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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II
Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte de' suoi tesori; il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza, che disposto per la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse, oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di altri due milioni: di più fra quarantott'ore rispondessero del sì, o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi, e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a contanti quanto abbisognasse loro passando per gli stati del duca.

A questo modo fu trattato il duca di Modena, che non aveva mai commesso ostilità contro la Francia, sotto titolo ch'ei fosse feudatario dell'impero d'Alemagna; qualità assai vana, che a niuna soggezione verso il corpo germanico obbligandolo, il lasciava intieramente libero di accostarsi a quale potenza più gli venisse a grado. Di questo non fu mai imputato, e solo si mise in campo questo pretesto, quando giunse il momento dello spoglio.

Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima che partisse, con surrogar loro magistrati, e uomini o partigiani, o dipendenti da Francia, e di procacciar denaro e fornimenti, che l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual cosa, in luogo della giunta di stato, creava la congregazione generale di Lombardìa, ed al consiglio dei Decurioni surrogava un magistrato municipale, in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di grande stato. Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini, Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato, ed a lui si riferivano gli affari più gelosi e più segreti.

Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte sulla conquistata Lombardìa una gravezza di venti milioni di franchi, e faceva abilità ai commissarj, e capi di soldati di torre per forza i generi necessari, con ciò però che dessero polizze del ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua era, ch'ella cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati, e sul corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa dall'intenzione la esecuzione: ma i ricchi, sì perchè si sentivano gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con sinistre insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti, e licenziavano i servitori, che, poco bene disposti in se per natura vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni dovessero continuar a pagare i salarj ai servitori. Ma fu il rimedio insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo, perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate di generi di ogni spezie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarj, ai comandanti, agli uffiziali talmente il costringevano, che non era più padrone di se medesimo, stanziava una imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi Milanesi. Non parlo dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta una opinione politica ardentissima, e molto diversa da quella dei popoli, fra i quali egli vivea. Dico questo generalmente, e massime dei primi, perchè degli uffiziali subalterni, molti o per gentile educazione, o per bontà di natura in tale guisa si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato, che si conciliavano la benevolenza di ognuno, e si era, per consuonanza, talmente addomesticata la natura di questi con quella dei Milanesi, che aveva superato l'impressione prodotta dal terrore delle armi, e dalle molestie di coloro, che in vece di servir di freno, come era richiesto ai gradi loro, con l'esempio e coi comandamenti, servivano di sprone alle male opere che si commettevano. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi, che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villarecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva ed a chi non aveva, e così agli amici, come ai nemici del nome Francese. Aggiungevansi le minacce e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo, che i cattivi fatti. Le quali cose molto imprudentemente si facevano: perchè oltre all'indegnazione dei popoli si consumava malamente in pochi giorni quello, che avrebbe potuto bastare per molti mesi, ed un paese fioritissimo inclinava rapidamente ad una estrema squallidezza. Ciò rendeva i Francesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi, o per le opinioni parteggiavano pei Francesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti ajutavano l'impresa di una gente, che venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Certamente gridavano, e più assai che non sarebbe stato conveniente, i patriotti Italiani il nome di libertà; ma vana cosa era sperare, che nell'animo dei popoli consumati, ed offesi dall'insolenza militare prevalesse un nome astratto sopra un male pur troppo reale: detestavano una libertà che si appresentava loro mista d'improperj, e di ruberìe. Adunque lo sdegno era grande, la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca, e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio Francese in Italia; che quella terra era pur tomba ai Francesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate, o gli eccidj; nè permetterebbe Iddio, che gente nemica al nome suo stanziasse lungamente in quell'Italia, sede propria del suo santo vicario; già sventolar di nuovo le insegne d'Austria tra l'Adda ed il Ticino, già calar grossi imperiali eserciti dalle Tirolesi rupi, e già vacillare le armi in mano all'insolente Francese. Ora esser tempo di armarsi, ora di sorgere a difensione di quanto ha l'uomo di più sacro, di più caro e di più reverendo; gradire Iddio, e premiar coloro che hanno la patria più che la vita a cuore: nè doversi dubitar dell'evento, perchè già le repubblicane insegne fuggivano cacciate dalle imperiali aquile. Cresceva il mal contento, se ne aspettavano effetti funestissimi. Portò la fama in quei tempi, che principal autore di queste insinuazioni fosse il conte di Gambarana, uomo attivo e molto avverso ai Francesi. Andava egli seminando e le voci suddette, e di più, che i Francesi volevano far per forza una leva di gioventù Lombarda per mandarla, con le genti Francesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore. Quando gli animi sono sollevati, è pronta la credenza ad ogni cosa: e per quanto i magistrati eletti, e gli altri aderenti dei Francesi si sforzassero di persuadere ai popoli il contrario, non dimettevano punto la concetta opinione, anzi vieppiù vi si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe in Milano un fatto veramente enorme che gli fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti, e gioje di grandissimo valore. S'aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano, secondo l'uso d'Italia, a doti di fanciulle povere, e nel monte dai parenti depositate si serbavano al tempo dei maritaggi loro. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà, non solo perchè era segno di fede pubblica, che sempre incontaminata si dee serbare, ma ancora perchè le cose depositate, la maggior parte, appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose.

Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte, e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio, che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire, che non si fosse portato più rispetto alle proprietà dei poveri, che a quelle dei ricchi; il che in parte era anche vero. Le quali cose giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva delle campagne, alle improntitudini dei patriotti, dei quali chi predicava una cosa che il popolo non intendeva, e chi dava materia a credere con l'esempio che la libertà fosse il mal costume, partorirono una indegnazione tale, che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Francesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale frenando l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto nei contorni di Milano, massimamente verso Porta Ticinese; perchè viaggiando e Francesi e patriotti Italiani, o soli o con poca compagnìa per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservargli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori, ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Francesi, e contro i giacobini, come gli chiamavano, era giunto agli estremi: e credendo i Binaschesi, con tutti coloro che dai vicini luoghi erano concorsi in quella terra posta sulla strada maestra a mezzo cammino fra Milano e Pavia, che ogni più crudele fatto fosse lecito contro chi spogliava i monti di pietà, e secondo l'opinione loro conculcava la religione, ammazzavano quanti Francesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Francesi, furono barbaramente trucidati da quella gente, in cui più poteva un intemperante furore, che un desiderio giusto di difendere la patria contro i forestieri, e contro chi gli favoriva.

A questo moto dei Binaschesi, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi dei Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia, essendo ciascuno armato di fucili vecchi, di pistole, di sciabole, di scuri, di bastoni, o di qualunque altra arma che il caso, od il furore avesse posto loro innanzi. Chi poi non accorreva per la speranza dei soccorsi Tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che si era levata fra la gente tumultuaria, che i Francesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, che dagli amatori del nome Francese si era fatto sulla piazza, con atterrare anche nel fatto medesimo una statua equestre di bronzo, che si credeva antica e di un imperator Romano, si erano sollevati la mattina dei ventitre maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Fra le grida, lo schiamazzo e le risa della sfrenata moltitudine, i fanciulli intorno all'albero affollatisi, facevano pruova d'atterrarlo. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le turbe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello, rispondevano con grandissimo terrore di tutti quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti nelle parti più segrete delle case, perchè il popolo gli chiamava a morte: pure più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte, ed attendevano trepidamente a quello che in un caso tanto pericoloso avesse a portar la fortuna per salute, o per esterminio. I soldati di Francia segregati erano presi: i rimanenti, non erano più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoveravano nel castello, dove per mancanza di vitto era certamente impossibile che si potessero difendere lungo tempo. Arrivavano in questo punto i contadini, e congiuntisi coi cittadini aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per se, perchè sapevano che il popolo infuriato dà ugualmente contro gli amici e contro i nemici, e più volentieri contro chi ha ricchezze che contro chi non ne ha, o che volessero ajutare quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con giusta lance le cose, non vedendo comparire da parte alcuna soccorsi in favore degli avversarj, davansi in preda all'allegrezza, e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardìa, e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale Francese Haquin, il quale non sapendo di quel moto, se ne viaggiava a sicurtà verso l'alloggiamento principale di Buonaparte; nè così tosto ebbe posto il piede dentro le mura, che minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati Francesi, che disarmati ed incerti della vita o della morte se ne stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto dai municipali nella parte più rimota del palazzo, e facevano ogni sforzo per sedare quel cieco impeto, che fremeva loro intorno. Ma ogni parola era vana, perchè il furore aveva cacciato la ragione. Finalmente il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e trovato Haquin lo voleva ammazzare; ma i municipali, facendogli scudo dei corpi loro, il preservavano. Nondimeno, ferito da bajonetta in mezzo alle spalle, il traevano per le contrade fra una calca immensa, e chi si avventava, come bestia feroce, contro di lui con orribili minacce, e chi con gli archibusi inarcati il voleva uccidere. Pure prevalse contro tanta furia la virtù dei municipali, che con memorabile esempio, e degno di essere raccontato nelle storie come caso meritevole di grandissima commendazione, amarono meglio esporsi al morir essi, che sofferire che avanti al cospetto loro il generale Francese morisse. Mentre alcuni si adoperavano per la salute di Haquin, altri s'ingegnavano di salvar la vita dei Francesi presi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Così non pochi Francesi, riscossi da un gravissimo pericolo, restarono obbligati della vita alla umanità di magistrati Italiani, che privi di armi altro mezzo non avevano per frenare un popolo fuor di se, che le esortazioni, e l'autorità del nome loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine, a Buonaparte, che ritornata Pavia a sua divozione, gli voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli, e con le più instanti parole pregandolo, perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo concitato, che a concitar il quieto, a uomini non usi a casi tanto strani, e che per una generosità molto insigne, e con pericolo proprio, erano cagione ch'egli e più di cencinquanta soldati Francesi superstiti pregare il potessero di dar la vita a coloro, ai quali erano della vita obbligati. Gran conforto è stato il nostro del poter raccontare l'atto pietoso di questo buono e valoroso Francese in mezzo a tante ruine, a tante stragi, a tante devastazioni, ed a tanti vicendevoli rimprocci, sempre condannabili, perchè sempre esagerati, della perfidia Italiana, e della immanità Francese.

Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia, non già perchè vi si temessero dai più i Francesi, avendo la rabbia tolto il lume dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano, che quella furia, per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio della misera città. I giorni spaventevoli, le notti più spaventevoli ancora, ridotta quella sede nobilissima a dover perire o per furore degli amici, o per vendetta dei nemici. Così passarono le due notti dei ventitre ai venticinque: ma già si avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si credeva sicura della vittoria. Era giunto il giorno venticinque maggio, quando udissi improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco. Spargevano, fossero i Tedeschi; ma i più nol credevano, ed incominciavano a trepidar dell'avvenire. I Pavesi soprattutto stavano molto atterriti, perchè all'estremo punto i villani non conosciuti, e di domicilio incerto, se ne sarebbero fuggiti; ma la città, bersaglio certo ad un nemico sdegnato, sarebbe stata sola percossa da quel nembo terribile.

Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto a Lodi con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza, perchè quest'incendj più presto si spandono che non si estinguono, tornossene subitamente indietro, conducendo con se una squadra eletta di cavalli, ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato ostinazione uguale alla rabbia, o forse volendo risparmiare il sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto applicando l'animo a far sicuro con la forza quello, che le esortazioni non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati, e gli teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già incontrati per via i Binaschesi, facilmente gli rompevano, facendone una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da diverse bande il fuoco, l'arsero tutto: il funesto incendio indicava al mondo, che strage chiama strage, fuoco chiama fuoco, e che male con forche, e con bastoni, e da gente tumultuaria si resiste a bajonette, a cannoni, a battaglioni ordinati. Rimasero lungo tempo in essere le ruine affumicate e le ceneri accumulate dell'infelice Binasco, terribili segni a chi stava ed a chi passava.

Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e fattosi al balcone del municipale palazzo orava instantemente alle genti, che si erano affollate per ascoltarla. Rappresentava la disfatta intiera dei Tedeschi, la vittoria piena dei Francesi, la soggezione universale, l'incendio di Binasco, le repubblicane schiere avvicinantisi pregne di vendetta, Buonaparte già vicino, vincitore di tanti eserciti, e solito piuttosto a compatire a chi s'arrende, che a perdonare a chi resiste. Pensassero a Dio, che condanna ogni eccesso; pensassero alle mogli ed ai figliuoli loro oramai vicini a divenir orfani dei mariti e dei padri condotti al precipizio da un insensato furore; avessero risguardo a quell'antichissima città, sedia di tanti artifizj preziosi, di tanti palazzi magnifici, la quale nè munita, nè difesa da esercito guerriero, sarebbe tosto preda di gente forestiera chiamata a vendetta da un capitano invitto: già fumare Binasco, presto aver a fumare anche Pavia, se più prestassero fede ad una illusione manifesta, che alle parole vere di chi per costume, per grado e per età aveva l'ingannare più in odio, che la morte.

Così parlava l'arcivescovo desiderosissimo di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce inganno, che le persuasive parole. Gridarono, non doversi dar orecchio all'arcivescovo, esser dedito ai Francesi, esser giacobino; e così su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra; le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare nei Tedeschi era vano, e che i Francesi già stavano loro addosso, chiusero ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura di armi e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte, ed atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i contadini alla campagna: si nascondevano i cittadini per le case. Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse: aspettava Pavia l'ultimo eccidio.

Entrava la cavallerìa della repubblica, correva precipitosamente, trucidava quanti incontrava: cento sollevati in questo primo abbattimento perirono. Entrava per la Milanese porta Buonaparte, e postovisi accanto con le artiglierìe volte contro la contrada principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestìo dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo spaventevole e miserando. Ma se periva chi andava per le vie, non era salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco, dava Pavia in preda ai soldati. Come prima si sparse fra i miseri cittadini il grido del dover andare a sacco, vi sorse tale un pianto, tale un terrore, tale una miseria, che avrebbe dovuto aver forza di piegare a pietà ogni cuor più duro. Ma le soldatesche, avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni non si ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone; e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Le stanze poco innanzi seggio sì gradito di domestica felicità, divenivano campo di dolore e di terrore. I padri e le madri vedevano in cospetto loro contaminate quelle vite, che con tanta cura nodrite avevano illibate e caste; ed il minor dolore che si avessero erano le perdute sostanze. Funesti vestigj si stampavano nei penetrali più santi, della forestiera rabbia. Quanti nobili palazzi desolati! quanti ricchi arredi spersi! quanti utili arnesi fracassati! ma più periva il povero che il ricco; perciocchè perdeva questi il mobile, piccola parte del suo avere, perdeva quello l'uniche sostanze che si avesse. Quest'erano le primizie della libertà. Al che se per Buonaparte si rispondesse, che il sangue de' suoi soldati trucidati, e la sicurtà del suo esercito queste esorbitanze necessitavano, nissuno sarà per negare ciò esser vero; ma ognuno aggiungerà dall'altro lato, che non era stato punto necessario che si espilasse il monte di pietà, nè che s'insultassero le persone, nè che si rubassero le campagne. Perlochè ragion vuole, che questi atti barbari siano dagli uomini imputati alla vera origine loro, siccome le imputa certamente il sommo Iddio, giusto estimatore delle opere dei mortali.

Scese intanto la notte del venticinque maggio, e coperse i fatti abbominevoli da una parte, il dolore e la disperazione dall'altra. L'oscurità accresceva il terrore; le miserabili grida che uscivano da luoghi reconditi e bui, facevano segno che vi si venisse ad ogni estremo, di cui più la umanità ha ribrezzo, e terrore. Così fra mezzo ad un confuso tramestio di voci disperate, alle minacce di chi, avuto già molto, voleva ancora aver di vantaggio, all'andar e venire di soldati correnti con preda, od a preda, ai lumi incerti, che di quando in quando splendevano funestamente fra le tenebre, si trapassava quella notte orribile. Nè pose l'alba del seguente giorno fine al pianto ed alle ingiurie. Solo la cupidigia del rapire, che non mai si sazia, continuava più intensa della cupidigia del contaminare, che si sazia, e se il sacco era tuttavìa avaro, non era più lascivo. Ma la luce rendeva più miserabile agli occhi dei risguardanti il guasto che era seguìto la notte; potevano i padroni giudicare di vista quale e quanta fosse stata la ruina loro. Piangevano: la soldatesca intanto od adunatasi nelle vuotate case, od assembratasi nelle riempiute piazze con esultazioni romorose, e con risa smoderate, e col bere, e col tracannare, e col raccontare, e col vantare come suole, con soldatesco piglio quello che aveva fatto, e quello che non aveva fatto, mandava fuori l'allegrezza concetta per una immensa ingiuria vendicatrice di una immensa ingiuria. Tal era l'universale dei soldati: ma noi non vogliamo che lo sdegno, e la compassione da noi sentita per opere tanto enormi, ci faccia dimenticare i pietosi uffici fatti da molti soldati Francesi in mezzo a confusione sì fiera e sì orribile. Non pochi furono visti che abborrendo dalla licenza data da Buonaparte, serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare; altri più oltre procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini, ed alle miserande donne, chiamate a preda od a vituperio dai compagni loro. Sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì strana contesa, pietosa ad un tempo e scelerata; ed io ho udito raccontare, non senza lagrime di tenerezza, a fanciulle castissime, come della illibatezza loro in sì estrema sventura state fossero a Francesi soldati obbligate. Alcuni così operarono per buona natura, altri tirati da compassione; poichè entrati nelle desolate case con animo di far sacco, visto lo spavento ed il dolore degli abitatori, si ristavano, e da infuriati nemici ad un tratto diventavano generosi guardiani e difenditori. Nè mancarono di quelli, i quali vedendo le donne svenute alle immagini atroci che agli occhi loro si appresentavano, posto in obblìo il primo intento di far preda, intorno ad esse si affaticavano per farle risensare, e riconfortarle, potendo in loro più la compassione che l'avarizia. Altri finalmente furono visti, i quali trasportati dall'impeto comune, e già poste a ruba le magioni altrui se ne venivano carichi di bottino, tornarsene subitamente indietro a far la restituzione delle rapite suppellettili, solo perchè soccorreva loro in mente la miseria di coloro ai quali rapite le avevano. Così, se in mezzo a tanta concitazione alcuni Francesi di perduta natura non si rimasero nè alle preghiere nè alle grida compassionevoli dei saccheggiati, si scoverse in altri od una bontà intemerata, od una compassione più forte dell'ira e della cupidigia: nel che tanto maggior lode loro si debbe, che ebbero a superar l'esempio. Nè si dee passar sotto silenzio, che se si fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano nel sangue. Il che non oserò già dire che mi rechi maraviglia; ma bene dirò, che mi par degno di grandissima commendazione, perchè il soldato poteva uccidere non solo impunemente, ma ancora utilmente. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle case dell'università, le quali furono da quel turbine preservate, quantunque in se avessero, massimamente il museo di storia naturale, molti capi di pregio, anche per soldati. Questo benigno risguardo si ebbe per comandamento dei capi; e certamente le generazioni debbono con gratitudine riconoscere Buonaparte dello aver fatto in modo che il rispetto verso gli studj e verso i sussidj loro trovasse luogo fra tanti sdegni. Più mirabile ancora fu la temperanza dei capi subalterni, od anche dei gregarj medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani, e di altri professori di grido, si astennero o pregati leggermente, od anche non pregati dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente il nome di scienza, e di virtù, anche negli uomini dati all'armi, ed al sangue!

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