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Delitti Esoterici
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Delitti Esoterici

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Quando Aurora e Larìs ritornarono alla realtà erano ancora nude, distese sul freddo pavimento di marmo, con i corpi imperlati di sudore per la tensione dell'esperienza appena vissuta. Aurora, ancora stordita, afferrò un kimono di seta, lo indossò, e ne offrì uno simile alla ragazza, che era in preda ai brividi e fu ben felice di indossarlo. Quindi Aurora andò in cucina a preparare una tisana rilassante, tornando dopo qualche minuto con due tazze fumanti, che spandevano un aroma di menta nel salone.

«Perché abbiamo avuto questa visione? Qual è il significato?» chiese Larìs, cominciando a riprendersi.

«Credo di aver capito che il maligno, che è rimasto quiescente per quattro secoli, stia riprendendo vigore e voglia sacrificare delle vittime per aumentare la sua forza e la sua potenza. Dobbiamo fare attenzione, perché quelle vittime potremmo essere io, tu o le altre nostre sorelle, discendenti di coloro che quattrocento anni fa scamparono alla morte tra le fiamme.»

«Come possiamo prepararci ad affrontarlo? Abbiamo abbastanza forza per farlo?»

«Mia cara Larìs, tu e io dovremo affrontare un lungo e periglioso viaggio fino al tempio dove vive il Grande Patriarca, che ci offrirà l'accesso al sapere universale, di cui egli è custode. Ci saranno date la forza e la sapienza necessarie.»

Passo dopo passo, reggendosi alle corde laterali, erano giunte circa a metà del ponte che oscillava a ogni loro movimento, quando una folata di vento più forte fece gelare il cuore di Larìs, che cercò di nuovo gli occhi di Aurora per sentirsi rassicurata. Con cautela, le due sfilarono gli zaini dalle spalle, indossarono le giacche a vento e proseguirono fino a raggiungere la radura erbosa al di là del ponte. Da lì iniziavano almeno cinque sentieri, che si dirigevano in direzioni diverse. Quale poteva essere quello giusto da seguire? Aurora vide due rami incrociati con della terra smossa intorno, cercò un lungo ramo e, facendo attenzione a non andare a calpestare la terra smossa, distrusse la croce poi, con lo stesso ramo, disegnò un cerchio in terra, recitando delle parole che Larìs riconobbe come quelle di un contro incantesimo. Qualcuno aveva messo in atto un sortilegio, per metterle in difficoltà sul cammino da seguire. Ma Aurora aveva molta esperienza. Completato il cerchio e rivolte le parole verso il cielo, fu evidente che dalla radura aveva inizio un solo sentiero, che era quello da seguire. Attraversata la lingua di un ghiacciaio, il sentiero volgeva in discesa, fino a che le praterie d'altura lasciavano il posto a un bosco, sempre più fitto man mano che si scendeva. Ad ogni bivio, ad ogni biforcazione del sentiero, le due, d'istinto, sapevano sempre quale direzione seguire.

Il bosco offriva frutti e bacche mangerecci e ogni tanto si rinveniva una fonte d'acqua fresca per cui, anche se i viveri di scorta cominciavano a scarseggiare, non c'era modo di dover soffrire la fame o la sete. Anche le temperature si erano fatte più gradevoli e non vi era più necessità di avere indosso le giacche a vento. Il quinto giorno di cammino, uscendo dal fitto bosco, si ritrovarono in un'amena vallata, in fondo alla quale videro la loro meta.

Il tempio era una costruzione antichissima che si era mantenuta intatta nel corso dei secoli e dei millenni, costruito com'era sulla solida roccia in un luogo non accessibile ai comuni mortali. Ciò che destò lo stupore delle due donne fu la centrale idroelettrica che si intravedeva sul retro del tempio. Una cascata, con la forza di un salto di alcune centinaia di metri, alimentava le turbine che fornivano energia elettrica all'antico edificio. Accanto alle turbine, una serie di pannelli solari provvedevano a fornire acqua calda e contribuivano anch'essi a generare elettricità. Un antesignano impianto fotovoltaico, non ancora in funzione, completava la centralina, che rendeva quell'oasi del tutto autonoma dal punto di vista energetico.

Giunte all'ingresso del tempio, furono accolte da due uomini dall'aspetto fisico statuario.

«Siate benvenute al tempio della Conoscenza e della Rigenerazione. Il Grande Patriarca vi sta aspettando e, appena possibile, vi riceverà. Nel frattempo saremo le vostre guide, vi condurremo ai vostri alloggi e faremo in modo di rendere piacevole la vostra visita in questo incantevole luogo. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, chiedete e cercheremo di accontentarvi. Io sono Ero e il mio compagno è Dusai.»

I due uomini, vestiti solo con corte tuniche colorate, erano alti e possenti, i muscoli evidenti sembravano scolpiti, richiamando alla memoria antiche statue greche. Ero aveva capelli biondi, ricci, piuttosto lunghi, carnagione chiara, anche se lievemente abbronzata, e occhi azzurri del colore del cielo, Dusai moro, i capelli neri corti, gli occhi scuri e la carnagione del colore dell'ebano. Mentre Dusai si prendeva cura di Aurora, Ero si inchinò avanti a Larìs e prese il suo bagaglio. I quattro, attraversato un cortile quadrato, si addentrarono nell'edificio e camminarono lungo corridoi decorati. Gli affreschi alternavano scene di caccia a scene di guerra e di accoppiamenti tra animali. Arrivarono, infine, in un chiostro, al centro del quale vi era una piscina. Sotto i portici si aprivano le porte delle stanze degli ospiti. Qui le decorazioni rappresentavano accoppiamenti tra uomini e donne, in tutte le posizioni possibili e immaginabili tratte dai più impensabili manuali di Kamasutra. Le due donne furono invitate dai loro ciceroni a entrare ognuna in una stanza, dove furono aiutate a spogliarsi e a rilassarsi con un lungo e accurato massaggio tonificante. Dopo un paio d'ore le due donne e i due uomini si ritrovarono insieme all'interno della piscina per godere dei piaceri di un buon bagno nell'acqua tiepida della vasca, e del sesso offerto in maniera spontanea e sensuale da Ero e Dusai. Spossate dai giorni di cammino, ma rigenerate nello spirito, Aurora e Larìs furono rifocillate. La tavola imbandita offriva montone arrosto con contorni di saporite verdure e un'incredibile varietà di succulenti frutti. Al termine del banchetto, si ritirarono nelle loro stanze per sprofondare in un meritato sonno ristoratore.

L'indomani, di buon mattino, i ciceroni portarono a ognuna delle due donne una profumatissima tazza di tè, accompagnata da dolcetti a base di uva sultanina e mosto, dicendo loro di prepararsi per essere ricevute dal Grande Patriarca. I loro compagni del giorno precedente le accompagnarono fino ai piedi di una scalinata, che conduceva ai piani superiori. Da quel momento sarebbero state accompagnate da una guida ben più anziana e molto meno attraente, in quanto a Ero e Dusai non era concesso salire al cospetto del Patriarca. Hiamalè, così si chiamava la nuova guida, era una persona che dimostrava almeno un'ottantina di anni, ma si diceva che ne avesse molti di più. Una lunga barba grigia ornava il suo viso e i capelli lunghi e argentei erano raccolti dietro la nuca in una lunga treccia. Salutò le donne nell'antica lingua e le invitò a salire. Nonostante l'età, l'anziano affrontò con agilità la scalinata, ramo dopo ramo, fino ad arrivare al quinto livello. Aurora e Larìs si resero conto di essere su una specie di torre che sovrastava il tempio e che, dalle finestre, si poteva ammirare la costruzione in tutta la sua magnificenza. L'anziano Hiamalè si inginocchiò avanti a una porta in legno, decorata con stupendi intarsi, e invitò le due donne a fare altrettanto. Come se qualcuno avesse avvertito la loro presenza, anche se non annunciati, la porta si spalancò e le due donne si trovarono al cospetto del Grande Patriarca.

«Non c'è alcun bisogno che vi prostriate avanti a me» disse, congedando l'anziano e invitando le due donne a entrare nella sua stanza. «Siete le benvenute. Vi stavo aspettando da tempo, la percezione del vostro arrivo era forte dentro di me. Mi presento a voi, fedeli adepte, che aspirate al sapere universale. Da quando sono in questo luogo mi faccio chiamare Roboamo, anche se questo non è il mio vero nome, in onore del figlio del Re Salomone che così si chiamava. La tradizione vuole che questo tempio sia stato fatto edificare proprio dal saggio Re in questi luoghi inaccessibili, tra queste che sono le più alte montagne della Terra, per fare da scrigno e da protezione al libro di magia più antico e più esatto, scritto proprio di suo pugno, “La chiave di Salomone”. Le leggende narrano che tale libro sia stato ritrovato, dopo qualche secolo dalla morte del famoso Re, all'interno della sua tomba, conservato in un contenitore in avorio insieme a un anello recante il suo sigillo. In molti cercarono di tradurre quello scritto prima in Latino, poi in Francese, ma nessuno riuscì appieno nell'intento, in quanto quello era solo un falso e Re Salomone aveva fatto in modo di renderlo incomprensibile. L'originale “Chiave di Salomone” è invece conservata nel Sancta Sanctorum di questo tempio e solo poche sagge persone, nel corso dei millenni, vi hanno potuto avere accesso. Forse tu, Aurora, potrai entrare a far parte di quei pochi eletti, ma non precorriamo i tempi. Voi siete qui per accedere al sapere conservato in questo luogo così come, prima di voi, sono giunte persone desiderose di consultare importanti testi, che sono stati raccolti qui da tempo immemorabile. Sono giunti sacerdoti di qualsiasi tipo di religione, ma anche importanti uomini di scienza, grazie ai quali questa costruzione è stata dotata di moderni comfort. Avete visto voi stesse l'impianto per la produzione di energia elettrica. Non è semplice far arrivare qui materie prime per la costruzione di tali impianti. L'ultimo scienziato che ci ha fatto visita era un Italiano, la cui idea era quella di trasformare l'energia dei raggi solari, ma anche quella insita nella luce stessa, in energia elettrica, per mezzo di microcelle, che lui chiamava celle fotovoltaiche, in onore del suo compaesano Alessandro Volta. Ma, mentre in voi vedo delle aure positive, intorno a lui aleggiava un'aura scura, tendente al nero, indice di malvagità e perfidia d'animo.»

«Come si faceva chiamare?» chiese Aurora, incuriosita e intimorita. «Ha avuto accesso al sapere, anche se avete dubitato di lui?»

«Mia cara Aurora, tu hai un'aura di un azzurro intenso, come il cielo limpido, e quindi hai il cuore puro, ma sei molto sensibile agli influssi esterni, perché ti fidi di tutti. Ed è per questo che sei accompagnata da Larìs, che ha un'aura rossa come il fuoco e che rivela il suo carattere impulsivo, determinato, pronto a sacrificare anche la sua stessa vita per aiutare chi le è vicino. Non posso rivelarti il nome di quella persona. Chiunque arrivi qui ha accesso ai testi e ai manoscritti che vi sono conservati. Poi sta a lui decidere come usare il sapere acquisito, se nel bene o nel male. Vedi, ogni religione tende a identificare il bene con Dio e il male con un'altra divinità contrapposta. Che poi Dio venga chiamato Javhè, Vishnu, Odino o Allah e il diavolo Satana, Lucifero, Seth o Sehuet è indifferente. Il bene e il male è dentro ognuno di noi e l'eterna lotta tra di loro si consuma nel nostro animo. In alcuni prevale il bene, in altri il male.»

«Grande Patriarca, rivelaci il percorso per accedere al Sapere Universale» riprese Aurora, «e ti saremo grate e ti onoreremo per il resto della nostra vita mortale.»

«Vedete, ci sono due vie per raggiungere l'obiettivo, una più rapida e una più lenta. Larìs, che è giovane seguirà questa seconda via, avrà tutto il tempo di consultare i testi, assimilare quanto contenuto in essi e imparare a usare, con l'aiuto dei Maestri, il suo Terzo Occhio, quello della saggezza, quello con cui riuscirà a percepire l'aura delle persone che le stanno intorno e penetrare i loro pensieri, entrando in contatto con la loro mente. È un percorso lungo che io stesso a suo tempo ho intrapreso, e che richiede costanza, concentrazione e applicazione. Per te, Aurora, che hai invece premura di assimilare tutto in fretta e tornare alla tua patria per combattere le forze maligne, ho in serbo una strada più breve.»

Battendo le mani, chiamò Hiamalè, che condusse Larìs fuori della stanza, mentre da un'altra porta entrarono due giovani ancelle con una tisana fumante per l'anziano patriarca. Roboamo bevve con cura poi, da un vassoio che gli veniva porto da una delle due ancelle, prelevò un astuccio e ne estrasse una siringa. «Papaverina. Inoculata nel corpo cavernoso del pene, consente un'erezione duratura per un soddisfacente rapporto, anche per una persona anziana come me. Ti trasmetterò tutto il mio sapere e la mia scienza tramite la congiunzione carnale, dopo di che avrai accesso al Sancta Sanctorum.»

Le ancelle aiutarono Aurora a spogliarsi e a coricarsi sui cuscini disposti all'uopo sul pavimento, poi si presero cura del vecchio, lo liberarono dei vestiti, gli praticarono l'iniezione, lo massaggiarono per bene, e quando capirono che era pronto a consumare il rapporto con la nuova arrivata, si ritrassero in un angolo della stanza. Il rapporto con l'anziano procurò ad Aurora un immenso piacere. Chiuse gli occhi e si abbandonò alle spinte di Roboamo. Al culmine dell'eccitazione, raggiunto l'orgasmo, capì che con il flusso di sperma stava penetrando in lei un calore che la pervadeva dalla punta dei piedi all'ultimo capello. Stava assimilando in un sol colpo tutto il sapere che l'anziano aveva accumulato in decenni di permanenza in quel luogo inaccessibile. A un certo punto, Aurora si rese conto che Roboamo era immobile sopra di lei. Aveva ancora il pene eretto, per effetto della papaverina, ma non respirava più, era spirato. Con un delicato movimento, spostò di lato il corpo di Roboamo e con non poca difficoltà si sganciò da lui. Mentre le ancelle si prendevano cura del defunto, Aurora si rivestì e venne assalita dalla paura: come raggiungere il Sancta Sanctorum senza la guida di Roboamo? Ma poi, concentrandosi, capì che, oltre al sapere, aveva assimilato tutto quello che era conservato nella sua memoria, e quindi conosceva già la strada da seguire per raggiungere la meta. Ma c'era di più, il rapporto appena consumato l'aveva trasformata, aveva la pelle più liscia, i seni più sodi, le gambe più snelle, i capelli meno sottili, insomma si sentiva ringiovanita. Cercò uno specchio, che le restituì l'immagine di una ventenne, l'immagine di lei stessa ma con quaranta anni in meno. Con le mani si toccò il volto, come per accertarsi che quello che vedeva fosse reale e non fosse una visione. Le rughe erano sparite, i suoi occhi verdi brillavano, non c'era ombra di opacità nel cristallino, i capelli erano tornati al loro color castano chiaro naturale. Ma non era tempo di soffermarsi su futili elementi. Doveva raggiungere la “Chiave di Salomone”.

Cercando di seguire i ricordi impressi nella mente di Roboamo, ridiscese le scale fino a piano terra. In un salone dalle pareti decorate, cercò una statua dorata che raffigurante un gatto. In corrispondenza del collo di quest'ultimo notò un medaglione dalla forma di un pentacolo. Lo ruotò e vide aprirsi un passaggio nella parete di fondo, l'unica su cui non si aprivano finestre. Entrò in un lungo corridoio semibuio, illuminato ogni tanto dalla fioca luce di antiche lampade a olio. Al termine del corridoio una scala a chiocciola scendeva nei sotterranei, fino a un altro salone riccamente decorato. Andò dritta verso una massiccia porta dorata, arricchita da bassorilievi in oro zecchino, raffiguranti episodi della vita del Re Salomone. Non vi era serratura per aprire tale porta, né altri marchingegni. Per accedere al Sancta Sanctorum occorreva un comando vocale, diverso a seconda dei giorni della settimana e delle ore del giorno. Aurora, calcolando che in quel momento avrebbe dovuto invocare la luna, pronunciò a gran voce: «Levanah!»

La massiccia porta dorata iniziò a scorrere all'interno del muro a doppia testata, lasciando libero accesso alla più segreta delle stanze del tempio. Al centro della stanza, sopra una colonna di circa un metro e venti di altezza, un cofanetto d'avorio custodiva il libro e l'anello con il sigillo di Salomone, il più potente talismano di tutti i tempi. Non senza emozione, aprì lo scrigno. Il libro era al suo posto, ma non l'anello. Chi era giunto lì prima di lei era riuscito a trafugarlo, assicurandosi una potenza non indifferente e difficile da combattere, qualora utilizzata per scopi malefici. Ma ora la maga non aveva tempo di pensare, aveva tutta la notte per poter assimilare quanto Salomone aveva scritto tantissimi secoli prima, cosa che non aveva ricevuto dalla memoria di Roboamo, in quanto egli, anche se aveva accesso al Sancta Sanctorum, non aveva mai avuto il coraggio di affrontare il sacro testo. Quando fu sicura di avere imparato a memoria tutte le formule e le invocazioni, ripose la Chiave nel cofanetto e uscì, percorrendo a ritroso il cammino fatto per arrivare fin lì. Quando uscì nel salone, notò che dalle finestre iniziavano a entrare le prime luci dell'alba. Ruotò il medaglione sulla statua del gatto, riportandolo alla posizione iniziale, e il passaggio da cui era appena uscita si richiuse.

Era ora di tornare a casa, in Liguria, e questa volta il viaggio sarebbe stato breve. Avrebbe usato il teletrasporto, che era una delle nuove magie che aveva appena appreso. Ma prima doveva congedarsi da Larìs. Tornò al chiostro, dove si trovavano le stanze degli ospiti, incontrò Ero e Dusai già alzati che conversavano sul bordo della piscina. A entrambi sfuggì un apprezzamento sul nuovo aspetto di Aurora.

«Accidenti! Fosse stata così l'altro giorno!» commentò Dusai.

La maga evitò di ribattere e bussò alla porta di Larìs, che era ancora immersa nel mondo dei sogni. Assonnata, Larìs aprì la porta e guardò la giovane con aria interrogativa. Quando si rese conto che era la sua compagna di viaggio, si stropicciò gli occhi pensando che ancora stesse sognando.

«Sì, sono io!» disse Aurora. «Me ne sto andando, ma rimarremo in comunicazione telepatica. Quando avrò bisogno di te, lo saprai, e avrai modo di raggiungermi nel più breve tempo possibile.»

Poi avvicinò le sue labbra a quelle di Larìs, e la baciò.

«A presto!»

Aurora uscì dal tempio e raggiunse una radura isolata, dove si sedette in terra, avendo cura di non incrociare le gambe, si concentrò sul luogo in cui doveva recarsi e pronunciò la formula magica. Come catturato da un vortice, da una specie di tromba d'aria, il suo corpo svanì per riapparire a Triora, all'interno della sua dimora.

«Eccomi a casa!»

CAPITOLO IV

Ci dirigemmo a piedi verso la scena del delitto, che era già stata delimitata dalle strisce di plastica bianche e rosse con la scritta "Polizia di Stato". Il luogo era annerito dall'incendio e bagnato dall'acqua usata per spegnerlo, ma quello che più colpiva era l'odore nauseabondo che si era costretti a respirare. L'odore della carne umana bruciata, che ancora aleggiava nell'aria, era davvero insopportabile. Quando vidi il corpo, riuscii a trattenere a stento un conato di vomito. A prima vista sembrava un manichino, piegato su stesso, addossato a un cancello metallico che chiudeva una specie di grotta, la forma umana annerita dalle fiamme. Non c'era più traccia dei capelli e in qualche zona si intravedevano le ossa in mezzo a qualche brandello di pelle incartapecorita. Si intuiva che era il corpo di una donna dalla sagoma dei seni. All'altezza di polsi e caviglie si notavano come dei filamenti di plastica fusa, indice di qualcosa che doveva essere servita per legare la vittima al cancello. Il medico legale stava eseguendo i primi rilievi sul corpo, mentre gli uomini della scientifica erano in paziente attesa che questi terminasse per iniziare il loro lavoro. Dicendo a Mauro di attendermi, mi avvicinai oltrepassando la barriera di strisce di plastica. Quando avvertì la mia presenza, il medico sollevò la testa e sfilò i guanti di lattice, scuotendo la testa. La persona che stava porgendo la mano verso di me era una donna sulla trentina, minuta, capelli corti mori, occhi scuri e un piccolo piercing dorato al naso.

«La dottoressa Ruggeri, immagino! Piacere, dottoressa Ilaria Banzi, medico legale.»

«Che cosa mi può dire di questa povera donna?»

«Veramente raccapricciante, nella mia sia pur breve carriera non ho mai visto niente di simile. Non so dire ora se fosse viva o morta quando è stata data alle fiamme ma, dal momento che sembra evidente che sia stata legata mani e piedi a quel cancello con del nastro adesivo, penso proprio che sia stata bruciata viva. Questo particolare ce lo dirà l'autopsia. Per il momento posso dire che siamo in presenza di soggetto di sesso femminile, intorno ai trentacinque, quarant’anni al massimo, a giudicare dalla dentatura, ma non posso essere precisa neanche in questo, in quanto il fuoco ha alterato tutto. Appena la scientifica avrà fatto i suoi rilievi, disporrò il trasferimento del corpo all'obitorio e nel più breve tempo possibile le invierò il referto necroscopico. Tra poco sarà qui anche il magistrato. Le auguro buona fortuna, non sarà un'indagine semplice!»

Mi congedai da lei e andai verso gli uomini in uniforme.

«Si sa qualcosa dell'identità della vittima?» chiesi.

«Sicuramente non aveva documenti addosso!» fu la risposta sarcastica di un sovrintendente, che fulminai con lo sguardo. «Capisco, non era una battuta felice. Ciò che sappiamo è che la vittima è stata legata con del grosso nastro adesivo, quello da pacchi per intenderci, all'inferriata metallica ed è stato appiccato il fuoco. Quella specie di grotta è in realtà una vecchia legnaia, all'interno della quale c'era legna secca e altro materiale infiammabile. Dal momento che in questa zona si parla tanto di streghe, abbiamo pensato che qualcuno abbia voluto simulare l'esecuzione di una strega al rogo. Magari un gioco sadico tra due amanti, perché no? Lei si fa legare, consenziente, lui accende un fuocherello per dare più verve al gioco, ma poi la situazione sfugge di mano, si alza il vento, scoppia l'incendio e per la donna, così legata, non c'è scampo. Ci siamo fatti quest'idea.»

«Molto fantasiosa, direi, e mal supportata da elementi probatori. A lei piace fare giochetti di questo tipo con la sua compagna?»

Forse colpito nella sua intimità, arrossì, si schiarì la voce e cercò il modo di defilarsi: «Sta arrivando il magistrato. Ora sarà lui a formulare le ipotesi giuste. Mi perdoni, le mie erano solo congetture.»

Il magistrato era un uomo sui cinquant'anni, capelli brizzolati, alto quasi quanto Mauro, magro. A vederlo somigliava a un rapace, con il naso adunco, le labbra strette e gli occhiali da lettura alzati sulla fronte. Si avvicinò a Mauro, che gli strinse la mano e mi presentò.

«Dottor Leone, la dottoressa Ruggeri. La mia collega è appena arrivata da Ancona e si è già trovata nel pieno delle attività.»

«Già, vedo! Bene, credo che qui per me al momento ci sia poco da fare. Tenetemi aggiornato sulle indagini e cercate di chiudere questo caso nel più breve tempo possibile. Non siamo abituati a tali delitti efferati in questa zona e non voglio noie con i giornalisti.»

Cercai di intervenire, chiedendogli se volesse interrogare insieme a noi la proprietaria della limitrofa abitazione, la famosa Aurora, ma lui si congedò con una morbida stretta di mano e un “Buon lavoro!”.

Chissà perché ho sempre odiato le persone che quando ti danno la mano non la stringono, comunque intentai un sorriso a denti stretti e risposi: «Grazie.»

Quando si fu allontanato, mi rivolsi a Mauro.

«Se ora arrivasse anche il questore di Imperia e fosse altrettanto simpatico, rischierei di giocarmi il posto che ho appena ricoperto. Mi capisci, vero? Bene, mentre la scientifica fa il suo lavoro qui, andiamo a conoscere questa strega.»

Mauro mi sorrise con aria complice e mi seguì volentieri. Tutto sommato iniziava a starmi simpatico e presto avrei scoperto che, dietro l'aria da Rambo tutto muscoli, nascondeva un'intelligenza spiccata ed era un buon osservatore, tutti elementi che ne facevano un bravo poliziotto ed un valido collaboratore.

Un sentiero attraversava la vegetazione, usciva sulla strada sterrata da cui eravamo giunti e conduceva a un edificio isolato, una specie di casa colonica, dall'aspetto antico, ma in ottime condizioni.

Sullo spiazzo antistante faceva bella mostra di sé l'auto della padrona di casa, una Porsche Carrera di colore grigio metallizzato. Ci accolse una bella quarantenne, bionda, gli occhi di un verde-azzurro raro a vedersi, più alta di me, la carnagione chiara, liscia, senza una ruga evidente. Indossava un kimono scuro con degli strani disegni, in cui riconobbi alcuni simboli esoterici, chiuso sul davanti solo da una cinta. A ogni passo faceva capolino dall'abito una lunga coscia rosata. Il decolté dava buona visibilità al prosperoso seno e non lasciava molto spazio all'immaginazione. Vidi lo sguardo di Mauro posarsi con interesse sul soggetto, forse con la speranza che prima o poi l'insulsa vestaglia fosse caduta in terra, rivelando al suo occhio tutte le grazie della sua proprietaria.

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