
Полная версия
Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II
Da questa insidia, e da queste minacce si rendeva chiaro, quali dovessero essere le deliberazioni del provveditor Veneto; posciachè, prescindendo anche dagl'indegni oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto una città nobilissima del territorio Veneto, quell'affermare che fra sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma ancora necessaria una subita presa di armi dal canto dei Veneziani. Quello era il momento fatale della Veneziana repubblica, quello il momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento, non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente sparse per fondare il dispotismo di un capitano barbaro. Che se Foscarini non aveva questo mandato dal senato, l'aveva dal cielo, favoreggiatore delle cause pie, e nemico dei tiranni, l'aveva dalla sua nobil patria, l'aveva dal consentimento di tutti i buoni gonfi di sdegno all'aspetto di sì inudita empietà. Non con le umili protestazioni, non col privar Verona delle sue difese doveva Foscarini rispondere a Buonaparte, ma con un suonar di campana a martello continuo, con un predicar alto di preti contro i conculcatori della sua innocente patria, con un dar armi in mano a uomini, a donne, a fanciulli, con un fracasso di cannoni incessabile dalle lagune all'Adige, dalle bocche del Timavo all'emissario di Lecco. Certamente in un moto tanto universale molte vite sarebbero mancate, molte città distrutte, Verona forse data alle fiamme, ma la repubblica fora stata salva. Forse alcuni sentiranno raccapriccio all'udir rammentare di queste battaglie di popoli. Pure le usarono contro i Francesi gli Austriaci, sebbene non prosperamente, nell'ottocentonove, e furono lodati: le usarono contro i Francesi medesimi prosperamente gli Spagnuoli nell'ottocentodieci, i Prussiani nell'ottocentotredici, e furono lodati; le vollero usare i Francesi contro gli Europei nell'ottocentoquindici, e se non furono lodati, non furono neanco biasimati. Ora non si vede perchè non sarebbe stato lodevole ai Veneziani di usarle: che se gli Austriaci, gli Spagnuoli, i Prussiani, ed i Francesi hanno qualche privilegio, quando ne va la indipendenza, anzi l'essere, od il non essere dello stato, di difendersi a stormo, sarìa bene che il mostrassero, affinchè gl'Italiani si acquetino a tanto diseredamento.
So che alcuni diranno, che il governo di Venezia era cattivo; ma si risponderà dagli uomini savj, che non tocca ai forestieri il giudicare della natura del governo, e meno ancora il correggerla; nè so se muova più a sdegno che a compassione il pensare, che queste querele dottoresche sulla mala natura del governo Veneto vengono principalmente da quelli, che hanno trovato ottimo il governo del direttorio, che voleva far tagliar la testa ai naufragati, e quello di Buonaparte, che teneva prigioni per corso d'anni, ed anche in vita senza forma di processo gl'innocenti. Fatto sta, che poichè si voleva rendere i popoli Veneziani servi dei forestieri, e' bisognava con risoluzione magnanima fare, che i popoli Veneziani si salvassero da se; ma Niccolò Foscarini, in vece di gridar campane, come Piero Capponi, corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei quali consisteva la principale difesa, l'abbandonassero, e che così i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di Buonaparte. Il non aver usato il rimedio dei popoli non solo fu fatale per l'effetto, ma fu anche inutile per la fama; imperciocchè ed i partigiani e gli storici pubblicarono a quei tempi, e tuttavìa pubblicano, sebbene bugiardamente, ma per giustificare la sceleraggine commessa contro Venezia, che se Venezia non fece, volle fare lo stormo contro i Francesi, già prima che succedesse la sollevazione di Verona del novantasette, che racconteremo a suo luogo. La qual cosa se fosse tanto vera, quanto veramente è falsa, non si sa che si volesse significare il manifesto di Brescia. So che dagli adulatori di Buonaparte viene, sebbene con la solita falsità, accagionato di aver macchinato questo stormo Alessandro Ottolini, podestà di Bergamo a quei tempi, uomo meritevole di ogni lode per la fedeltà e la sincerità sua verso la patria; ma egli solamente s'ingegnava di mantenere le popolazioni Bergamasche affezionate al nome Veneziano; e se quando s'impadronirono i Francesi di Verona, divenne Ottolini più vigilante e più attivo, e fece opera che le popolazioni si ordinassero, il fece perchè le minacce ed i fatti di guerra del capitano del direttorio a ciò lo sforzarono. Quell'ordinarsi accennava, non un voler nuocere altrui, ma un impedire che altri nuocesse a lui, e se Ottolini si armava, avrebbe fatto meglio l'armarsi molto più. Certamente avrebbe egli mancato del suo dovere verso la patria, se in tanto romore di guerra, non solo imminente, ma presente negli stati di Venezia, non avesse procurato di serbarsi padrone di se medesimo, e capace di mantenere con buoni ordinamenti salva la provincia commessa alla sua fede rispetto ai due nemici, che venivano a rapire le sostanze Veneziane, e ad ammazzarsi tra di loro sulle terre della repubblica. Ma nei tempi scorretti che abbiamo veduto, fu costume il chiamar traditori, ed il perseguitare con ogni sorte di pubblico improperio coloro, che più sono stati fedeli alle loro patrie, come se fosse stato debito loro il servire piuttosto a Buonaparte nemico, che ai principi proprj ed alla patria, ed a quanto ha la patria in se di caro e di giocondo. Così fu infamata la virtù di Alessandro Ottolini e di Francesco Pesaro in Italia, di Stadion in Austria, di Stein in Prussia: così anche furono condotti a morte Palmer di Baviera, Hofer di Tirolo: così finalmente i magnanimi Spagnuoli furono chiamati col nome di briganti. Queste cose chi generoso scrittore fosse, dovrebbe con disdegnosa e riprenditrice penna altamente dannare, non cercar di scusare, ora con le parole ed ora col silenzio, l'inganno, l'ingiustizia, e la tirannide.
Come prima si sparse in Verona, per la venuta del Foscarini, che i Francesi vi sarebbero entrati per alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno spavento tale, che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani gli perseguitavano. Il popolo raccolto in gran moltitudine sulle piazze e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore accusava la debolezza di Foscarini, e le perdute sorti della repubblica. Lo stare pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la strada da Verona a Venezia impedita da un lungo ingombro di carrozze, di carri e di carrette, che le atterrite famiglie trasportavano con quelle suppellettili, che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto raccorre. Facevano miserabile spettacolo le donne coi fanciulli loro in braccio od a mano, che piangendo abbandonavano una sede gradita per amenità di sito, graditissima per una lunga stanza. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarj dei poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più bassi, od oltre le acque del mare terre non ancora percosse dalla furia della guerra.
Entrarono il dì primo giugno i Francesi in Verona. Quivi Buonaparte lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose piazze, i tempj, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto, per indurre opinione ch'egli elevasse l'animo alla grandezza Romana, l'Arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Così si verificava, secondo il solito, la promessa di Buonaparte del voler solo occupare i ponti. Al medesimo modo, pure secondo il solito, mantenne le promissioni da lui fatte nel manifesto di Brescia del voler pagare in contanti tutto ch'ei richiedesse in servigio dei soldati; imperciocchè essendosi sparsi nelle campagne testè felici del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, vi facevano tolte incredibili, che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza medesima, con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto alla umana generazione è necessario, così grave e così stolto, come in questa terribil guerra si fece. I popoli intanto vessati in molte forme, e cadendo da una lunga agiatezza in improvvisa miseria, entravano in grandissimo sdegno, e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor più gravi.
A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì ventinove giugno, salve le robe, e le persone, eccettuati solo i fuorusciti Francesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Trovarono dentro la fortezza cencinquanta cannoni grossi, sei mila fucili, polvere e palle in proporzione, con molto bestiame vivo. Fu questo acquisto di grande importanza ai Francesi, perchè era il castello come un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle dei repubblicani. Per solennizzare questa vittoria, si fecero molte feste, balli e conviti, dai repubblicani Francesi meritamente, dai repubblicani Italiani per imitazione.
La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia; perchè trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto, e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro; quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano oltre a ciò a domarsi il papa, ed il re di Napoli, e ad espilare il porto di Livorno. Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città, forse più di ogni altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che conoscendo bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio forestiero.
Aveva il senato di Bologna anticonosciuto, che per la vittoria di Lodi diveniva il generale Francese signore di tutta la Lombardìa, quanto ella si distende dall'Alpi agli Apennini. Però desiderando di preservare il Bolognese, e massimamente la capitale, dalle calamità che accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creato un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò veduto il generalissimo, il pregassero di aver per raccomandata la patria loro. Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle cose, siccome quegli, che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva non solo la ruina del suo stato temporale, ma ancora novità perniciose alla religione, specialmente se come nemici allo stato pontificio si accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse a Milano, e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che dal pontefice gli era stato raccomandato. Furono dal generale umanamente uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloquj secreti di molti gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà statuita già fin dai tempi della lega Lombarda, e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai popoli di quel territorio: Buonaparte che sel sapeva, promise ogni cosa, e più di quanto i deputati avevano domandato: partironsi molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto le sue genti marciavano. Comparivano il diciotto giugno in bella mostra, e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e schieratasi avanti al palazzo pubblico faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo dei Francesi, e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che attendessero quietamente ai negozj; comandava che rispettassero i soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi o con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno la retroguardia: arrivavano la notte Saliceti, e Buonaparte.
Era costume di Buonaparte, per fare che i popoli si muovessero più facilmente contro i governi loro, e sentissero meno acerbamente il suo dominio, di dare loro speranza di liberargli, e spesso anche gli liberava da quanto essi governi avevano o di più odioso o di più gravoso; perchè in tutti i reggimenti sono sempre di questi tasti, che fanno mal suono ai popoli. Aveva Bologna perduto la sua libertà, od almeno quello che stimava libertà, dappoichè la somma delle faccende dello stato era venuta in mano della chiesa; la qual cosa i Bolognesi sopportavano molto di mala voglia. Oltre a questo era Bologna stata spogliata dai pontefici del dominio di Castel Bolognese, terra grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia. Nè ripugnavano a questa ricongiunzione i castellani medesimi, ricordevoli tuttavìa del dolce freno col quale erano stati retti. Buonaparte, informato dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva il possesso di Castel Bolognese, ed aboliva ogni autorità del papa, reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed independente. Nè mettendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti legato, se ne partisse immantinente da Bologna. Indi chiamato a se il senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che essendo informato delle antiche prerogative e privilegi della città e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità sovrana al senato intiera e piena ritornasse: darebbe poi a Bologna, dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al popolo piacesse, e più all'antica si assomigliasse: prestasse intanto il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo giuramento in cospetto del senato giurassero.
Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur un particolare seggio riceveva Buonaparte il giuramento dei senatori in questa forma: «A laude dell'onnipotente Iddio, della Beata Vergine, e di tutti i Santi, ad onore eziandìo, e riverenza della invitta repubblica di Francia, noi gonfaloniere e senatori del comune e popolo di Bologna giuriamo al signor generale Buonaparte, comandante generalissimo dell'esercito Francese in Italia, che non faremo mai cosa contraria agl'interessi della stessa invitta repubblica, ed eserciremo l'ufficio nostro, come buoni cittadini, rimosso ogni qualunque odio o favore, e tanto giuriamo nella forma patria, toccando gli Evangeli».
Prestatosi dal senato il giuramento, si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici; il che fece in tutta Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova, e con qualche speranza grata al senato, perchè da servo si persuadeva di esser divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori.
Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro. Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano i popoli, parendo loro che le contribuzioni fossero opera piuttosto da nemico, che da alleato; conciossiachè con questo nome aveva il generalissimo chiamato la repubblica di Bologna. Pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene, che i soldati vivano del paese che hanno. Solo si sdegnavano dello scialacquo, perchè conformandosi quietamente al fornire le cose necessarie, non potevano tollerare di dar materia ai depredatori, che i soldati, e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto, che Saliceti e Buonaparte, ai quali il direttorio aveva dato in preda l'Italia, portavano alle proprietà ed alla religione. Imperciocchè, poste violentemente le mani nel monte di pietà, lo espilarono per far provvisioni, come affermavano, all'esercito. Solo restituirono i pegni che non eccedevano la somma di lire ducento, come se fosse lecito rapire o non rapire, secondo le maggiori o minori facoltà dei rapiti. Ma temendo gli autori di tanto scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si togliessero le armi ai cittadini.
I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni, il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio, finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli, ambasciadore di Bologna. Creato dai vincitori a Ferrara un municipio d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione di scudi romani in contanti, e di trecento mila in generi. Queste angherìe sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara; ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza da Imola; perchè concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro i conquistatori, si sollevarono, gridando guerra contro i Francesi. Pretendevano alle parole loro, e ne fecero anche fede con un manifesto, perchè si accorgevano che soli, e senza un moto generale, non potevano sperare di far effetto d'importanza, la religione, la salvezza delle persone e delle proprietà, la libertà e l'indipendenza d'Italia. Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e fecero una massa di popolo molto concitata, e risoluta al combattere. I preti gli secondavano, dando a questa moltitudine il nome di oste cattolica e papale. Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa squadra di fanti e di cavalli, alla quale era preposto il colonnello Pourailler. Comandava intanto pubblicamente, avessero i Lughesi a deporre le armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol facesse, fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti, ministro di Spagna, interposto la sua mediazione, perchè da una parte i Francesi perdonassero, dall'altra i Lughesi, deposte le armi, si quietassero. Ma fu l'intercessione sdegnosamente rifiutata da quei popoli, più confidenti di quanto fosse il dovere, in armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire, per la ostinazione loro, al cimento dell'armi, i Francesi si avvicinavano a Lugo, partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che marciava con troppa sicurezza, diede in una imboscata, in cui restarono morti alcuni soldati. Non ostante, volendo il capitano Francese lasciar l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narrasi anzi da Buonaparte, che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione dei messaggi di pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Francesi ed i sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto valore. Finalmente i Lughesi rotti e dispersi furono tagliati a pezzi con morte di un migliajo di loro, avendo anche perduto la vita in questa fazione ducento Francesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato; rimasero per lungo tempo visibili i vestigi della rabbia con cui si combattè, e della vendetta che seguitò. Furono terribili le pene date dai repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che seguitarono. Comandava Augereau, che tutti i comuni si disarmassero, che le armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore, fosse ucciso; ogni città, o villaggio, dove restasse ucciso un Francese, fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Francese, fosse ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso; chi facesse adunanze di gente armata, o disarmata, fosse ucciso. Tali furono gli estremi della guerra Italica, giusti per la conservazione dell'esercito di Francia, ingiusti per le cagioni ch'egli stesso aveva indotte; perchè il volere che i popoli ingiuriati non si risentano, è voler cosa contraria alla natura dell'uomo.
Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto nei feudi imperiali prossimi al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Francesi. Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale Lannes con un buon nervo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce, e pel terrore dei supplizj.
Le vittorie dei repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia, l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo spavento Roma. Ognuno vedeva che il resistere era impossibile, e l'accordare pareva contrario non solo allo stato, ma ancora alla religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni, che un vincitore acerbo per se, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe dal pontefice richiesto. Nè meglio si poteva antivedere, se avrebbe portato rispetto alla città stessa di Roma, parendo, che siccome sarebbe stato un gran fatto l'occupazione di lei, così Buonaparte cupidissimo di gloria l'avrebbe mandata ad effetto. E quale disordine, quale conculcazione delle cose sacre e profane prodotto avrebbe la presenza d'uomini poco continenti dalle cose altrui, e poco aderenti alla religione, di cui era Roma seggio principale? Per la qual cosa, come in tanto pericolo i privati uomini non avevano più consiglio, così poco ancora ne aveva il governo, perchè le armi temporali mancavano, le spirituali non valevano, il nome di Roma era più sprone che freno, e la dignità papale, che pure aveva frenato ai tempi antichi un capitano barbaro, era venuta in derisione. I ricchi pensavano alla fuga, come se il nemico già fosse alle porte. Gran tumulto, gran folla e gran concorso erano, principalmente a porta Celimontana di gente di ogni sesso, di ogni grado e di ogni condizione, che fuggendo dal minacciato Campidoglio, s'incamminava spaventata verso Napoli. Temevasi la cupidigia del nemico, temevasi la temerità dei cittadini.
Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore dei suoi consiglieri e del popolo, serbava tuttavìa la solita costanza, aveva commesso al cavaliere Azara ed al marchese Gnudi, andassero a rappresentarsi a Buonaparte, e procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte, in nome per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà, perchè non gli era nascosto che l'imperatore, finchè teneva Mantova, non avrebbe omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi stati in Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni, a frenar l'impeto delle sue armi contro lo stato pontificio. Laonde concludeva, il dì ventitrè giugno, una tregua coi due plenipotenziarj del papa, in cui fu stipulato, che il generalissimo di Francia, e i due commissarj del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio che il governo Francese aveva verso Sua Maestà il re di Spagna, concedevano una tregua a Sua Santità, la quale tregua avesse a durare insino a cinque giorni dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in Parigi fra i due stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse a nome del pontefice gli oltraggi e i danni fatti a' Francesi negli stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i nemici della repubblica si chiudessero, ai Francesi si aprissero; l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona con tutte le artiglierìe, munizioni e vettovaglie si consegnasse ai Francesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue ad elezione dei commissarj, che sarebbero mandati a Roma; specialmente, poichè i repubblicanuzzi di quel tempo la volevano far da Bruti, i busti di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre a questo cinquecento manoscritti ad elezione pure dei commissarj medesimi cedessero in potestà della repubblica; pagasse il papa ventun milioni di lire tornesi, dei quali quindici milioni e cinquecento mila in oro, od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinquecentomila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre legazioni; il papa desse il passo ai Francesi ogni qualvolta che ne fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.