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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II
Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Finalmente il mezzodì del giorno ventisei, siccome era stato ordinato da Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva fatto, non incrudelì di soverchio contro a coloro, che presi con le armi in mano ancora grondanti di sangue Francese, meritavano, secondo le leggi, come le chiamano, della guerra, che i repubblicani facessero a loro quello, che essi avevano fatto ai repubblicani. Un solo fu fatto passar per le armi in sul primo fervore a Pavia; poi altri tre, che portati all'ospedale, già vi stavano per le ferite avute, con mal di morte. Raccontarono falsamente le gazzette e le storie dei tempi, che i municipali, uomini tutti nobili, fossero stati castigati con la morte, perchè solo furono tolti d'ufficio, e con altri cittadini di maggior credito, in qualità di ostaggi, condotti in Antibo. Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni, ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro, e fuoco avrebbe.

Pavia percossa da tanta tempesta, se ne stette occupata molto tempo da uno stupore misto tuttavìa di spavento. Ma finalmente un vivere più regolato, quantunque non fosse senza molestia, le maniere piacevoli dei Francesi, soprattutto la mansuetudine di Haquin fecero di modo, che succedendo la sicurezza al terrore, ognuno tornasse all'opere consuete. Cominciavano intanto i Pavesi ad addomesticarsi con quei soldati, che avevano creduto tanto terribili per fama, e pruovato vieppiù terribili per atto. Siccome poi il primo e principale ornamento di Pavia era l'università, così il nuovo reggimento poneva cura, che ed ella si aprisse, ed i professori si accarezzassero. Secondavano il buon volere di chi governava i Francesi medesimi, particolarmente quelli, che non nuovi essendo nelle scienze e nelle lettere, onoravano e con ogni gentil modo accarezzavano Spallanzani, Scarpa, Volta, Mascheroni, Presciani, Brugnatelli, ed altri celebrati uomini, lume e splendore d'Italia. Fra il romore dell'armi sorgeva l'università di Pavia, e l'opera più bella di Giuseppe II imperatore era fomentata ed ajutata da coloro, che avevano cacciato i suoi successori da quelle loro antiche possessioni. Solo dispiacque la elezione procurata e fatta di Rasori alla carica di professore, perchè camminava, come giovane, con soverchio affetto nelle nuove cose, e quei professori, uomini gravi, prudenti e pratichi del mondo, amavano meglio chi si mostrava inclinato al conservare uno stato già pruovato, di coloro ai quali piacevano innovazioni d'effetto incerto.

Buonaparte, posato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni contro Beaulieu, che, come già fu per noi narrato, alloggiava con le reliquie delle sue genti sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che essendo padrone dei ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica Veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi territorj, doveva fra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni cosa presagiva aver a riuscire ostinate e micidiali. Vedeva il senato, che la terraferma quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva, che i Francesi si erano risoluti ad andar ad assalire il loro nemico, dovunque il trovassero. Impossibile era il prevedere quali avessero ad essere precisamente gli effetti del duro contrasto, che sulle terre Venete si preparava, ma certo era, che avrebbe portato con se accidenti di somma pernicie, perchè non più si trattava del semplice passo di un esercito che va ad altro destino, e che non avendo alcun timore, non occupa con stanze stabili le terre grosse, nè i luoghi forti; ma bene si era giunto a tale che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e l'altra per primo pensiero il procacciarsi i proprj vantaggi, anche a pregiudizio della neutralità Veneziana; perciocchè la salute propria, e la necessità di vincere sono più forti del rispetto, che si dee portare alla dignità ed ai diritti altrui.

Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di Bergamo, principalmente quest'ultimo, cittadino zelantissimo, d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui confini; e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave: ma le instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava, ed i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando il senato, che in un caso di tanta, anzi di totale importanza, le cose di terraferma fossero rette con unità di consiglj aveva tratto a provveditor generale in essa Niccolò Foscarini, stato ambasciadore a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già si mostrava pieno di spaventi, e di pensieri sinistri. Sperava il senato che Foscarini avrebbe potuto con la sua destrezza intrattenere convenevolmente i due capi nemici, e dimostrando loro la sincerità della repubblica, ottenere che inferissero il minor male che possibil fosse, a quelle terre innocenti. Confidava altresì che i popoli della terraferma, vedendo in una persona sola un tanto grado e tanta autorità, si confermerebbero vieppiù nella divozion loro verso la repubblica; perchè il mandare un provveditor a posta, affinchè vigilasse sulla salute loro, era testimonio che la repubblica non gli abbandonava. Diessi, come moderatore a Foscarini, il conte Rocco San-Fermo, con quale prudenza non si vede, perchè San-Fermo parteggiava piuttosto pei Francesi, ed era in cattivo concetto presso ai Tedeschi per essere stata la sua casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in Verona, città grossa, posta sul fiume Adige, e vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero allegrezze, confidando che la sua presenza avesse pure ad operar qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi: il senato medesimo non gli conosceva: perchè lo sperare in tanta sfrenatezza di principj politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava tutta la fortuna dello stato, che si sarebbe portato rispetto al retto ed all'onesto, e che un magistrato privo di armi potesse fare alcun frutto, era fondamento del tutto vano. Bene il predicava il procurator Pesaro, armi chiedendo ed armati; ma impedirono così salutifero consiglio le fascinazioni della parte avversaria, ed abbandonossi inerme la repubblica nella fede di coloro, che non ne avevano.

Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero, per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu, ch'egli volesse, correndo per la occidentale sponda del lago di Garda, occupare Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada, che dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela, poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi procedendo più oltre, mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa credenza, che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro e sulla destra le sue genti indietro per guisa, che in vece di star minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro.

Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè gli Austriaci avevano passato pei territorj Veneti, ma non occupato le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia il dì ventinove di maggio un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in animo di attenere, avere, diceva, l'esercito Francese superato ostacoli difficilissimi per venire a torre il grave giogo dell'Austria superba dal collo della più bella parte d'Europa: vittoria, e giustizia congiunte avere compito il suo intento; le reliquie del nemico essersi ritratte oltre Mincio; passare, a fine di seguitarle, i Francesi per le terre della Veneziana repubblica; ma non essere per dimenticare l'antica amicizia, da cui erano le due repubbliche congiunte; non dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione, il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti, informassero di questi suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse quell'amicizia, che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli nell'onore, fedeli nella vittoria. A questo modo Buonaparte, il dì ventinove di maggio del novantasei, chiamava amica di Francia quella repubblica, che il direttorio, e Buonaparte medesimo già avevano accusato, come di gran reità, dello aver dato ricovero al conte di Lilla; qualificava fedele nell'onore quella nazione, che già avevano accagionato di aver dato il passo alle genti Tedesche. La forza della verità operava da un lato, la cupidigia del rapire e del distruggere dall'altro.

Come prima Beaulieu ebbe avviso, avere i repubblicani occupato Brescia, valendosi del pretesto, pose presidio in Peschiera, fortezza Veneziana situata all'origine dell'emissario del lago di Garda, e che altro non è, se non il fiume Mincio. Temeva, che Buonaparte non portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima, se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del fiume. Era Peschiera piazza forte, ma il senato, o, per meglio dire, i Savj, persistendo in quella loro eccessiva neutralità, nè sospettando di un turbine tanto impetuoso, l'avevano lasciata senza difesa. Solo sessanta invalidi la presidiavano: aveva bene ottanta cannoni, ma senza carretti, e per munizioni, cento libbre di polvere, ma cattiva; fortificazioni in rovina, ponti levatoj impossibili a levarsi, difese esteriori senza palizzate, strada coperta ingombra d'alberi, non una bandiera da rizzarsi sulle mura per far segno a qual sovrano la fortezza appartenesse. Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati, armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura del difendersi, che del non difendersi, aveva trasandato le domande del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente rimproverata da coloro, in favor dei quali ei l'aveva usata, perciocchè Buonaparte affermava, che se il provveditor generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata; il che era vero: ma se Foscarini non l'aveva fatto, ciò era stato per non offendere il capitano Francese, non per compiacere al capitano Tedesco.

Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono, rassettando i bastioni e le altre difese cadute in rovina per la vetustà. Intanto Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico con dargli concetto che volesse spingersi verso la punta superiore del lago, si apparecchiava a mettere ad esecuzione il suo disegno. Era questo di sforzare il passo del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale Austriaco senza sospetto, quantunque per le dimostrazioni del suo avversario avesse ritirato parte delle sue genti ai luoghi superiori, che il vero pensiero di Buonaparte fosse di assaltarlo a Borghetto. Però aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che quattromila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaja di cavalli stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna, ed a calpestare chi s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto al ponte per accorrere in ajuto della vanguardia, ove pericolasse. Muovevansi improvvisamente la mattina i repubblicani da Castiglione, Capriana, Volta e s'indirizzavano al ponte di Borghetto. Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci già tante volte vinti, non si erano perduti d'animo, anzi valorosamente combattendo sostenevano l'impeto dei Francesi. Restavano superiori sulla prima giunta, perchè non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia, che dovevano dar dentro, la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, fortemente pressata dalla cavallerìa Tedesca, cominciava a crollare ed a ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi, massimamente cavalli ed artiglierìe, furono gli Austriaci risospinti, nè potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si ricoverarono sulla sinistra. Guastarono un arco del ponte, acciocchè il nemico non gli potesse seguitare. Qui succedeva un tirar di cannoni molto fiero da una parte e dall'altra del fiume, ma senza frutto, perchè nè i Francesi potevano passare per la natura del ponte, nè i Tedeschi si volevano ritirare. Ma erano le battaglie dei Francesi di quei tempi più che d'uomini, e con più costanza e' le sostennero che i loro antichi. Ed ecco veramente che il generale Gardanne, postosi a guida di una mano di soldati coraggiosissimi, si metteva in fiume, non curando nè la profondità di lui, perciocchè l'acqua gli arrivava insino a mezzo petto, nè la tempesta delle palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava, ed alla sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia il timore occupava gli Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese, fu fatto abilità ai repubblicani, non solo di passare a guado, ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria compita ai Francesi: e come l'ebbero, così l'usarono; perchè avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo intieramente, e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte, che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della fortezza, e corresse a Castelnuovo ed a Verona. Così impossibilitati a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra, s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa, e sostenere una stretta battaglia tra Valleggio e Villafranca, sulla sponda di un canale largo e profondo, che congiunge le acque del Mincio con quelle del Tartaro. Infatti mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e per tal modo, raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo la notte interrotto la battaglia del canale verso l'Adige: quindi passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo. Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera.

Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da cui si rende manifesto, che se le armi Francesi di tanto riuscirono superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore nei soldati dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare, per cui il giovane generale di Francia di sì gran lunga superò il vecchio generale d'Alemagna. Del resto fu Beaulieu capitano pratico e risoluto, e la perdita della battaglia di Montenotte, che aperse i passi d'Italia ai Francesi, hassi unicamente a riconoscere da un accidente straordinario; le disposizioni prese da lui innanzi, e durante il fatto furono per ogni guisa eccellenti, e senza l'impensato intoppo di Rampon, è verisimile che la fortuna si sarebbe scoperta favorevole a Beaulieu piuttosto che a Buonaparte. Certamente per poco stette, che il cattivo consiglio di quest'ultimo, nel quale ebbe anche contrarj i suoi migliori generali, dello aver corso a Voltri e fortificato debolmente Montenotte, non fosse cagione della sconfitta dei repubblicani.

S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno, che il direttorio e Buonaparte nutrivano contro la repubblica di Venezia, meno forse per odio che per utile; il che peraltro è più odioso. Due erano i principali fini a cui tendevano, dei quali uno accidentale e temporaneo, l'altro da lungo tempo premeditato e perpetuo. Si conteneva il primo in questo, che l'esercito acquistasse per se tutti i mezzi di perseguitar l'inimico e d'impedire il suo ritorno. Era il secondo di turbare lo stato quieto della repubblica Veneta, perchè pel presente si aprissero le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero pretesti per darla in preda, secondochè pei tempi si convenisse, a chi l'accetterebbe, come prezzo di pace con la Francia. All'uno ed all'altro fine conduceva acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono tre punti, è padrone del passo dell'Adige, ed è a chi scende dall'Alpi Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto di una piazza tanto principale non poteva farsi dai Francesi senza un grande sollevamento d'animi in quelle provincie.

Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indirizzò, dopo la vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, Buonaparte i suoi pensieri: e però, siccome quegli che era maestro perfetto d'inganni, incominciò a levare un romore grandissimo, e ad imperversare sclamando, che Venezia per aver dato ricovero ne' suoi stati al conte di Lilla, si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo Veneto verso di loro. E così tempestando, e moltiplicando ogni ora più nello sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in tratto prorompeva anzi con dire, che non sapeva quello che il tenesse, che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto temeraria, che si era creduta capitale dell'impero Francese. In questo alludeva al soggiorno fattovi dal conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia. La quale intemperanza ed assurdità di Buonaparte, sebbene sia raccontata come se fosse un giojello da alcuni scrittori di storie dei nostri tempi, ai quali più piacciono le giattanze di lui che la verità e la ragione, non so se sia o più indegna del grado del capo di un esercito grande, o più ridicola in se stessa; perchè, la Dio mercè, non fu mai nessuno in Verona, nemmeno credo, i matti, se qualcuno ve n'era, che abbia creduto che la città loro fosse diventata capitale dell'impero Francese. Solo credettero aver fatto un'opera pietosa, coll'aver dato ricovero dentro le loro mura ad un principe perseguitato ed infelice.

Quanto al fatto di Peschiera, da quello che abbiam narrato di sopra si può giudicare, se posciachè i Veneziani, per non dar sospetto ai due nemici, massime ai Francesi, non avevano voluto munire quella fortezza, fosse la medesima difendevole, e se potessero impedire in un caso tanto improvviso, che i Tedeschi vi entrassero; e poichè Buonaparte si lamentava di questo fatto, saria bene a sapersi, se Peschiera in quello stato in cui era, quando i Tedeschi l'occuparono, più fosse fortezza, che Crema, o Brescia, quando furono occupate dal capitano di Francia. Bene sapeva egli che cosa vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio il dì sette giugno, che la verità dell'affare di Peschiera era, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i Veneziani, avendo loro solamente domandato il passo per cinquanta soldati, e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma il vero od il falso non arrestavano Buonaparte, e queste querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il consenso dei Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia, conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto questa rottura, perchè se volessero cavar cinque o sei milioni da Venezia, sì il potessero fare. Così ad una brutta sete dell'oro soggettava il capitano repubblicano la verità, il giusto e l'onesto.

Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo terrore. E però per dare al generale repubblicano le convenienti giustificazioni, che dalla sua bocca propria, e non da quella d'altrui voleva udire, si mise in viaggio col segretario San Fermo per andarlo a visitare in Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e ristrettosi con esso lui e con Berthier, che è da lodarsi per la umanità mostrata in tutte queste occorrenze, se però non era un concerto alla soldatesca tra lui e Buonaparte, protestava ed asseverava, avere sempre la repubblica Veneziana, ed in ogni accidente seguitato i principj della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente Buonaparte, che non voleva esser convinto, ma bensì intimorire, che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i Veneziani lasciato occupar dai Tedeschi Peschiera; il che era stato cagione ch'egli avesse perduto mila e cinquecento soldati, il cui sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il passo pel mare e pei fiumi; che insomma erano i Veneziani amici stretti degli Austriaci. Quindi trascorrendo dalle minacce alla barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato asilo negli stati loro ai fuorusciti francesi, ed al conte di Lilla, nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente dalla crudeltà alle menzogne, sclamava, che prima del suo partire aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai Massena, che già forse le artiglierìe di Francia la fulminavano, e che già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque, aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto, acciocchè il senato ne ragguagliasse. Così Buonaparte, che sapeva di certo, e lo scrisse al direttorio, che per fraude, e contro la volontà dei Veneziani erano gli Austriaci entrati in possessione di Peschiera, questo fatto attribuiva a tradimento dei Veneziani.

Spaventato in tale modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un poco sopra di se; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse, che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il seguente s'appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati, manterrebbe salva la città, ed avrebbero i Veneti la custodia delle porte, i magistrati il governo dello stato; ma che se gli fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e distrutta.

Queste arti usava Buonaparte il dì trentuno maggio per ottenere pacificamente il possesso di Verona. Dal che si vede qual fede prestar si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì ventinove del mese medesimo, e quale fosse la sincerità delle sue promesse. Così quella repubblica di Venezia, che due giorni prima era stata chiamata amica della Francese, e dichiarata aver sempre camminato nelle vie dell'onore, era il dì trentuno del mese medesimo divenuta, e già da lungo tempo, non solo infedele, ma perfida e nemica alla Francia, ed il direttorio aveva comandato a Buonaparte, che ostilmente contro una delle città più eminenti del suo dominio e di tutta Italia corresse. Certamente non era questo un procedere degno di un generale di una nazione civile, e che ha nel nemico in odio più la perfidia che la guerra. Tale sarà il giudizio che ne faranno le generazioni sì presenti che future, in cui la virtù sarà sempre più potente che il vizio.

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