ornavasso. L'ala sinistra dei repubblicani, donde poteva venire il più grave pericolo, pareva fatta sicura dal fiume Toce, insino al quale ella si distendeva; ma siccome tutta l'importanza del fatto dipendeva dal vietare il passo del fiume ai regj, vi aveva Léotaud, per maggior sicurezza, collocato una compagnia di gente eletta, granatieri massimamente. Cominciavano i feritori alla leggiera una battaglia sparsa; poi le genti più grosse l'ingaggiarono per modo, che a mezzo giorno tutte le schiere menavano molto valorosamente le mani. La rabbia era uguale da ambe le parti, siccome di guerra civile, ma l'impeto maggiore da quella dei repubblicani. Questo era cagione, che i regj, quantunque fortemente resistessero, perdevano del campo, e pareva la fortuna inclinare del tutto a favore dei loro avversarj. Tanto bene ordinato era questo moto, sebbene avesse in se qualche cosa di tumultuario, e tanto era l'ardore, che animava a cose nuove quei giovani repubblicani! Mentre in questo modo si mostrava la fortuna favorevole agli sforzi dei novatori, ecco levarsi il grido, che i regj, aspramente urtata e rotta la compagnia guardatrice della Toce, avevano varcato il fiume, ed assaltavano, fremendo, le squadre repubblicane alle spalle. Nè era senza verità il grido spaventevole; imperciochè sei compagnìe di granatieri dei reggimenti di Savoja, e della Marina, con gagliardìa estrema combattendo, avevano e sbaraglialo i guardatori del varco, e passato il fiume, e già assaltavano alle terga i repubblicani. Questa mossa fe' del tutto prevalere i regj; i repubblicani assaliti da fronte e da dietro, e sopraffatti dal numero soprabbondante degli avversari che su quel forte punto si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta; nè fu più possibile ai capi di rannodargli, ancorchè Léotaud in questa bisogna virilmente si adoperasse. Cencinquanta repubblicani perirono nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la battaglia, in poter dei regj. Perì, fra gli altri, Angelo Paroletti, giovane di costume angelico, e d'ingegno maraviglioso. I superstiti furono condotti nel castello di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue condannati a morte.
In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi. Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi, che si accagionassero dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di essere loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguené con instanti parole descritto al suo governo i supplizj del Piemonte. Il direttorio, che poteva meramente intromettersi per umanità, amò meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì diciotto maggio Taleyrand a Ginguené, che i moti d'Italia, quelli sopratutto, che erano sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva; che sapeva il direttorio di certa scienza, che si era ordita una congiura col fine di far assassinare tutti i Francesi in Italia; che sapeva ugualmente, che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in ogni parte, acciocchè soccorsi di Francesi essendo addomandati al tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione s'indebolissero, e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini di uccidergli. Sapeva finalmente, che non contenti al dare compimento a sì scelerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro, che si credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti, faceva Taleyrand sapere a Ginguené ciò, che il direttorio aveva risoluto per salvare e l'Italia e i Francesi e gli amici della repubblica, dai mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto, che si appresentasse al governo del re, della orribile conspirazione favellando tanto evidentemente tramata dalle potenze straniere, e nemiche della Francia, e dimostrasse, volere il governo francese risolutamente, ch'ella e per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere, che prima di tutto, offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a tutti i sollevati, sì veramente che le armi deponessero, ed alle case loro ritornassero; volere, che il re adoprasse le sue forze contro i Barbetti, che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti i mezzi per fare, che le strade tra Francia ed Italia fossero libere e sicure. A queste condizioni, e per allontanar il timore che le repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete. Ordinerebbe anzi a Brune, che apertamente, ed espressamente comandasse ai sediziosi, che dissolvessero le bande loro e si ricomponessero nel riposo. Caso importante, ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizj arbitrarj, tanti supplizj crudeli contro uomini ragguardevoli per virtù e per dottrina, e che solo parevano essere stati condotti all'ora estrema, perchè erano amatori della repubblica Francese, non permettevano che si frapponesse indugio. Se il governo Sardo non accettasse le condizioni offerte, si renderebbe manifesto, essere lui, non più vittima, ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto, fingendo di temerle in palese. Del rimanente badasse bene Ginguené a non chiamare mai i sediziosi, patriotti, ma sì sempre amici della Francia. Nel che io non saprei giudicare, se vi sia derisione o fraude; perchè se i sediziosi erano incitati dall'Austria e dall'Inghilterra, come si dava sospetto, non si vede come si potessero chiamare amici della Francia; e da un'altra parte, se veramente era la Francia amica del re di Sardegna, come tutte le parole espresse suonavano, non si comprende, come ella chiamasse suoi amici i ribelli, che con le armi in mano apertamente combattevano l'autorità e la potenza del re.
Fece Ginguené molto efficacemente il dì ventiquattro di maggio l'ufficio. Vi aggiunse di per se parecchie parti, che furono quest'esse; che si cacciassero i fuorusciti, che attivamente si punissero gli uccisori dei Francesi, che con pena di morte si proibissero le coltella e gli stiletti, che si castigassero quei preti, che seminavano odj contro una nazione amica.
Ma parendo all'ambasciatore, che lo sforzare il re a perdonare ai ribelli, ed il chiamare amici di Francia coloro, che macchinavano contro il suo stato, fors'anche contro la sua vita, non bastassero a constituirlo in compiuta servitù, voleva, ed instava presso al direttorio, che la Francia dovea avere piena ed assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva sforzare il re a cambiare tutti i suoi ministri, ed a richiamare il conte Balbo da Parigi. Su questo punto principalmente insisteva l'ambasciatore: affermava, essere il conte l'agente di tutta la confederazione d'Europa in Parigi, spargervi, e spandervi denari in copia, seminarvi corruttele in ogni parte, rendere co' suoi dispacci il re sicuro, scrivere a Torino, che badassero a stare coll'animo riposato, che i rigori usati e da usarsi sarebbero approvati a Parigi, che gli agenti di Londra, e di Vienna, benchè fossero d'infimo grado, si adoperavano efficacemente contro Francia, e che del rimanente la repubblica rovinerebbe prima del Piemonte. Per tutti questi motivi richiedeva Ginguené, che si rivocasse il conte da Parigi, e che in oltre si eleggesse a sua scelta il successore.
Il governo Piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi minacce, ordinava il dì venticinque di maggio, che si sospendessero sino a nuovo ordine i processi dei non condannati, e si soprassedesse alle pene dei Francesi, che si fossero mescolati nelle ribellioni.
Intanto il dì ventisei di maggio alle ore quattro della mattina i fossi di Casale grondavano sangue. Léotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions ajutante di Léotaud, ambidue francesi di nascita, ma non di servizio, con otto altri parte forestieri, parte Piemontesi, che per aver combattuto nella battaglia di Ornavasso, erano stati dannati a morte, soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo Piemontese, per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente a pensare l'ora insolita dei supplizj, e la tardità della staffetta apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove ore in Trino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle, ed accelerato i supplizj, affinchè la salute arrivasse, quando già morte spaziava. Adunque il sangue, adunque l'ecatombe di Domodossola non bastavano? Bene ciò io debbo dire ai posteri, che questa crudeltà, degna di eterna riprensione, non fu opera di Priocca, ma bensì di chi in queste faccende camminava con più ferocia di lui. Si avvide il ministro in quale taccia incorresse, e perciò scriveva all'ambasciator di Francia, mostrando dolore dell'accidente, accusando il messo di tardanza, e giustificandone il governo. La uccisione massimamente dei due Francesi il travagliava: temeva di qualche subito sdegno di Francia. Per la qual cosa scrivendo a Ginguené spiegava, come il dritto pubblico, ed il dritto naturale avevano sempre voluto, che il giudice naturale di un delitto sia quello del luogo, in cui è il delitto commesso, e che come un Piemontese, che commettesse in Francia un delitto, dovrebbe essere giudicato da giudici Francesi, così un Francese, che commettesse un delitto in Piemonte, doveva esser giudicato da giudici Piemontesi. Levò Ginguené pei due Francesi morti gravissime querele, minacciò il governo Piemontese, scrisse a Parigi, che era oggimai tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso, che si faceva, ch'ella tollerasse le carnificine dei Francesi e degli amici loro, per forza dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo. Poscia le proposizioni del Piemontese ministro riprendendo circa il diritto pubblico e naturale, affermava, esser vere nei casi ordinari, ma non negli straordinari, e che quello era caso straordinario, da qualificarsi in realtà dritto di conquista, e quasi di guerra aperta sotto nome di pace e d'alleanza: parole verissime, che se giustificavano quello, che la Francia faceva contro il re, giustificavano del pari quello, che si supponeva che il re facesse contro la Francia. Adunque quello era tempo da cannoni, non da discorsi, da manifesti di guerra, non da proteste di amicizia.
Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria di Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più molesti; poichè crescendo di numero e d'ardire, sboccavano sovente a far correrìe sui territorj regj, dando loro facile adito i comandanti Liguri per le terre della repubblica. Fra le altre ci fecero una spedizione piena di molta audacia contro Pozzuolo, terra estrema verso le frontiere Liguri, e custodita da un forte presidio. Partiti con una squadra di circa quattrocento soldati al tramontar del sole del dì ventisei d'aprile, e viaggiato tutta la notte, arrivarono il giorno seguente improvvisi sopra Pozzuolo, ed investita la terra, dopo breve battaglia, la recarono in poter loro, con aver fatto prigioni circa quattrocento soldati. Portaronsi i Carrosiani molto lodevolmente in Pozzuolo, e non fecero ingiuria ai soldati cattivi. Poi se ne tornarono a Carrosio, donde di nuovo uscivano spesso a travagliare i confini.
Non ignorava il governo Piemontese, che i moti di Carrosio avevano più alte radici, che quelle dei repubblicani Piemontesi, perchè Brune e Sottin, segretamente e palesemente gli fomentavano. Tuttavia, non volendo mancare al debito della conservazione degli stati, si era deliberato a mostrar il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza traversare il territorio Ligure per arrivarvi, aveva rappresentato al governo Ligure, che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano liberamente per venir ad invadere il territorio Piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica, come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio i nemici di sua maestà, che ne abusavano per offenderla, tanto meno dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o dissipargli essa medesima, o dare alle genti regie quel passaggio stesso, ch'ella dava a' suoi nemici.
Rispose la repubblica, che non consentirebbe mai a dare il passo; solo prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio Ligure per andar ad assaltare i regj, ed intraprendevano le vettovaglie, che per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e svaligiavano i corrieri. Nel che non la perdonarono nemmeno al corriero Ligure, a cui tolsero i pieghi diretti ai ministri regj, ed aprirono quelli dei ministri di altre potenze.
Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza qualche perizia militare. Avvertinne il governo Ligure, avvertinne l'ambasciator di Francia, avvisando, che solo fine della spedizione era di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo dominio, di dar quiete a' suoi stati.
Sentì sdegnosamente l'ambasciadore questa mossa d'armi, e rescrivendo al ministro Priocca, intimava, facesse incontanente, se ancor fosse tempo, fermar le genti, che marciavano contro Carrosio, perciocchè non fosse possibile di assaltar questa terra senza violare il territorio Ligure; la quale violazione non poteva non portar con se gravi, e pericolosi accidenti. A questo modo l'ambasciatore presso ad una potenza, non solamente amica, ma ancora alleata, sofferiva pazientemente, che i ribelli di lei passassero pei territorj Liguri per andarla ad assaltare, e non tollerava, anzi si sdegnava, se essa potenza per riacquistare il suo toltole violentemente dai ribelli, attraversasse i medesimi territorj pei quali non avendo altra strada, le era necessità di passare.
Il re, stretto da tanti nemici, ed oppresso da chi doveva l'aiutare, non si perdeva d'animo, volendo, che il suo fine fosse, se non felice, almeno generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione avesse che fare nel dominio della forza. Spiegava il regio ministro, che a norma dei principj del diritto pubblico, quando un principe è impossibilitato per impedimenti naturali a pervenire ad un territorio che gli appartiene, e che gli è stato tolto, se non col passare per quello, che da ogni parte il circonda, non vi poteva essere dubbio sulla legittimità del passo; e poichè la repubblica Ligure non aveva voluto nè rimuovere le cagioni, nè dare il passo, siccome dell'una e dell'altra cosa era stata richiesta, così a lei, non al re la violazione del territorio doveva imputarsi. I soldati regj, attraversato il territorio Ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio, e si facevano padroni della terra. Poscia, per maggior sicurezza, munirono di guardie tutte le alture circostanti.
A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano si risentirono gravemente; le cose che scrissero, sono piuttosto pazze che stravaganti. Un Francesco Serra, figliuolo che fu di Giacomo, avanzò ogni altro con una scrittura tanto esorbitante, ed eccedente ogni modo di procedere civile, che se sola passasse ai posteri, non so con qual nome chiamerebbero l'età nostra. Ma Sottin non si ristava alle parole, anzi accesamente appresso al direttorio Ligure instando, operò di modo che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nemico della repubblica, e ad intimargli la guerra. Brune si rallegrava, che le cose gli andassero a seconda, ed aprissero l'adito a' suoi disegni ulteriori. Non dubitava, che quanto più il re fosse stretto da difficoltà, e quanto più bassa la sua fortuna, tanto meno sarebbe renitente al consentire alla Francia quello, ch'egli aveva in animo di domandargli, e che era piuttosto di estrema, che di somma importanza; proponendosi in tale modo il generale della repubblica di tirare a benefizio di lei la guerra, che fomentava egli medesimo sottomano contro Carlo Emanuele.
Mentre Sottin spingeva la repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguené voleva impedire, che egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di questa discordia. Al che il ministro rispondeva proponendo, a fine di prevenire il sangue, e di mostrar desiderio di pace, che Carrosio si sgombrasse dalle genti regie, e si depositasse in mano dei Francesi. Solo domandava, che la repubblica Ligure cessasse le ostilità, e non desse più ricetto a masse armate contro il Piemonte. Non dispiacque all'ambasciadore la proposta, e mandava il suo segretario a Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo Piemontese, non aspettate le intenzioni di Brune, volendo, o per amore di concordia, o per timore di Francia gratificare all'ambasciadore, aveva operato, che le truppe si ritirassero da Carrosio, e ritornassero nei dominj Piemontesi oltre i confini Liguri. Per la ritirata dei regj non cessavano le ostilità; anzi i Liguri venuti avanti coi novatori Piemontesi sotto la condotta del generale Siri s'impadronirono, dopo un violento contrasto, della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti si erano fatti signori di Loano. I soldati Piemontesi presi in questo fatto furono condotti dai vincitori a guisa di trionfo nel gran cortile del palazzo nazionale di Genova, dove sedevano i consigli legislativi. Sorsero molte allegrezze. Le solite imprecazioni contro i re, massime contro quel di Sardegna, montarono al colmo.
Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per far calare il re a quello, che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille spaventi. Già Ginguené parlando con Priocca aveva tentato per ogni modo di spaventarlo. Affermava, che in ogni parte apparivano segni di una feroce congiura contro i Francesi in Italia; che già Napoli armava; che già l'imperatore empiva gli stati Veneti di soldati; che in ogni parte si fomentavano sedizioni; che in ogni parte con infiammative predicazioni si stimolavano i popoli contro i Francesi; che questo fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica Francese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato d'affari d'Inghilterra? che essi potevano dar denari al re, dei quali quale uso egli facesse, ben si sapeva; che i fuorusciti Francesi, che le macchinazioni dei preti, che la parzialità dei magistrati, che il parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Francesi della gente in ufficio non lasciava luogo a dubitare, che qualche gran macchina si ordisse contro Francia.
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