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Scherzi Da Adulti
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Scherzi Da Adulti

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Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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MARO FOGLIANI

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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

http://write.streetlib.com

Indice dei contenuti

  IL PESO DI UN SEGRETO

  UNA NOTTE DA INSONNI

  LA ROSCIA

  LA CONFESSIONE

  LA PERFIDIA DELLE DONNE

  IL PROGETTO PILOTA

  DIAVOLI E AUTOMOBILI

  IL REGALO DI COMPLEANNO

  IL FIGLIO NON ADOTTIVO

  QUANDO FUFFY SI E' SMARRITO

  LA PRINCIPESSA CAPRICCIOSA

IL PESO DI UN SEGRETO

La mia vecchia, sdraiata supina nel suo letto, agitava il vecchio campanello sul comodino quasi per amplificare il beep intermittente di una sveglia per lei troppo moderna.

“Ho sentito, ho sentito. Sto arrivando, mamma”.

“E' l'ora delle mie medicine. Me le hai preparate le medicine?”

“Ma si, mamma, sono lì pronte al solito posto dentro al piattino. E anche il tuo bicchiere. Basta che allunghi la mano.”

“Sono le mie, le medicine, vero?”

“Ma certo: e di chi vuoi che siano? C'è forse qualcun altro in questa casa oltre a noi due?”

Quasi per caso i suoi occhi in quel momento erano aperti: ormai li teneva chiusi la maggior parte del suo tempo solo perché, diceva, le costava meno fatica. Ma anche a vederli aperti, così grigi e sempre più persi e sbiaditi, poco cambiava: il loro aspetto confermava sempre più chiaramente quanto il dottore ci aveva detto l'ultima volta, e cioè che la sua vista era ormai ridotta al lumicino.

Povera mamma. Vederla in quelle condizioni mi faceva pensare che la vita si fosse presa gioco di lei.

Fino a pochi anni prima, fintantoché il fisico glielo aveva permesso, era stata attrice di teatro, passione che mi aveva trasmesso assieme ai cromosomi. Lo scherzo del destino era che nell'opera di maggior successo da lei interpretata c'era una scena intera in cui lei era proprio in queste condizioni, inferma dentro ad un letto. Forse in quella scena, che io stessa mi ero rivista registrata per decine di volte, se la ricordavano quei pochi, pochissimi che si erano ricordati di lei in questi ultimi anni. Una scena che adesso, confrontata con la realtà, dava piena evidenza di tutti i suoi limiti di attrice.

“Arianna. Aspetta ad andartene. Ti devo dire una cosa. Una cosa importante.” Fece una breve pausa, sollevandosi leggermente ma con grande fatica sui cuscini. “Ultimamente la mia salute sta peggiorando, me ne rendo conto.”

“Ma no, mamma, non dire così. Diciamo che non migliori, questo sì”, le risposi cercando di tirarla su di morale. Ma lei proseguì senza dare il minimo peso alla mia pietosa bugia.

“Per questo penso che sia arrivato il momento. Il momento giusto.”

Temetti che volesse dirmi che stava per morire. In realtà non mi sbagliai di molto.

“E' arrivato il momento di confessarmi. Perciò vorrei che mi facessi venire qui un sacerdote.”

“Confessarti? Un sacerdote? Ma stai scherzando! Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo? Saranno forse trent'anni che non vedi un prete, voglio dire un prete vero. Forse è da quando mi sono sposata io, che chissà perché ne abbiamo voluto uno. In vita tua hai incontrato più attori vestiti da prete che preti veri; forse non sai neanche cosa sia una messa, se mai ci sei stata.”

“Appunto. E' proprio per questo che è arrivato il momento.”

“Ma non hai pensato che forse sarebbe meglio confidarti con qualcun altro che conosci, piuttosto che con uno sconosciuto?”

“Ti prego, Arianna, dammi retta e ubbidiscimi senza storie, almeno stavolta. Per tutta la vita ho sempre dovuto questionare con te. Sarebbe così bello sentire che non mi contraddici e che almeno una volta fai quello che ti chiedo senza polemiche.”

In realtà chiamare un sacerdote era un problema per me, al di là del fastidio di sapere che mia madre preferiva confidarsi con un estraneo anziché con la sua unica figlia. (E che peccati poteva aver commesso, poi!). Non solo io di preti veri non ne conoscevo, ma mi seccava addirittura il solo pensiero di entrare in una chiesa per cercarne uno.

Allora riflettei sul fatto che quanto avevo appena detto su mia madre, e cioè che in vita sua aveva conosciuto più sacerdoti finti che sacerdoti veri, in realtà valeva anche per me. Anch'io appartenevo a un gruppo teatrale, e tutte le parti da prete o vescovo erano state sempre interpretate da Filippo, che per fisionomia e modi di fare sembrava decisamente più adatto di tutti gli altri a quel ruolo, e che per questo motivo aveva col tempo acquisito sulla scena una discreta esperienza in quei panni.

Però … se mia mamma gli avesse rivelato qualche cosa di imbarazzante … e magari alla fine l'avesse saputa lui ed io ne fossi rimasta all'oscuro? No, non mi sembrava davvero una buona idea. Io, ed io sola, in qualità di figlia, mi sentivo autorizzata a compiere questo illecito. Non avrei coinvolto nessun altro.

Restava il fatto che sicuramente il teatro aveva qualche costume di scena adatto. Un abito talare, una bella parrucca e magari una barba finta; e mia madre, che di preti veri non ne conosceva e che ormai ci vedeva male e sfuocato, ci poteva tranquillamente cascare, se fossi stata brava a recitare la parte.

Si, alla fine avevo deciso: avrei fatto così.

Cambiai la suoneria della sveglia del cellulare in modo che fosse esattamente uguale a un campanello di casa, e mi recai al teatro, dove ebbi la fortuna di incontrare Filippo, con cui però non entrai nel dettaglio delle mie intenzioni: gli dissi soltanto che il costume mi serviva per uno scherzo “da prete”. Egli mi aiutò nella scelta di quello più adatto e mi diede una breve infarinatura e qualche dritta sulla confessione e sul mestiere del prete, anche aiutandosi con internet.

Sulla via del ritorno feci in tempo ad imparare a memoria la formula dell'assoluzione e altre formule latine il cui significato mi era poco chiaro, ma che mi sembrarono di sicuro effetto. Rientrata a casa lasciai nell'ingresso tutto l'occorrente per il travestimento, insieme al mio cellulare, ma riferii invece a mia madre di essere stata nelle chiese vicine per cercare un confessore, che sarebbe venuto di lì a poco.

All'ora X suonò il campanello di casa (ovvero la suoneria della mia sveglia), e mi trovò, secondo i piani, nella stanza di mia madre insieme a lei.

“Eccolo, deve essere il sacerdote venuto per la confessione”, le dissi facendo per andare ad aprire la porta di casa; ma uscendo dalla stanza accostai la porta, in modo da non farmi vedere e che eventuali rumori strani o imprevisti venissero attenuati.

“La ringrazio molto di essere venuto, don … come ha detto che si chiama?” “Don Mario”, mi risposi cercando di impostare una voce che fosse il più possibile maschile e rassicurante, mentre al tempo stesso mi sistemavo nei miei nuovi abiti ecclesiastici.

“Gradisce un buon caffè?”, era la scusa migliore che avevo escogitato per assentarmi e giustificare il fatto che mia madre non mi avrebbe visto insieme al prete.

“Volentieri, volentieri, signora. Però ...”. Però stavo incontrando più difficoltà del previsto per sistemarmi la barba finta e la pelata, e mi serviva un altro po' di tempo.

“Però, visto che ci conosciamo così poco, mi farebbe piacere sapere qualche cosa di più su di lei, e soprattutto su sua madre. Perlomeno i vostri nomi.”

Ecco, adesso mi stavo controllando allo specchio ed ero proprio a posto. Tanto ero soddisfatta che non resistetti alla tentazione di farmi un “selfy” col cellulare.

“Arianna, io mi chiamo Arianna. E mia made Luisa, ha quasi novant'anni. Si accomodi, la prego. E' quella porta laggiù. Io intanto vado a preparare il caffè.”

Entrai nella stanza di mamma un po' impacciata nell'abito talare, ma sicuramente irriconoscibile.

“Cara signora Luisa, eccomi qui. Che cosa posso fare per lei?”

“Lei è simpatico e spiritoso, ma sa benissimo perché si trova qui.”

“Repente liberalis stultis gratus est, verum peritis irritos tendit dolos, gloria patri et filio et spiritui sancto sicut erat in principio et nunc et sempre in secula seculorum Amen”, le sciorinai quasi in un sussurro ma molto velocemente, tenendo le mani e lo sguardo rivolti al cielo, ottenendo esattamente l'effetto da me desiderato. “E adesso veniamo al dunque”, proseguii, “mi dica tutto, cara signora.”

“E' successo tanti anni fa, forse quindici o venti. Mia madre era malata, non proprio come me, ma molto vecchia. Quando la sua amica più cara morì io lo venni a sapere quasi per caso e non ebbi il coraggio di dirglielo. Avevo paura di darle un dispiacere troppo grosso, magari tanto da morirne essa stessa, vista la sua età e la sua salute. E così decisi di fare in modo che non lo venisse a sapere. Volevo solo risparmiarle un dispiacere. Insomma, doveva essere una pietosa bugia, non un inganno e soprattutto non c'era nessuna cattiveria.”

“Decisi di fare una telefonata a mia madre, di fingermi la sua amica ed inventarmi una buona scusa per cui non l'avrebbe più chiamata né sentita. Sa, io ero attrice di teatro: mentire e alterare opportunamente la mia voce non era difficile per me.”

Lo so, lo so”, pensavo mentre l'ascoltavo nei miei panni da prete; “anch'io sono attrice di teatro, evidentemente me l'hai trasmesso col DNA.”

“Inventai per la sua amica che uno dei suoi figli, che da diversi anni per davvero viveva in Francia, era venuto a trovarla dopo tanto tempo. Le aveva detto che si trasferiva nel nord Italia con la famiglie e che aveva comprato una villa grande e bella dove sarebbero stati comodi tutti insieme; e le aveva proposto di andare a stare da loro. E lei aveva accettato.”

“E fin qui andò tutto bene, se la bevve tranquillamente”, proseguì mia madre. “Ma evidentemente quel giorno aveva voglia di chiacchierare, ed io dovetti improvvisare. Non è che conoscessi molto bene la sua amica: perciò, per evitare di dover parlare troppo e venire smascherata inventandomi cose non vere, feci la vaga e lasciai parlare lei.”

“La conversazione si stava facendo troppo lunga e meditavo di far cadere la linea per interromperla, quando cominciò a prendere una piega inaspettata ma interessante. Perchè, non ricordo per quale motivo, lei aveva cominciato a parlare di me. Ma purtroppo, e con mia grande sorpresa, non è che avesse per me le buone parole che mi aspettavo. Anzi, mi dipingeva in modo decisamente negativo. Sì, parlò di me con astio e cattiveria. Si lamentò che non stavo mai a casa, e che quando c'ero la trattavo male, come fosse una bambina, e non le lasciavo fare niente di quello che voleva. Ma ciò che mi diede più fastidio fu invece l'esaltazione che fece di mio fratello: lui fa questo, lui fa quello; lui qui e lui là. Mio fratello che - voglio che lo sappia, padre - ha badato a lei neanche per un anno della sua vita: poi si è risposato, è andato a vivere in campagna e non si è fatto più vedere né sentire.”

“Lo so, lo so … voglio dire, lo immagino. A volte càpitano situazioni come queste nelle famiglie, anche nelle migliori. Con gli anziani bisogna aver pazienza”, buttai lì per calarmi meglio nella mia parte.

“E' questo il punto”, riprese lei, “che io, che di pazienza fino ad allora ne avevo avuto tanta, la persi tutta in un colpo. Se proprio ti trovi tanto male con me e a casa mia dove per anni non fai altro che portarmi impicci e problemi, ho pensato, allora vattene una buona volta. Non so come abbia potuto assalirmi un pensiero del genere, ma non sono riuscita a controllarlo. Con una scusa ho interrotto la comunicazione, ed ho cominciato a pensare al modo migliore di fargliela pagare. Ho pensato sùbito alle sue medicine: gliele faccio mancare. Anzi, gliele sostituisco. Tanto sembrano più o meno tutte uguali. Quella della pressione col diuretico, e un altro con una pasticca di uguale forma e colore che avevo tra le mie, non so neanche per cosa fosse. Così feci, fintatntoché, dopo una quindicina di giorni, lei peggiorò. Quando ciò accadde, guarda caso, il suo medico curante era in ferie, e io la convinsi ad aspettare che tornasse piuttosto che affidarsi ad un altro. Ma poi anche quando tornò non glielo dissi. E solo quando stette molto male mi decisi a chiamare un dottore; ma un altro, di cui qualcuno mi aveva parlato piuttosto male e che non la conosceva. Nonostante il ricovero in ospedale, mia madre non ce la fece.”

Sentendo questo racconto rimasi quasi pietrificata, come una statua di sale. Cercavo di digerire quello che mia madre mi aveva appena detto ma la mia mente si rifiutava: era quasi assente, come in coma. Non riuscivo davvero a credere alle mie orecchie.

“E allora?”, mi chiese lei, visto il prolungarsi evidentemente esagerato del mio silenzio.

E allora, mamma, che cosa diavolo hai combinato alla mia povera nonnina?”, pensai tra me, come se la mia mente si fosse risvegliata al'improvviso alla sua domanda. “ Il papà lo diceva spesso che avevi una rotella fuori posto, una vena di follia. E pensare che io non gli ho mai creduto.

“E allora cosa?”, le chiesi, cercando di risvegliami da quella specie di brutto sogno.

“Allora la penitenza, padre. E l'assoluzione. Lo so che ho fatto una cosa molto brutta, ma me la può dare lo stesso l'assoluzione?”

Non ero in grado di ragionare. Pronunciai velocemente e a bassa voce la formula dell'assoluzione che avevo imparato quella stessa mattina, concludendo con un ampio segno di croce a mo' di benedizione.

“La prego, mi dia anche una penitenza. Anche se portarsi da sola il peso di questo segreto per tanti anni è già stato per me una mezza punizione, credo che non sia sufficiente.”

Cercai di pensare ad una penitenza un po' dura nei suoi confronti, ma proprio non mi venne in mente nulla. Poverina, era pur sempre la mia povera vecchia mamma.

“Dica cinque Ave Marie … anzi, facciamo dieci … dopo ogni pasto … compresa la colazione … finché il Signore le darà vita. E adesso voglia scusarmi, ma devo andare. C'è un'altra signora che ha bisogno di me e che mi sta aspettando. Stia in pace, e coraggio.”

Uscii dalla stanza un po' alla chetichella e tornai nei miei soliti abiti. Cambiandomi mi tornarono in mente i dettagli della mia finzione, per la quale avevo previsto che il sacerdote prendesse il caffè.

“Padre, si sta dimenticando del suo caffè!”, dissi con la mia voce di donna.

“La ringrazio, ma devo proprio scappare”, risposi con la voce del prete e sbattei la porta dell'ingresso per far sentire bene che era uscito.

Che pessima idea che mi era venuta in mente, di andarmi ad impicciare degli affari di mia madre!

Ancora nel panico, riportai al teatro gli abiti che avevo preso in prestito; dopodiché passai, stavolta veramente, nella vicina parrocchia a cercare un prete per la confessione.

“Si, vengo subito. Gli darò anche l'unzione dei malati, se le sue condizioni sono quelle che mi hai riferito”, mi disse con grande pacatezza e disponibilità il primo sacerdote che incontrai.

“Mamma, svegliati mamma. Ti ho portato un sacerdote per la confessione, come mi avevi chiesto”, le dissi, appena entrata, interrompendo il suo sonnellino.

“Ma come? Se mi sono confessata appena poche ore fa”, mi ha risposto lei.

“Ma che dici, mamma? Te lo sei sognata? O hai avuto delle allucinazioni? Devo chiedere al medico se qualcuno di questi nuovi farmaci che ti ha prescritto può portare conseguenze di questo tipo, come effetti collaterali. Adesso vi lascio soli, che ho un po' da fare in cucina.”

Il prete si trattenne parecchio, forse anche mezz'ora. Quando uscì dalla stanza di mamma era sereno e tranquillo, ne più ne meno di quando vi era entrato.

“Avete finito? Tutto bene?”, gli chiesi.

“Sì, sì, tutto a posto.”

“Venga, che le offro un caffè.” Lui accettò volentieri, mentre io, ancora nel panico, fui seriamente tentato di chiedergli di confessare anche me. Ma non lo feci. Gli dissi soltanto:

“Per fortuna che ci siete voi preti.”

Non ho mai parlato con nessuno di quanto successo quel giorno, nemmeno con mia madre; che però, ho notato, da allora in poi ha preso l'abitudine di recitare dieci Ave Maria dopo ogni pasto (compresa la colazione), e mi pare anche qualcuna prima di mangiare.

UNA NOTTE DA INSONNI

E' notte, ora che sto scrivendo. E lo era anche ieri, quando sono successi i fatti che vi sto per descrivere.

Perché dovete sapere che io soffro di insonnia, e quando non dormi la tua vita è come se fosse lunga il doppio rispetto a quella degli altri. Anzi, è come se oltre alla vita normale, quella luminosa e solare che certamente tutti conoscete, noi insonni ne vivessimo un'altra, perlopiù oscura, lunga e silenziosa. Una vita molto particolare, con pochissimi protagonisti. Uno qui, uno laggiù, un altro chissà dove. Neanche nell'età della pietra erano così in pochi. E tutti costretti perlopiù a stare in silenzio, chiusi nelle proprie case in solitudine, quasi immobili - come zombie nei propri loculi.

La convinzione che da qualche parte in contemporanea si svolga la vita vera, allevia solo in parte lo squallore di questa mezza specie di vita. E' almeno a qualche migliaia di chilometri di distanza. Lo sappiamo per sentito dire, ma ci crediamo più che altro perché ci consola sapere che, apparentemente con lentezza ma in verità alla velocità della rotazione terrestre, essa sta ritornando verso di noi.

Ci crediamo essenzialmente per un atto di fede, benché ne abbiamo delle prove tangibili grazie alla televisione e ad internet, che ci consentono di metterci in contatto diretto con quel mondo come una medium col mondo dei morti; e che, insieme a libri giornali e riviste, raccolgono tracce e ricordi del mondo vero per potercele riproporre, magari un po' fredde come pietanze uscite dal frigo, a nostra richiesta.

In realtà di notte, a parte rarissime eccezioni, non succede mai niente.

Ogni tanto capita che qualcuno si dimentichi una luce accesa; magari anche per diversi giorni, soprattutto sui terrazzini. Forse per paura di ladri scalatori, o a causa di un viaggio improvviso, o chissà. A volte è la luce azzurrognola di un televisore acceso ad attirare la mia attenzione, probabilmente qualcuno che guardandola si è addormentato sul divano o sulla poltrona, ma in genere è difficile scorgere anima viva. Movimenti umani, se si escludono il capodanno, il periodo più caldo dell'estate e qualche altro rarissimo caso, direi proprio mai.

Invece era già da qualche notte che avevo notato, alcuni piani sotto al mio, una luce accesa dalla parte opposta dell'ampia chiostrina interna dell'isolato. Le serrande in parte alzate permettevano di vedere una fetta della stanza, ed in particolare un pezzo di scrivania molto disordinata, con sopra anche un video, una tastiera, un mouse e soprattutto delle mani che ci lavoravano attorno. Mani femminili, avrei detto dal vestito; di donna giovane.

Dovevo cercare di contattare quella persona.

Feci mente locale sulla topologia del mio palazzo e della chiostrina, arrivando alla conclusione che quella finestra illuminata corrispondesse a un altro portone, chissà quale civico della via traversa o parallela alla mia. Un percorso difficilmente praticabile per arrivare alla signora in quella stanza, o almeno al suo nome o a un suo eventuale recapito telefonico.

Pensai che potevo attirare la sua attenzione con uno di quei raggi luminosi e concentrati, che a volte usano nelle conferenze per evidenziare una parola sullo schermo. Un pomeriggio ne comprai uno dai cinesi sotto casa, a luce verde, per pochi euro. E quella notte, in una pausa tra le mie lezioni di giapponese, vedendo quelle mani come al solito al lavoro mi misi all'opera anch'io.

Il raggio verde funzionava. Illuminai la sua mano e i dintorni, cercando anche di capire se coi miei movimenti riuscivo a descrivere delle lettere per comporre un messaggio. Provai anche a concentrarmi sulla sua tastiera, provando a illuminare di volta in volta le lettere per scriverle ciao o qualcosa del genere e comunicare con lei; ma era chiaro che non poteva funzionare per diversi motivi. Mentre così pensavo mi accorsi che lei aveva notato il raggio, si era affacciata alla finestra e guardava da dove proveniva.

Per meglio farmi vedere agitai le braccia, e poi accesi anche un'altra luce nella stanza. “Che vuoi?”, mi chiese gesticolando con le mani. “Ciao”, gli risposi io sempre a gesti, agitando la destra. Per fortuna siamo un popolo abituato a gesticolare; ma provando a chiederle come si chiamasse o come contattarla mi resi conto che più di tanto, con le sole mani, non potevo farle arrivare. “Aspetta”, le dissi mostrando le due mani aperte; e poi presi in mano un foglio bianco e una penna, facendole capire qualcosa sul fatto di scrivere, che stavo scrivendo, ed in effetti scrissi su quel foglio bianco: “Ciao. Ho visto che anche tu sei sveglia la notte. Ti va se parliamo? Il mio numero è … ”. Finito di scrivere il numero, mi feci vedere appallottolare il foglio, aprii la finestra e feci l'atto di lanciarlo verso di lei come una palla da baseball.

“Lo sto per lanciare. Te lo sto per lanciare. Apri la finestra, per favore. Aprila.” Non pensavo di essere così bravo nel comunicare a gesti. Alla fine anche lei aprì la finestra.

Pensavo invece di essere molto più bravo nel lanciare una palla di carta. Sbatté contro la serranda chiusa un piano sopra al suo, con un po' di rumore ma per fortuna senza danno. Lei fece anche l'atto di cercare di prenderla al volo mentre cadeva, cosa già di per se improbabile anche se ci avesse messo una maggiore convinzione.

“Peccato. Non fa niente. Ci ho provato ma è andata male. E' andata così, sarà per un'altra volta. Ciao. Ciao.” Questo, probabilmente, ci dicemmo gesticolando, ripetendoci lo stesso gesto l'un l'altro; poi di nuovo il saluto con la mano; e poi chiudemmo le finestre, passo e chiudo.

Un messaggio l'avevo comunque fatto arrivare. Le avevo fatto conoscere la mia esistenza da insonne. La palla di carta era caduta sul terrazzo del primo piano, non so se fosse privato o condominiale; ma se voleva poteva trovare il modo di andarla a recuperare il giorno dopo.

Io archiviai il caso, e me ne tornai tranquillamente alle mie audiolezioni di giapponese.

Ed invece il caso si riaprì dopo forse neanche un'ora, quando ricevetti una telefonata. Non era mai successo, così di notte. Mi affrettai a rispondere perché i vicini non si svegliassero.

“Pronto.”

“Pronti. Sei tu quello svitato che se ne sta sveglio di notte al sesto piano di fronte a casa mia e mi tira pallette di carta? Da come hai risposto velocemente non stavi certo dormendo.”

“Si, sono io. Ma tu come hai fatto ad arrivare così in fretta al foglio col mio numero? Non sarai mica la donna gatto, per caso?”

“Non posso certo svelarti tutti i miei segreti alla nostra prima conversazione. E poi noi super-eroine dobbiamo tenere nascosti i nostri superpoteri, per il bene dell'universo.”

La mia interlocutrice si rivelava piena di spirito; e molto giovane, a giudicare anche dal tono della voce.

“Aspetta un attimo, donna gatta, che passo sul video-telefono”, le dissi.

“Video telefono? Ma io non ho un videotelefono!”, mi rispose sorpresa.

“Eppure io riesco a vederti. E ti vedrei ancora meglio se ti spostassi un altro po' verso la finestra.”

“Ah, adesso ho capito.” Ora il contatto visivo era stato ristabilito.

“Dimmi un po': come ti chiami?”, le chiesi.

“Tu ormai sai già tutto di me: sono la donna gatto. Scherzi a parte: vorresti il mio nome vero o ti accontenteresti di un nickname?”

“Il tuo nome vero, se non ti dispiace.”

“Racchia90. Novanta come la paura, perché sono una racchia da paura. Tu piuttosto, non mi hai detto come ti chiami.”

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