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In faccia al destino
In faccia al destino

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In faccia al destino

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Il suo viso, così pallido, esprimeva la meraviglia, lo stupore di una coscienza adulta in un corpo che rinasca; l'ineffabile, sovrumana letizia d'un'anima che scorga e misuri e accresca di sè un rinnovarsi di sensazioni infantili.

Poichè i suoi sensi, che il lungo riposo aveva affinati e indeboliti la malattia, non comportavano tutte le impressioni in una volta, ella, da prima, non potè non socchiudere gli occhi e raccogliersi come percepisse indistinta, dalla minor vista e dai più tenui fremiti, l'anima universa; e, con l'imaginativa, in ogni vena d'erba, sentì fluire dalla terra l'umor fresco, fecondo e perenne; e vide l'alito che molceva le foglie, passava tra le fronde; e potè discernere, fugaci o più vive d'ogni altro suono, recondite armonie di api e d'insetti. Che sapore incerto di menta e di timo! che vago profumo! Dei fiori, volle; ma poco odorosi, poco odorosi… Poi guardò; volse lo sguardo: a lungo attese a una turba di moscerini che in vortice, per un inesplicabile fine, s'incorreva entro una spera di sole; e la distrasse una ragnatela che fra due rami riluceva quasi d'argento; e vi tremava al disopra una foglia da una fibra sola trattenuta in un'agitazione alacre e incessante. Ma ecco: una capinera, lontana lontana, accennò, interruppe, riprese con arte. Mentre così cantava la capinera, lontana lontana, men lungi, repentinamente, un uomo urlò e prolungò un nome.

E intanto – anche prima? – l'arguto ribattere di un incudine, che nel suono rendeva una visione di sprizzanti scintille, a ogni colpo. Da presso, non prima udita, rumoreggiava per uomini e per carri la via: eppure non si perdette nel tumulto uno stridìo di rondini…

Ma stordiva il tumulto, a poco a poco sempre più vasto, molteplice, pieno: stormivano le frasche, cinguettavano i passeri, risonava la strada, e l'incudine; e umane voci; e uno schiamazzar di galline; e un trottar fondo di cavalli; e un rimbombar di echi. Un richiamo di mille voci in una voce sola; un clamoroso accordo d'innumerevoli creature in terra; una sensibile intesa di anime in cielo; una confusione enorme; un portentoso palpito; un'intensa fatica; una gioia insopportabile; un affanno mortale…

– Mamma! – gridò atterrita Ortensia, più pallida della madre. – Mamma! mamma! – invocò Marcella. E Claudio accorse.

Ma io, che avevo previsto, mi mossi appena.

– Non è nulla – dissi – ; una lieve commozione… È vero, Eugenia?..

Essa, scorgendo con quale angoscia avevan dubitato che mancasse, e strappandosi del tutto, con la volontà, da quella partecipazione intensa e da quell'abbandono della sua vita rinnovata alla vita universale, e risentendosi del tutto salva, nel sangue e nell'anima, salva per l'amore de' suoi, sorrise; e pianse.

Ripeto: tutto ciò, o per vista o con immaginazione positiva, io avevo osservato con «occhio clinico»; avevo inteso con scientifica penetrazione, misurato e valutato con razionale precisione, senza turbamento alcuno! Anche il grido d'Ortensia e di Marcella, e l'accorrere di Claudio, e le lagrime di Eugenia tutto, tutto «naturale», tutto «necessario», come la «funzione» d'un qualsiasi organo, o l'andamento di una qualsiasi macchina! Il miglior amico dei Moser era rimasto impassibile alla loro angustia. Non solo: io avevo taciuto ciò che, per aver previsto, avrei dovuto consigliare evitando agli altri un'apprensione grande, e un pericolo, forse, ad Eugenia…

Pensai allora, in quegli istanti, che anche un delitto in me era possibile… Possibile? Per provar rimorso indietreggiai nei ricordi; riflettei sul diritto che aveva Claudio alla mia gratitudine e al mio affetto: niente!.. Rammentai la bontà di Eugenia…: niente! Il mio cuore era sordo; il mio cuore era incurabile!..

– Rientriamo? – ripeteva, insisteva Claudio.

Eugenia pregava:

– Ancora un poco…: dite, Sivori?

– Ma si!; un poco…

… Ah che respinto del tutto in me stesso, non cercavo più che me stesso, disperatamente!

«Anche un delitto era possibile». Con rapida, ansiosa riflessione, volli accertarmi del mutamento in cui per qualche giorno avevo confidato; tutto quel che avevo detto e fatto ricercai con la disperazione di chi comprende d'aver tentato invano; e non vorrebbe credere…

Invano avevo ripreso l'esercizio della volontà; invano mi ero raccolto, per dimenticarmi, in azione e considerazione di piccole cose; invano avevo giocato con Mino e avevo voluto abbattermi nella puerilità.

Io era un uomo che una vendetta orrenda aveva gettato a vivere in un abisso e che di laggiù, dalla profondità tenebrosa, per rincrudimento alla condanna, riceveva fuggevoli barlumi… Peggio! Peggio! Io era un naufrago alla cui speranza era rimasto, in mezzo alle onde, il solo appiglio di fuscelli!

«Anche un delitto…» E perchè no? Forse mi bisognava ricorrere al male, a un male più grande, per uscire da quello stato in cui mi trovavo; ricorrere a qualunque mezzo… Io dovevo procurarmi forse un rimorso per mezzo d'una colpa a cui non potesse sfuggir più la mia coscienza.

Eugenia risollevò le palpebre. Sorrideva; mi sorrise.

– Vedete che la mamma ride? Vedete? – disse Ortensia beandosi nelle carezze che faceva a sua madre.

Io fissai Ortensia: bionda; rosea in viso; bella; con gli occhi luminosi; con un sorriso che aveva e dava luce. Che bella figliola!

Quale disgrazia se l'ala della morte toccasse d'improvviso quel fiore! se quella giovinezza cadesse atterrata; fatte smorte quelle guance; chiusi quegli occhi; fermo e freddo quel cuore: divenuta, a vederla in volto, quale il ragazzo che, da studente, avevo visto spolpare nella sala anatomica…

Ecco: c'era lì dinanzi a me una madre la cui esistenza era stata trattenuta per un filo, mesi e mesi, all'esistenza de' suoi… con tante cure! con tante ansie! con una vicenda crudele di speranze e disperazioni. Quante volte Claudio, mentre era tra gli operai e le opere, al veder sopravvenire qualcuno di casa, aveva temuta la notizia… Moribonda?.. morta?

Più d'una volta Marcella e Ortensia, sole nella camera vegliando la notte, col brivido, esse, della morte, avevano creduto che la madre assopita fosse morta…

Ebbene: questa madre ora sorrideva per piacere alla sua figliuola, che l'accarezzava; sorrideva, per non ingelosirla, pure a Marcella; e due vite tornavano a compiersi della sua, ch'era stata sospesa e tronca anche per loro; e nella loro si reintegrava la vita di lei. Che spaventevole commozione proverebbe mai un uomo…; proverei io, se d'improvviso… in un modo sanguinoso, precipitassi a colpire… io, al cuore… la più vivace di quelle tre creature?.. Che istantaneo strappo;… che strazio… se io lì, presente sua madre… io… in tanta gioia, nel silenzio di beatitudine così tranquilla, ora, in tanta luce… ammazzassi, io… strangolassi… Ortensia? Ah gettarmi su di lei! Un attimo…

Come mi trattenni? Sono certo che se avessi avuto un'arma avrei compiuto quel che pensai in quell'attimo. È vero! È vero! Un coltello… e l'avrei piantato nel cuore di Ortensia… Inerme, trattenuto forse dalla percezione di una insuperabile difficoltà materiale, ebbi il tempo di avvertire l'enormità del mio pensiero…

Rimasi come in preda a una allucinazione, con un nodo alla gola; eppoi con uno sforzo sovrumano uscii dalla capanna, adagio, senza gridare, disperato:

– Salvatemi! Salvatemi!

VII

Ero salvo.

Per quanto attento a me stesso io non comprendevo che vagamente quel che era accaduto dentro di me; e, non volendo ammettere d'essere lipemaniaco, la tentazione o l'allucinazione del delitto, che nei lipemaniaci è frequente, mi aveva lasciato uno stupore enorme e un orrore profondo. Tosto però ebbi l'impressione che finalmente mi si fosse disgelato il cuore; un'onda, quale di passione a lungo contenuta, irrompendo infrenabile, aveva sollevato dal petto il peso che mi soffocava; il rimorso m'aveva ridestata del tutto la coscienza.

Tornerei lieto di speranza? Smetterei per sempre quel sarcasmo che mi avvelenava le parole?

Non potevo ancor chiedermi questo. Neanche avvertivo che un indizio che il mio pensiero restava non poco torbido era nel bisogno di tornar a considerare i passi della mia vita dolorosa e di misurare gli sforzi sostenuti.

Che giorni! e a che prezzo avevo ricuperato la facoltà di sentire!

Sì: ora soffrivo; non rivedevo più Ortensia senza patire, patire veramente, un vero rimorso; desideravo che ella mi dicesse a parole o a sguardi che mi credeva buono. Non più per infingimento, ma per moto sincero dell'animo, cercavo ora di mostrarmi diverso… E cercai anche di mitigare le antipatie che mi avrebbero reso insopportabile. Così, di sera, scambiai qualche parola con le signore; lasciai che la Fulgosi, sbattendo le palpebre e raggricciando il naso, mi riferisse le delizie delle soirées aristocratiche; ascoltai dalla Learchi ricette di buon mangiare; concessi alla Melvi madre di narrarmi, in disparte, con grandi scossoni di risa, l'ultimo scandalo paesano. Ad Anna Melvi mi accostai senza quell'aria di uno che volesse provocarne l'ostilità, sebbene ancora mi urtasse l'intenzione manifesta in lei di sedurre il sicuro e guardingo Roveni; e le strizzavo l'occhio quando scomponeva quel manichino di Pieruccio. Ma di Pieruccio e delle sue occhiate languide a Ortensia mostravo di non curarmi affatto; Ortensia non gli badava e correva volentieri a raccontarmi tante cose! (E che orrore di me se, mentre Ortensia parlava, mi rammentavo del mio immaginario delitto!)

Fin al cavalier Fulgosi rivolgevo dimande intorno le condizioni politiche di Valdigorgo, col pericolo che la mia affabilità divenisse davvero per lui, com'egli diceva, una great attraction, cioè egli mi s'attaccasse come una sanguisuga.

Soprattutto mi sforzavo a rasserenarmi quando stavo con Eugenia, o rincasava Claudio.

Ogni giorno le ragazze ed io ci mettevamo con Eugenia al solito rezzo. Essendo noi soli, mentre le ragazze cucivano o ricamavano, non di rado cadeva il discorso; ma i brevi silenzi erano pieni d'anima; d'anime concordi nell'armonia del giorno e della vita. Io la sentivo, quell'armonia; non in me ma intorno a me. Sentivo…: io sentivo!

Allorchè non interloquiva Ortensia a bisticciarsi, per chiasso, con la sorella, interrompeva il silenzio la capinera da lungi, o, da presso, il reattino. Zerr…; ed ecco la più lieta fra le più liete creature del mondo, sbucare, balzar dalla siepe al cespuglio; penetrarvi svelto, riuscirne alacre; arrestarsi spiando, inchinando il capo per curiosità e drizzando la coda; e subito con un nuovo zerr, giù in terra!; e via, difilato, rapidissimo, a ficcarsi nel noto intrico, ove pareva trovar sempre qualche preda.

Diventò presto nostro amico, quel reattino così ardito e pettegolo, seppure il tremendo Mino non sopravveniva a spaventarlo; e quando s'era cibato ben bene, non dimenticava una modulata lista di note cadenti, sgranate e limpide, che si ricomponevano in trillo.

– Bravo!

– Dov'è?

– Sparito! S'è consumato nel canto.

Spesso interveniva Guido Learchi, o perchè si diceva mandato dalla madre a prender notizie della convalescente, o perchè passava di là «per caso». Io e Ortensia trovavamo i motti che pungevano lui e Marcella; ed egli arrossiva, si schermiva mal destro. Marcella levava dal ricamo il suo sguardo ombrato e trepido, quasi a dirci: «Sì, tutto il mondo lo sa che ci vogliamo bene. Non siate cattivi, voi due…»

Pur Eugenia, esente da inutile severità o furbizie materne, sorrideva.

E quanti fiori recava Guido Learchi! Per monti e boschi, con lo schioppo sulla spalla e tutto in pensieri di Marcella, raccoglieva fiori insoliti o non facili a raccogliere, che servissero a copia di ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, bacche, foglie a vaghe tinte e a strane forme.

– Questo? – domandava Guido scegliendo, per l'esame di botanica, fra il mazzo.

Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo. Marcella, ingenua, correggeva:

– Euphrasia officinalis.

E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.

Finchè l'ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada, ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano, e annunziavano spesso a una voce:

– Il babbo!

Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.

– Ben arrivato! Babbo, babbo!

Nè prima la carrozza s'arrestava al cancello, che già Moser era a terra d'un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d'un giorno d'assenza, con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.

– Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio? (a me) E Mino?

Il monello, giungendo, gli si gettava al collo.

– Basta! Auff! Che caldo! Sono stanco morto! Capite: 35 gradi all'ombra, laggiù! – Perde, frattanto che snoda la cravatta e respira a pieni polmoni, con piena gioia, cartocci e carte; esprime dal volto onesto il sollievo della fatica; la consolazione come d'un premio meritato; la forza e la bontà. – Ah! ora sto meglio! Andiamo a sedere.

Tutti c'incamminiamo lasciando parlare lui solo; il quale si guarda felice intorno e par che non creda d'essere salvo dall'afa e dalla carcere e dalle faccende cittadine.

– Valdigorgo! Questo è il paradiso! Una delle più belle opere di Domineddio! Che cielo! Che aria! Che fresco!

Poi a vedere le figliole che corrono per il bicchiere di acqua, già prima d'esserne richieste, si ricorda che ha sete e urla:

– Marcella! Ortensia! un bicchier d'acqua! Ho sete!

– La fabbrica? – domanda Eugenia.

– A meraviglia! Siamo al terzo piano; e tra un mese…; insomma, un buon affare, Eugenia; sta sicura!

E arriva l'una o l'altra delle figlie col bicchiere annebbiato.

– Oh che acqua! l'acqua di Valdigorgo! Non vantarla sui giornali, amico (egli mi prega): se no, ce la portan via, o vengono a bercela!..

Segue una pausa, perchè le ragazze e Mino possan chiedere:

– La lana, babbo?

– La trottola?

– La lana?! la trottola?! Oh credete che non abbia per la testa, laggiù, che i vostri capricci? La fabbrica, i capomastri, gli artieri, le seccature; corri in provincia, in comune, allo studio, dai clienti: chi mi cerca, chi mi sfugge… Paga questo; licenzia quest'altro… E voi, come se nulla fosse, la lana? la trottola?

Ma poi egli trae di tasca il cartoccino della lana e lo getta alle ragazze; mentre parla a me:

– E tu hai scoperto finalmente la quadratura del circolo?

Rispondo: – Eureka! – quando già le ragazze strillano:

– Dio! che lana!

– Che colore! Cos'hai fatto, babbo? Ma il campione?

– Il campione! il campione! – brontola il padre. – Dunque non ci ho colto?..

– Un orrore!

– Eh… se l'avessi avuto, il campione!..

– Te l'ho dato!

– Te l'abbiamo involto in un pezzo di giornale. Lo mettesti nel gilet!

– Sì! E io sono corso dal negoziante, prima di partire. «Mi vuole della lana così…» Se non che il campione non si trova. Fuori tutte le tasche; cerca tra le carte, sul banco, sotto il banco, per la strada: irreperibile! Non importa: «mi dia della lana verde per pantofole… da regalarmi nel mio onomastico…»

Altro grido delle ragazze: – No! Non è vero!

Tuttavia, rifacendo la scena, prosegue egli:

– «Di verdi, signore, ce ne sono molti…»

«Bene, me li mostri…» Che volete? Io mi ricordavo tanto bene il tono della voce di Marcella quando mi disse «un verde così», che ho scelto tra le matasse a colpo sicuro.

– Vergogna!

– Cattivo!

– Scegliere la lana a orecchio!

– Eh… per pantofole…

– No: per un berretto da notte!

È questa la vendetta delle ragazze.

– Ah! infami! Un berretto da notte a me?.. a me?!

Infine Claudio si ricorda che è stanco e si rimette a sedere con le mani in tasca. Allora, non senza sua grande meraviglia, come a un miracolo, leva la destra con qualche cosa fra le dita…: il campione della lana.

Ma segue Mino, che richiede il giocattolo.

– Non mi amareggiare, figliolo! Non ho potuto comprarlo; non avevo più soldi…

Il ragazzo si vendica puntando, senza piangere, l'indice al viso del padre e accusandolo alla madre.

– Mamma: il babbo ha detto una bugia! Guarda! guarda che bugia!

Talora giunge anche Roveni, per il viale, con quel suo passo da conquistatore.

– Oh! Roveni! Novità?.. Andiamo!

E quell'uomo, stanco morto, corre col giovane nello studio; dove rimane fino a che, chiamato una terza volta a desinare, precipita in camera da pranzo, arrabbiandosi contro di me.

– Bravo, Sivori! Che uomo sei, perdio? Neppur buono a dar scodelle! Come fate quando non ci sono io?.. Vedi: si fa così!

Ma non è raro il caso che un ritardo ad afferrarla, o un disguido, rovesci, tra le grida e le risa, la scodella sulla tovaglia.

Egli, Moser, fu più lieto dopo che ebbe visto rischiararsi la mia faccia.

– Finalmente Valdigorgo ti fa bene anche a te – mi diceva. – Bada che sino alla prima neve non si parte di qua: nessuno!

Negli occhi e nei modi d'Eugenia io notavo invece il dubbio che mi facessi forza a stento.

Talvolta il cuore intende meglio dell'ingegno.

Al consueto luogo, nel giardino, colsi una di quelle occhiate per dirle:

– Claudio ha ragione: sto meglio. Quest'aria fa bene non solo a voi; ed ero forse più esaurito, più debole di voi, io!

Eugenia scosse il capo, e arrossendo lievemente:

– Voi – disse – non siete debole. Ora vi dominate per non affliggerci.

– Perchè pensate così? – domandai io con impeto. – Che cosa pensate, che cosa avete pensato di me? Voglio saperlo! Non temete di svelarmi tutto il vostro pensiero, se davvero credete che io non sia debole… Vi prometto che non torneremo mai più su quest'argomento.

– Dirvi quel che penso? quel che ho pensato di voi? Ecco: i primi giorni ch'eravate qua dubitavo soffriste per una passione.

– Una passione d'amore? – feci ridendo.

– Sì – rispose senza ridere. – Non ci sarebbe stato da meravigliarsene; nulla di strano. Ma presto capii che il vostro male era molto più grave.

– Perchè?

– Una passione… – esitava; indi risoluta: – forse me l'avreste confidata o, almeno, non avreste tentato di nasconderla così, a noi, a me. Il vostro male doveva essere molto più grande, perchè avevate timore che io e Claudio ce ne accorgessimo…; eppure non potevate nasconderlo. Non eravate più quello d'una volta. Perchè? Da prima ero un po' curiosa, lo confesso; ma l'altra sera, quando vi costrinsi io a svelarvi un poco, indovinai, e avrei voluto non indovinare.

– Come? Che cosa indovinaste?

– Ricordavo con che entusiasmo mi parlavate una volta dei vostri studii. Io sono una povera donna; non so nulla. Ma quante volte mi dissi: «E se non fosse possibile arrivare dove Sivori vuole?» Comprendevo le fatiche che doveva costarvi il vostro ideale; comprendevo che voi non avevate nulla, non volevate nulla fuori di quello. Tutta la vostra vita era là. Mi dicevo: «Sivori non vuole ammogliarsi… Come vive? perchè vive? Per i suoi studii. Non ha altro bene al mondo. Ma: e se per una causa qualunque perdesse la sua fede?..»

– Avete indovinato! – esclamai stringendomi il capo tra le mani e coprendomi la faccia con le palme.

Perplessa, col timore d'avermi fatto troppo male a vedermi in quel modo, essa ristette un poco. Poi riprese:

– Debbo dirvi tutto. Avere un ideale come il vostro e perderlo, deve essere un dolore immenso, una sventura immensa! Ma voi avete resistito. Avete sostenuto una lotta terribile, è vero?; ma avete resistito! Vedete dunque che siete forte. E siete ancora giovane. Perchè non volete persuadervi che potete avere altri affetti, altre consolazioni, forse un'altra fede?

– No! Quando si è perduta, la fede non si riacquista più; e io ho perduta la fede più bella, la fede di me, del mio ingegno, del mio cuore In chi credere? in che cosa? L'altra sera vi dissi: «temo che la mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto; «sto meglio», e infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo, non è forse peggio che non sentir nulla?»

Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane? o alla squallida miseria d'un uomo roso da un morbo insanabile?

– Una sorella… – mormorò in fretta, seguendo il corso del suo pensiero mentre Ortensia veniva a noi. – Perchè Dio non vi ha dato una sorella?

Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che ambasciata, o notizia.

– Cervellina! – le disse la madre in tono di soave rimprovero, rialzandole i capelli su la fronte. – Cervellina!

La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia allo schienale della poltrona.

Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:

– Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine materna che sopravvive.

La signora annuiva. Ma io mi corressi:

– Forse esagero, perchè attribuisco a questo bene, che mi manca e che comprendo, anche la parte pura del sentimento che nessuna donna esaurì pienamente dal mio cuore. Sono certo però che quest'affetto può bastare a sè stesso; gli basta, per sussistere, nutrirsi di sè stesso; e ciò lo rende superiore forse a ogni altro.

Eugenia disse:

– Infatti quante mogli non buone sono sorelle buone.

Io proseguii concitato.

– Oh l'affetto che nessuna colpa contamina, che nessuna volontà o finzione o profitto dirige, e che si esprime spontaneo, placido, continuo, in prove d'abnegazione, nella voluttà del sacrifizio! Disperato, solo, io mi son visto in un'interminabile via, irta di triboli. Tutti i beni a cui feci rinuncia eran perduti, e la vetta a cui tendevo era sparita. Sarei caduto se avessi avuto le parole che son balsamo allo strazio? le stesse parole che avrebbe avute per me mia madre? Maledirei così il mio pensiero se io vedessi negli occhi di una sorella le lagrime stesse che piangerebbe, a udirmi, mia madre? Maledirei la vita se sentissi un cuore fraterno partecipare del mio cuore? Ma – conchiusi, triste: – una sorella non si trova!

Eugenia taceva, triste. Senza guardarmi, essa rigirava gli anelli nelle dita, considerandole, pareva, come bianche.

Mi guardava intanto, fisa, stupita, Ortensia; quasi quella mia disperazione fosse una rivelazione per lei…

Ed io le vidi l'anima negli occhi, come un'altra volta le avevo veduta…

Fu un attimo. In un attimo ebbi io pure l'impressione d'una rivelazione improvvisa, d'una gioia ineffabile, d'un sollievo insperato e certo al mio lungo soffrire. Due anime, in quell'istante, s'intesero. E Ortensia sorrideva d'un sorriso trepido, quale il suo sguardo…

Un attimo: le nostre anime ricaddero in noi. Ma l'affettuoso patto era già conchiuso.

VIII

– Vuoi esser tu la mia sorella?

– Sì.

– Per tutta la vita?

– Sì! – rispose Ortensia con maggior fermezza.

Mi porgeva, a conferma, la mano. Ma credè non bastasse:

– Sarò buona. Vedrà! Glielo prometto!

A me parve più bella; e mi sovvenne del birocciaio che avevo visto, stanco ed assetato, gettarsi alla sorgiva, innondare di ristoro il petto e riprender l'erta con vigore nuovo. Un benefizio consimile ma più grande, più grande io avrei dal consentimento di Ortensia; e questo non era, no, un'allucinazione, un'aberrazione, una puerilità di mente immiserita e di animo appena ridesto in un rinnovamento precario e ingannevole. No! Non speravo una guida al lume della fede e del vero; non supponevo nemmeno un ritorno alla fiducia in me stesso; ma dalla corrispondenza di un semplice affetto, di un bene umano, mi attendevo ciò che nessuna altra cosa avrebbe potuto darmi: ricupererei pienamente il senso della vita; il mio pensiero si purificherebbe nel pensiero di Ortensia; il mio cuore tornerebbe vigile e buono; l'anima triste si allieterebbe dell'anima lieta. Attendevo, volevo il ristoro di quella inconsapevole dolcezza, di quella spontanea vivacità, di quella ingenuità forse non più ignara del male, ma su cui la conoscenza del male passava come ombra che non agita e non intorbida…

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