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In faccia al destino
Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in me stesso.
E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.
– Oggi non rideremo come l'anno scorso, quando andammo a Monfalco – disse Ortensia.
Presero a raccontarmi della gita dell'anno innanzi, ch'era stata interrotta da un nebbione formidabile.
– Dovemmo pernottare in una capanna.
– Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire – disse Marcella a Ortensia.
Pieruccio affermò:
– Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!
– Non è vero! – gridò Guido. – Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla capanna, per paura di perdervi.
– Ci arrivammo!
– Storie!
Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così piccola impresa.
– Oh che notte, là dentro! Che notte! – ripeteva Marcella. Raccontava Ortensia:
– Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare un poco. Che freddo!.. Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò che non ci fosse nemmeno un po' di tè. Allora chi si mise a sospirare perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva le pantofole; chi voleva l'acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le portavano due guanciali!
Ma Anna, sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro particolare ricordo:
– Nemmeno l'ingegnere chiuse occhio in tutta notte.
L'ingegner Roveni sorrise appena e disse: – Lei non dovrebbe saperlo se io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.
Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro, perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità, alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell'anima il crollo di una grande speranza. Ora, come l'anno prima nell'altra gita, Ortensia era lontana da me, lieta senza di me.
Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane di Guido, che impazzava a levar passeri, o ristava per dire qualche cosa a ragazzi o a vecchi che vedeva nei campi o nella strada, o ascoltava me e Roveni e borbottava: – Noiosi! – , e s'accompagnava per breve tratto a Pieruccio e ad Anna.
Per divertirsi di più, ottenne da Guido, il quale aveva una naturale attitudine a contraffar il prossimo, che imitasse Roveni: persona eretta, mosse risolute, passi lunghi, gambe svelte e solide. Poi, la studiata andatura di Pieruccio. Risate. Quindi imitazione della mia voce e alcune attitudini mie. E applausi. Ancora: gallicinii e qua qua. Gli disse Pieruccio:
– Fa l'asino, che ci riesci così bene!
Tranquillamente Guido si mise a ragliare; e da una cascina un cane accorse abbaiando; e il cane di Guido gli s'avventò contro: ne nacque una zuffa, aizzata dal terzo cane, ch'era Guido, e dalle grida delle ragazze.
Tra queste pur Marcella mi spiaceva e mi pareva perdesse quella soavità di spirito che le dava una beltà così gentile; ma per Ortensia sempre più provavo il senso doloroso di un intimo distacco e lo strappo di un'illusione necessaria.
Ahimè! bastavano quelle poche distrazioni, cui ella acconsentiva, per persuadermi che l'affezione di lei, per quanto sincera, scemerebbe a poco a poco nel mutare delle circostanze della nostra vita.
Mi chiedevo ora se avrei osato confessare ad altri, pur ad Eugenia, che io avevo creduto sul serio di sopperire a un affetto naturale con un affetto che non doveva in realtà superare i limiti dell'amicizia.
Non mi riderebbero in viso gl'innamorati (Guido e Marcella); i desiderosi d'amore (Pieruccio e Anna); la gente positiva (Roveni), se io chiamassi Ortensia, per uso, col nome di sorella? Dunque la mia speranza era insana! Ortensia stessa doveva comprendere d'aver ceduto a un'ingenuità puerile promettendomi il suo affetto, se una breve interruzione della nostra consuetudine quotidiana e l'uscir fuori dei soliti luoghi, in cui restavamo insieme, potevano così distoglierla da me.
Intanto Anna, indispettita perchè l'ingegnere rimaneva al mio fianco, sfogava il suo rovello impedendo a Pieruccio di rimaner con Ortensia. Chi più disgraziato dei due: io o Pieruccio? Chi più ridicolo?
Povero ragazzo, che forse aveva riposte tante speranze anche lui in quella passeggiata!
Aveva il binocolo a tracolla, e poichè non poteva servirsene a mirar Ortensia o ad ammirar sè stesso, come suo padre faceva con lo specchietto, ogni punto di vista gli era buono perchè traesse l'arnese dalla busta e ristesse a osservare il paesaggio.
– Signor dottore: vuole? – mi chiedeva con un inchino. Ma Ortensia e Anna accorrevano.
Ortensia, che poco prima aveva rifiutato il binocolo, ora insisteva:
– Voglio veder io! voglio vedere!
Ma da Ortensia il cannocchiale passava ad Anna; e cominciava la guerra per ricuperarlo. Anna fuggiva ridendo e sperando d'esser rincorsa anche da Roveni. E risate e grida.
Io mi servii di Pieruccio per sfogare il mio tedio.
– Oh l'infelicità del primo amore! – dissi con l'ingegnere. – Che fatiche! che sacrifizi! L'adolescente innamorato patisce un appetito formidabile e rifiuta il cibo; casca di sonno e si sforza a vegliare; con tutto il pensiero cerca l'immagine adorata, che dovrebbe specchiarsi chiara e netta alla sua mente, ma col naso divino, gli occhi divini, la bocca divina, che la mente gli delinea, non riesce mai a comporre la faccia divina, e invece gli balzan dinanzi le facce più estranee e più antipatiche. E questo è nulla! Vagheggiare qualche eroica impresa; o salvar da un pericolo mortale la bella per meritarne l'amore, o sfidare e ferire a morte il rivale, e sudar intanto nelle scarpe troppo strette o troppo larghe, e fare e rifare il nodo della cravatta, or sperando or disperando che parta da essa il colpo della vittoria! E questo è nulla! Proporsi di esser spiritoso e irresistibile, e non riuscir a trovar motto che non sia stupido e a trovar un gesto che non sia goffo.
Questa volta Roveni rise sgangheratamente; troppo. Non rise Ortensia; mi fissò e disse:
– Brutto giorno, oggi! – e via!
A un punto la perdei di vista; finchè, ella ricomparve con Anna, su di un poggiòlo in mezzo a una fratta. Di là ci chiamavano, urlavano i nostri nomi.
Disse Roveni: – Che bella voce ha Anna! – E forte: – Canti, signorina Melvi!
Allora la monellaccia, con voce squillante:
L'amore è una catena!L'amore è una catenache non si spezza…… Quando arrivammo a Rivalta, il villaggio dei tagliapietra, a più che due terzi del cammino,, era già tardi, e noi assetati e affamati. Or mentre io guardavo ai tagliapietre e agli scalpellini che quadravano e appianavano i massi – e schegge e lapilli balzavano diffusi ai colpi dei martelli, e i birocciai davano voce ai muli, e rintronavano da lungi le mine – le ragazze avvertirono, entro una porta, un magnifico cesto di pere, e si misero a mangiarne ingorde, invitando noi a pagarne il prezzo.
Allora, nel veder mordere i grossi frutti dalle polpe succose, come io invidiai la gioia di vivere!
Non bastavano quelle belle frutta a dimostrare la provvidenziale disposizione della natura alla gioia umana? Non erano destinate a gioie umane quelle labbra rosse, che sui pericarpi color d'oro secondavano il taglio avido dei denti?
E mi volsi a cominciar solo la salita dell'ardua costa montana.
Da un lato s'ergeva la costa a perpendicolo, tutta di massi grigi e neri sovrapposti come per un gigantesco assalto alla vetta; dall'altro lato precipitava la rovina sino al fiume, sul greto del quale il sole batteva irradiato dalla scarsa corrente.
Io non guardavo là dove il sole splendeva: a un passo più scosceso una nera croce di legno ammoniva che di là un viandante era precipitato e morto. Morire così!
Ma mi raggiunsero i giovani; mi raggiunse la vita, e sempre più incresciosa. Anche ora risento di quell'uggia; e non riferirei più oltre di quella gita se non fossero state gravi le conseguenze che ebbe.
… Come entrammo nelle grotte, avanzarono per primi Ortensia, Marcella e Guido; seguimmo io e Pieruccio e gli altri due. Roveni, senza opposizione, reggeva la candela rifiutata da Pieruccio.
Intanto il cane si precipitava fin dove giungeva l'ultimo riverbero e s'arrestava abbaiando alle tenebre; poi facendo l'occhio all'oscurità, o scorgendo altro barlume, procedeva ancora e si perdeva, e impaurito a non udir le nostre voci o a udirle lontane, latrava e guaiva, finchè riusciva a trovarci, per riprendere quel nuovo sollazzo subito dopo. Acute strida seguivano a fremiti veri o immaginari di pipistrelli. E veramente ogni volta che si rinnovava l'oscurità, perchè o aria o ala di pipistrello od altro spegnesse la candela, la tenebra gravava su di noi; il freddo umido penetrava le ossa e l'attesa della nuova luce pareva eterna a chi frattanto non facesse qualche cosa.
Che facesse Anna non sapevo; ma insospettito, quando la candela fu riaccesa la quarta o quinta volta, mi ritrassi da parte per lasciar l'adito a lei e Roveni; e sorpresi Anna nell'atto di soffiare alla fiammella.
Finalmente usciti di là e superata l'ultima costa, tornammo nel prato, a far la colazione che un servo aveva predisposta.
Di lassù spaziava la vista della valle, ove le case apparivano frequenti come un gregge bianco in parte diffuso e in altre parti raccolto: verdi di boschi erano i monti prossimi, e tra il verde, or cupo or diverso per mezzi toni o sfumature ai riflessi di luce, casupole e ville; giù, candido il fiume, e i monti anteriori eran brulli e scuri, e azzurrine o già nebulose le estreme vette.
D'improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora: l'Angelus vibrò nell'aria.
Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi tardi e fiochi. Stranamente, dall'immagine ancor viva dei tagliapietre, che mi pareva veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io corsi all'immagine dell'operaio al mio paese: deponeva la vanga e traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva e fresca… Infelici i poveri!
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