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In faccia al destino
Era l'ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.
– Arrivo! Pazienza! – egli rispose alle voci che lo chiamavano.
Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a prender ordini. Di sulla porta io l'osservavo.
L'ingegner Roveni quando parlava d'affari era parco nelle parole, immobile, attento. Aveva risposte pronte. L'antipatia che mi separava da tutti gli estranei non poteva resistere contro di lui; anzi dal primo giorno che l'avevo visto non mi era spiaciuto quel giovane dalla fisionomia decisa: non bella per il naso breve un po' all'insù, ma abbellita da due folti baffi biondi; e dalla persona robusta e a mosse un po' dure, quasi di macchina non ben levigata e non in piena attività, eppure in un perfetto equilibrio di tutte le forze alla regola dell'arbitrio. Per una inesplicabile contraddizione non mi spiaceva quell'uomo, ambizioso, si vedeva, fin dal modo di camminare.
Passandomi accanto egli mi salutò con un franco:
– Buona sera, dottor Sivori! – e andò difilato a prender Anna Melvi per ballare il waltzer.
Io mi riaccostai agli uomini seri.
– Che fibra! – disse Claudio, che ora parlava di Roveni. – Tutto il giorno lavora per me e la notte studia per sè.
Aggiunse che Roveni s'occupava con passione in studi d'elettricità.
Quindi disse:
– Io penso con dolore al giorno che dovrà abbandonarmi.
Una risposta mi venne al pensiero e alle labbra: – «Hai un mezzo molto semplice per trattenerlo: dagli in moglie una delle tue figliole».
Ma sarebbe stato come dire a uno che possegga un tesoro: – dallo al tale – , o almeno sarebbe stato come proporre un sacrificio intempestivo; perchè nel sereno egoismo del suo amor famigliare, Moser non s'era ancora accorto che le figliole pervenivano all'età da marito. Perciò tacqui.
E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi d'improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo cuore.
Sì: la timida Marcella… con Guido Learchi… Mentre con Roveni ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano l'uno negli occhi dell'altra la propria felicità. Non ne mostravano meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere, ridere d'ironia. – Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei fare all'amore anch'io? – mi chiesi; e fissai Guido ridendo.
Egli venne da me rosso in faccia, con l'indice al naso:
– Zzz… zitto, per carità!
– Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?
– Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla – rispose con voce dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi crudele chiamai Marcella:
– Debbo dar retta a Guido?
Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.
– Perchè? che vuol dire?
– Debbo aiutarvi?
– Non so… non capisco… Mi lasci andare!
Invece la strinsi al braccio e le chiesi piano:
– Gli vuoi molto bene? – ; e la guardavo negli occhi come per impedirle di sfuggirmi. Sentiva essa la punta della cattiveria nelle mie parole e nei miei modi apparentemente scherzosi? Ah io volevo distrarmi: volevo sottrarmi a me stesso: interpormi meschinamente alla vita che vedevo fuori di me, e che mi sfuggiva!
– Non è vero!..; non so… Chi gliel'ha detto? – rispondeva la poverina, cedendo a poco a poco.
– E tua madre lo sa?
Abbassò gli occhi, esitando ancora:
– Sì… credo di sì; ma il babbo, no! – Mi scongiurava con i begli occhi.
– Il babbo presto o tardi dovrà saperlo!
– Oh per amor di Dio non dica nulla! È tanto buono lei! Non ci comprometta, Sivori! Guai, guai, se il babbo lo sapesse ora! – Pregava apertamente; sperava nella sua preghiera ed in me, e appariva ancor timorosa del pericolo. Soave creatura!
Anna Melvi, rasentandoci, ammiccò; fece: – Zzz… – e ruppe in una bella risata; e i due colombi, Guido e Marcella, mi scapparono.
Passavano davanti a me, intanto che Anna afferrava Pieruccio e si slanciava con lui, Roveni e Ortensia. Forse anche questa una coppia amorosa? Mi sembrarono estranei l'uno all'altra. L'ingegnere era tutto intento a condur giusto il passo e a non farsi scorger peggior ballerino di quel che era; e Ortensia non dimostrava che il piacere della danza: in un pieno abbandono d'ogni energia al ritmo; con ogni energia raccolta e diffusa nel giacere che le vibrava nel sangue, tutta la persona di lei esprimeva giovinezza lieta, e solo gioia e grazie ignare. Nondimeno allorchè ella cessò il ballo e venne a me, io le dissi con intenzione maligna:
– Bel giovane, Roveni…
Oh! essa non si turbò per nulla! Rise domandando:
– Lo dice a me?
– A chi dovrei dirlo, piuttosto?
– Ad Anna.
– E due! – esclamai persuaso che Ortensia intendesse svelarmi in Anna e nell'ingegnere il secondo paio d'innamorati.
Appunto allora Roveni, il quale conversava e scherzava ugualmente con le vecchie e con le giovani, lasciava la Melvi madre e la Learchi, e come avrebbe parlato a qualsiasi altra delle ragazze domandò a Ortensia: – Sarà lei che farà ballare il dottor Sivori? – Ma Ortensia non fece in tempo a rispondergli, perchè Anna si staccò d'un tratto da Pieruccio, lo piantò e si porse a Roveni; e via.
Pieruccio rimase intontito là dove l'aveva lasciato Anna; con quegli occhi bovini rivolti verso di noi, anzi verso Ortensia. A questa susurrai, col solito sarcasmo:
– Quell'infelice soffre; e si direbbe che soffre per te.
– No – ella rispose – : soffre per il colletto. – L'alto e rigido colletto l'attanagliava infatti; l'affogava.
In questo mentre la Melvi accresceva l'esitazione di Roveni e l'induceva a stringerla più forte mancando al tempo o cadendo in contrattempi: gli s'abbandonava affaticata e liberava una mano per risollevare i capelli che le si erano sciolti; ansimava e rilevava il petto turgido alla inspirazione frequente. Poscia di fronte a Pieruccio Fulgosi sorrise a lui, lusinghiera insieme e beffarda. Civettava con l'ingegnere e nello stesso tempo si burlava del giovincello. Ma questi era degno figlio di suo padre, e con l'aplomb di un uomo di spirito s'avvicinò ad Ortensia:
– Permette?.. Posso?
Ella accondiscese senza dir nulla; rivolse a me un'occhiata che diceva quanto colui era antipatico anche a lei, e riprese dopo pochi passi quella letizia ingenua che nel ballo dimostrava con ogni compagno.
Io tornai ad osservar Marcella. Più di Ortensia la vista di lei tratteneva la mia attenzione perchè Marcella, che, a guida di Roveni e di Fulgosi danzava in maniera scolastica e fredda, la vedevo ora, che ballava di nuovo con Learchi, quasi arrisa tutta dal lume de' suoi occhi: era la felicità di un rapimento, l'accondiscendenza di un'anima pura alla felicità dell'anima che la rapiva seco. Ugualmente per Guido. Inconsci di quanto poteva essere di materiale e d'umano nel commotivo sollazzo, trasalivano in rapidi giri con un desiderio di sollevarsi, guardandosi così, lungi agli uomini, fuori del mondo, liberi da quello stesso contatto dei corpi che li inebbriava e li intimidiva a vicenda. E quando Learchi accompagnò Marcella a sedere, egli ristette in piedi presso di lei senza parole; ambedue in un'attitudine quasi dolorosa: quel distacco repentino, quel ritorno al riposo materiale, era uno strappo alle loro anime che, accomunate nel piacere, non avrebbero voluto o potuto dividersi subito così.
A tal vista io provavo un rancore, un astio di cui non avrebbe dato sufficiente ragione neppure l'invidia, se l'invidia fosse stata possibile in me.
– Che fa lei qui? – mi chiese Anna Melvi.
– Studio – risposi, per dir qualche cosa.
Mi fissò per un attimo e disse:
– Ne imparerà delle belle!
Avrei voluto pungerla, ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò subito a me dicendomi, felice:
– La mamma dorme… Vedesse! È queta queta.
Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare. Finalmente cercai parole che sembrassero buone.
– Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?
– Sì! E lei starà sempre con noi? Non scapperà più? Non sarà più stanco e nelle nuvole? Terrà compagnia alla mamma?
Certo – risposi appena.
Ortensia mi ringraziò e nel ringraziarmi ella mi guardò quasi dicesse: «Lei crede di comprendere tutto il bene ch'io voglio a mia madre. Ma io gliene voglio di più, molto di più!»
Come dopo un riposo la signora Fulgosi ebbe trovato l'andare del dancing, l'ingegner venne a prendere Ortensia. Su di lei raccolsi ora la mia attenzione quasi sperando da lei sola una commozione diversa e benefica. Ancora ella procedeva semplice e vaga, pur quando la nuova danza imprimeva una consapevole mollezza e cadenze a riprese leggiadre fino alla leziosaggine; e nei trapassi violenti al ritorno vorticoso, trascorreva leggera e composta, liberandosi con spontanea agilità dal contatto terreno.
Una voce dietro a me susurrò:
– E charmante quella bambina!
Aveva parlato il cavalier Fulgosi.
– Che pezzo di carne! – disse invece il signor Learchi padre, alludendo ad Anna, che si rapiva Pieruccio.
– Anna è più coquette – giudicava il cavaliere. – E Learchi:
– Ha più grazia di Dio addosso. A quel che pare, suo figlio in queste partite è della mia opinione.
– Prime armi! – fe' contento il mondano genitore.
Io continuavo a considerare Ortensia.
Alta, snella, bionda. I copiosi e fini capelli non erano di un biondo aureo, ma acquistavano riflessi d'oro a ogni luce; le linee del volto erano già in armonia così viva che essa poteva forse scemare, non perfezionarsi nella piena fioritura della giovinezza. Gli occhi aveva strani per un colore nè cilestre nè verde, e ombrati da palpebre lunghe; e sotto agli occhi due archi pallidi ma lievi lievi sarebbero stati segni di mestizia a chi l'avesse vista riposata e silenziosa: se non che era un po' difficile vedere Ortensia riposata e silenziosa!
Le labbra si componevano insieme con un vezzoso moto involontario se prolungava le parole: meno belle quando parlava, anche per giuoco, con ira; e forse non belle in esclamazioni di dolore e di pianto: erano fatte per sorridere.
Mirabili, signorilmente perfette, le mani… E a quella freschezza giovanile cresceva lume una nativa gentilezza, manifesta per i modi spontanei, per le acconciature semplici, per le vesti umili e le tinte chiare, e sin per i fiori che si puntava al petto.
Ma a lei, se Roveni perde vasi con Anna, non restava altro adoratore che l'antipatico Pieruccio?
Meglio così per «la mia piccola amica»!; meglio ritardasse a conoscere i perfidi inganni della giovinezza e le stupide illusioni dell'amore!..
E in quella sera di gioia per tutti, a me parve non aver altro pensiero buono che questo.
VA tanto era ridotto il sapiente osservatore della vita umana nel tramite dei secoli: a scrutare anime di giovinette e a rintracciare amori di villeggiatura!
Ma io medico, che dovevo curare me stesso d'un male così strano e pauroso, intravedevo ancora un progresso nella mia coscienza: dai ricordi ero passato a osservazione di cose, persone, animi; e seguendo il barlume di ragione che m'aveva condotto, quella sera, a interpretar l'animo di chi mi stava intorno e a dimostrarmi cogli altri abbastanza disinvolto e mutato, pensavo ora che potrei di nuovo essere attratto alla vita e ricuperare la facoltà di sentire. N'era prova l'amarezza suscitata in me dallo spettacolo della giovinezza e della gioia.
Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l'esercizio della volontà.
Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.
Sì, anche doveri. L'amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all'amore e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva? Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non dovevo tradir l'amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.
Gli parlai infatti, appena lo vidi.
Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.
– E Eugenia?
– Interrogò subito Marcella. – Sì che gli voglio bene, a Guido – (Il ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l'innamorata). – Allora la signora chiamò me e mi fece una predica…
– Una predica? Eugenia?
– Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi d'essere assiduo; che, d'altra parte, finchè non fossi laureato, l'ingegnere s'opporrebbe… Capisce, lei, adesso, perchè abbiamo tanto giudizio? – conchiudeva Guido ingenuamente – Marcella io non la vedo che la sera…
– Di sera in casa…; di giorno alla finestra.
– Ahi! – Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò il dispiacere d'essere stato scoperto.
Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti ne obblighi d'intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice. Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio; e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre; la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini di sua madre; l'arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!
Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l'assecondava; come indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.
Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall'orco.
Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo Diderot:
«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza accorgersene.»
Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana libertà della mente umana…
Ohi ma se tutte le gioie dell'amore, tutte le lusinghe dell'arte e del sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le passioni, valgono in realtà meno che le favole della nostra fantasia, e lo scopo della vita è l'illusione, l'inganno, l'oblìo della vita, a che vivere?
… Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un'anima semplice e umile presso a me benediceva la vita.
Per Eugenia era imminente il «gran giorno».
La sera prima di quello Ortensia mi chiamò.
– Venga con me!
– Dove?
– Dove? Dove? Venga con me: lo saprà. Avrà una bella improvvisata.
Mi fece andar da sua madre. La convalescente era ancora alzata nella poltrona, presso l'ampia finestra, e avevan spenta la lampada, poichè la luna, quasi piena a mezzo il cielo, bastava.
Eugenia sembrava una imagine di cera in un velo di luce bianca.
– Alzata? – io dissi entrando. – Non vi affaticherete troppo?
– Mi sento così bene – rispose. – Guardate che sera!..
– Una delizia! un incanto! Par di sognare! – esclamò Ortensia, entusiasta. – Io stasera sono felice.
Felice, venne ad appoggiare la sua guancia a quella della madre, come soleva.
– E Marcella? – chiese poscia la madre.
– Sono tutti nella terrazza.
– Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.
Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente. Finchè dissi:
– Dunque dimani vi avremo in giardino?
Allora la mia voce ruppe l'incantesimo di quella bianca luce che nel silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido viso.
– Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere…; un piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo il perdono, dopo un'espiazione…
Scosse il capo.
– No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare… Questa notte – proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare l'apparenza del sogno – questa notte ho sognato che prendevo dall'armadio la biancheria, per darle aria, e che l'odore della tela e il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso mi sento intorno il profumo di lavanda.
– Segno che siete guarita – dissi io freddamente – , ma che siete debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.
L'ammonimento tolse da noi l'impressione di gioia che aveva avuta la sua voce trepida; e io non provavo che un'impressione di freddo, di silenzio e d'immobilità a guardare il lume di luna. Esanimi, gli alberi del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non rischiarava che l'impenetrabile vôlta d'aria sospesa su questo povero mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto, scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.
Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello splendore un'anima fluiva per tutto e tutto era un'anima. Una creatura sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n'ero privo: il mio cuore n'era privo! Pativo in me la condanna di un'esclusione inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.
– Il piacere della convalescenza! – dissi a un tratto. – Ecco un piacere che non proverò più!
Eugenia fissò ne' miei occhi il suo sguardo appena percettibile.
Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l'ora in cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:
– Io ho da chiedervi perdono, Sivori.
– Perchè?
– Dubito che le ragazze e Mino v'importunino… Siete troppo buono con loro, soprattutto con Ortensia…; e io commisi l'errore…
L'interruppi.
– Credete forse che io resterei quassù, da voi, se qualcuno mi desse pena o se dubitassi di dar troppo pena a qualcuno?; se non mi paresse di star meglio qua che a casa mia?; se non fossi certo che in nessun altro luogo troverei amicizia così riguardosa, così paziente? – Ma ciascuna di queste interrogazioni era cercata per attenuare la durezza che mi restava nella voce e nell'aspetto.
Invece Eugenia fu commossa essa di gratitudine. Mormorò:
– Noi vorremmo vedervi contento, Sivori…; ma comprendo che purtroppo questo non sta nè in noi nè in voi.
– In chi sta, dunque? – chiesi con violenza mal repressa. Ella non rispose subito; poi rispose:
– In Dio.
Esclamai:
– Ah Dio mi ha tradito anche lui!.. Voi pensate che Dio bisogna cercarlo non nella mente ma nel cuore, è vero?
– Sì.
– Sì, perchè Dio dovrebbe esser la vita e la vita dovrebbe esser qui (mi toccavo il cuore). In tal caso (e cercai d'attenuare in forma dubitativa ciò che per me era certo) in tal caso, io comincio a temere che la vita non mi serbi più nulla, più nessun bene! Temo, Eugenia, che la mente mi abbia divorato il cuore.
– Sivori! Sivori! – pregava la buona donna. – Non vi abbandonate alla tristezza, al dubbio. Siete ancora giovane, non siete un debole…
Tacevamo di nuovo. Ingrato e tristo io invocavo Ortensia, o qualcun altro, a liberarmi, o a mutar discorso. E fui soddisfatto. Batterono all'uscio. Il cavalier Fulgosi veniva a portare i suoi omaggi, le sue congratulazioni, i suoi auguri alla «cara signora Eugenia».
– Come va, cara signora?
– Sono molto debole…
– Sfido! È stata una gran batosta! Ma adesso ne siamo fuori… A la bonne heure!
Ripigliò:
– Eh, io lo dicevo anche con mia moglie: la nostra signora Eugenia è più forte di quel che sembra. Vedrete che se la cava; vedrete! Poi è bene affidata. Un gran bravo dottorino, quel Minguzzi!; lo dicevo ieri col sindaco: un giovane studioso, tranquillo, in questi tempi che tutti i medici fanno i socialisti e dovrebbero piuttosto essere moderati. La scienza, è vero, dottor Sivori?, deve procedere adagio. Festina lente. Soprattutto la medicina. A lei, che più che un medico è un filosofo, posso confessarlo: nella medicina io ci credo poco. Medice, cura te ipsum! E per me, di medicine non ne prendo mai… Un po' di cremor tartaro, alle volte. S'intende però che nei casi seri, come il suo, signora Eugenia, bisognava aiutare la natura con tutti gli sforzi della scienza. Basta: ora ringraziamo il Cielo e stiamo allegri. Hurrà! Domani a desinare in casa Fulgosi si leveranno i calici alla salute della signora Moser, e mai toast sarà stato più cordiale.
– Grazie – ripeteva Eugenia, – grazie, cavaliere!
– E lei, dottore, benone? Si vede.
– Benone – io feci.
– Già l'ingegner Moser esagera a dire che il troppo studio ammazza. Eh! quando si è sani le fatiche intellettuali si sopportano come le altre… Ne so qualche cosa anch'io…
In quel mentre al lume di luna il cavaliere si guardava alle scarpette nere e lucenti: ad una delle quali il nastrino s'era sciolto, o almeno sembrava non più del tutto uguale all'altro. Lo ricompose; e rialzando il capo guardò alla luna e l'apostrofò a tu per tu.
– Casta diva… Che sera! eh, dottore? Peccato non aver vent'anni!.. Del resto, per tornare a quel che si diceva, mens sana in corpore sano; e, viceversa, se è sana la mente è sano anche il corpo. Quando non si è sani e forti, non si fanno le opere del dottor Sivori… No, no, dottore; mi lasci dire. Non è flatterie, è verità…
– Voi siete ancora molto debole, ed è tardi – io dissi a Eugenia, alzandomi…
VINel giardino, dietro i due abeti gemelli, un folto di ligustri, mirti e semprevivi formava capanna. Là Claudio e il medico curante portarono, sulla poltrona, Eugenia. Li avevamo seguiti io e le ragazze, timorose queste; ma io non provavo niente di quel che provavano gli altri.
Più visibili, là fuori, erano nella convalescente le tracce della malattia che l'aveva prostrata; manifeste vene azzurrine segnavano alle tempie la pura fronte; profonde e oscure, nel pallore diafano del volto, le occhiaie; infossate le guance; violento il rilievo agli zigomi e alle mandibole. E le mani… così bianche! così affilate!..
– Ah Sivori! – ella mormorò con un pallido sorriso, quasi mi dicesse: «Come sono contenta».
– Zitta! – impose Moser. – Zitte anche voi! – disse alle ragazze, che non fiatavano e guardavano ora alla madre ora al medico.
Ma questi, ristato un po' in attenzione dinanzi ad Eugenia, si mostrò del tutto tranquillo per lei e pago di sè.
Io pensavo che avrebbe dovuto consigliarla a chiudere gli occhi, a riposare, forse anche a dormire, piuttosto che permetterle di guardare, ascoltare, accogliere di urto, subito, la vita che le ferveva intorno. Invece egli disse solo:
– Si ricordi, signora, che appena si sentirà stanca dovrà dirlo; e l'ingegnere e il dottor Sivori la porteranno in casa. Mi raccomando!
Dopo la quale raccomandazione e poche altre parole, prese commiato.
– Come ti senti? – chiedeva Moser indi a poco.
– Bene, tanto bene!
Per lasciarla tranquilla, Claudio si mise ad andar su e giù lungo il viale, al margine dell'erba, fermandosi a quando a quando a riguardare. Marcella, tacita, sedette sul sedile di macigno, presso alla madre e ripigliò il crochet; e Ortensia di su un più basso sedile di pietra, dall'altro lato, poggiava il mento su uno dei bracciali della poltrona; e non potendo tacere, susurrava puerili e dolci espressioni d'affetto: – Mamma buona…; mamma bella… – Io, in piedi, ero col dorso appoggiato a un tronco. Ora con interpretazione perspicace, sicura, seguivo in Eugenia ogni successiva impressione; i moti del cuore e dei nervi; la vicenda e l'aumento delle sensazioni; e insieme con queste il rampollare delle idee… Appena oso dirlo. Prevedevo che l'impeto della vita fra breve sarebbe, per la delicatezza e sensibilità di Eugenia, troppo rapido e violento; ma non ne avevo timore. Freddamente, curiosamente, l'osservavo; e senza sforzo, come per abitudine antica a oggettivarmi, vedevo tutto quello che succedeva in lei. Tutto!