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First Italian Readings
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First Italian Readings

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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Various

First Italian Readings

PREFACE

IN the study of Italian, as in that of French, "doubtless the best method of learning to read… is to read." Copious reading should accompany and supplement the study of the essentials of grammar; and it is to supply material for such early reading that the present book has been prepared. The chief object has been, not to offer select specimens that should be representative of Italian literature, but to furnish easy, interesting stories and sketches for beginners.

Complete selections have in all cases been preferred to extracts; and these selections have, as far as possible, been arranged according to their degree of difficulty. In the interests of the class-room—as the editor understands them—a special endeavor has been made to introduce stories that are bright and animated in tone, and to avoid, for the most part, the pathetic and melodramatic. It is, perhaps, not superfluous to add that in this respect there has been much to avoid.

The first two stories, from the French of Perrault, have been chosen because of the familiarity of their contents and because of their readableness. At this day it is certainly not necessary to offer any apology for the publication of translations in a reader of this scope. Translations of this kind have done such excellent service in French and German readers, that it is safe to say they can be equally useful in Italian.

In conformity with the strictly elementary character of this book, annotations of a literary or biographical nature have been almost entirely dispensed with. The notes are purposely brief, it having seemed preferable to render, under the proper word in the vocabulary, many expressions which, in other circumstances, might find a place in the notes. In constructing the vocabulary it has not been deemed necessary to insert all the forms, of article and pronoun, which are commonly listed in the first few pages of a grammar. Careful attention has been given to the irregular verb-forms, especially those occurring in the earlier selections.

The editor is indebted to Professor Joynes's French Fairy Tales for hints touching the annotation of the first two stories, and to Professor Grandgent's Italian Grammar and Composition for the wording of two or three statements in the notes and vocabulary; also to Professor Matzke of Stanford University for suggestions as to various series of racconti.

B. L. B.

Ohio State University,

Columbus, November 12, 1896.

I.

IL GATTO COGLI STIVALI

UN mugnajo, venuto a morte, non lasciò altri beni ai suoi tre figliuoli che aveva, se non il suo mulino, il suo asino e il suo gatto.

Così le divisioni furono presto fatte: nè ci fu bisogno dell'avvocato e del notaro; i quali, com'è naturale, si sarebbero mangiata1 in un boccone tutt'intera la piccola eredità.

Il maggiore ebbe il mulino;

Il secondo, l'asino;

E il minore dei fratelli ebbe solamente il gatto.

Quest'ultimo non sapeva darsi pace,2 per essergli toccata3 una parte così meschina.

–I miei fratelli,—faceva egli a dire,4—potranno tirarsi avanti onestamente, menando vita in comune; ma quanto a me, quando avrò mangiato il mio gatto, e fattomi un manicotto della sua pelle, bisognerà che mi rassegni a morir di fame.—

Il gatto, che sentiva questi discorsi, e faceva finta di non darsene per inteso,5 gli disse con viso serio e tranquillo:

–Non vi date alla disperazione, padron mio! Voi non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un pajo di stivali per andare nel bosco; e dopo vi farò vedere che nella parte che vi è toccata, non siete stato6 trattato tanto male quanto forse credete.—

Sebbene il padrone del gatto non pigliasse7 queste parole per moneta contante, a ogni modo gli aveva visto fare tanti giuochi di destrezza nel prendere i topi, or col mettersi penzoloni, attaccato per i piedi, or col fare il morto,8 nascosto dentro la farina, che finì coll'aver qualche speranza di trovare in lui un po' di ajuto nelle sue miserie.

Appena il gatto ebbe ciò che voleva, s'infilò bravamente gli stivali, e mettendosi il sacco al collo, prese le corde colle zampe davanti e se ne andò in una conigliera, dove c'erano moltissimi conigli.

Pose dentro al sacco un po' di crusca e della cicerbita: e sdraiandosi per terra come se fosse morto, aspettò che qualche giovine coniglio, ancora novizio dei chiapperelli venisse a ficcarsi nel sacco per la gola di mangiare la roba che c'era dentro.

Appena si fu sdrajato, ebbe subito la grazia. Eccoti9 un coniglio, giovane d'anni e di giudizio, che entrò dentro al sacco: e il bravo gatto, tirando subito la funicella, lo prese e l'uccise senza pietà nè misericordia.

Tutto glorioso della preda fatta andò dal Re,10 e chiese di parlargli.

Lo fecero salire nei quartieri del Re, dove entrato che fu11 fece una gran12 riverenza al Re, e gli disse:

–Ecco, Sire, un coniglio di conigliera che il signor marchese di Carabà—era il nome che gli era piaciuto di dare al suo padrone—mi ha incaricato di presentarvi da parte sua.

–Di' al tuo13 padrone,—rispose il Re,—che lo ringrazio e che mi ha fatto un vero regalo.—

Un'altra volta andò a nascondersi fra il grano, tenendo sempre il suo sacco aperto; e appena ci furono entrate dentro due pernici, tirò la corda e le acchiappò tutte e due.

Corse quindi a presentarle al Re, come aveva fatto per il coniglio di conigliera. Il Re gradì moltissimo anche le due pernici e gli fece dare la mancia.

Il gatto in questo modo continuò per due o tre mesi a portare di tanto in tanto al Re la selvaggina della caccia del suo padrone.14

Un giorno avendo saputo che il Re doveva recarsi15 a passeggiare lungo la riva del fiume insieme alla sua figlia, la più bella Principessa del mondo, disse al suo padrone:

–Se date retta a un mio consiglio, la vostra fortuna è fatta: voi dovete andare a bagnarvi nel fiume, e precisamente nel posto, che vi dirò io: quanto al resto, lasciate fare a me.—

Il marchese di Carabà fece tutto quello che gli consigliò il suo gatto, senza sapere a che cosa gli avrebbe potuto16 giovare.

Mentre egli si bagnava, il Re passò di là; e il gatto si messe a gridare con quanta ne aveva in gola:17

–Aiuto, aiuto! affoga il marchese di Carabà.—

A queste grida, il Re messe il capo fuori dallo sportello della carrozza e, riconosciuto il gatto, che tante volte gli aveva portata la selvaggina, ordinò alle guardie che corressero 18 subito in aiuto del marchese di Carabà.

Intanto che tiravano su, fuori dell'acqua, il povero Marchese, il gatto avvicinandosi alla carrozza raccontò al Re che mentre il suo padrone si bagnava, i ladri erano venuti a portargli via i suoi vestiti, sebbene avesse gridato al ladro con tutta la forza dei polmoni. Il furbo trincato aveva nascosto i panni sotto un pietrone.

Il Re diè ordine subito agli ufficiali della sua guardaroba di andare a prendere uno dei più sfarzosi vestiarj per il marchese di Carabà.

Il Re gli usò mille carezze, e siccome l'abito che gli avevano portato in quel momento faceva spiccare i pregi della sua persona 19 (perchè era bello e benissimo fatto), la Principessa lo trovò simpatico e di suo genio: e bastarono poche occhiate del marchese di Carabà, molto rispettose ma abbastanza tenere, perchè ella ne rimanesse innamorata cotta.

Volle il Re che salisse nella sua carrozza, e facesse la passeggiata con essi.

Il gatto, contentissimo di vedere che il suo disegno cominciava a pigliar colore, s' avviò avanti; e avendo incontrato dei contadini, che segavano, disse loro:

–Buona gente che segate il fieno, se non dite al Re che il prato segato da voi appartiene al marchese di Carabà, sarete tutti affettati fini fini20 come carne da far polpette.

Il Re infatti domandò ai segatori di chi fosse21 il prato, che segavano.

–È del marchese di Carabà,—dissero tutti a una voce perchè la minaccia del gatto li aveva impauriti.

–Voi avete di bei possessi,—disse il Re al marchese di Carabà.

–Lo vedete da voi, Sire, rispose il Marchese. Questa è una prateria, che non c'è anno, che non mi dia una raccolta abbondantissima.—

Il bravo gatto, che faceva sempre da battistrada, incontrò dei mietitori, e disse loro:

–Buona gente che segate il grano, se non direte che tutto questo grano appartiene al signor marchese di Carabà, sarete stritolati fini fini come carne da far polpette.—

Il Re, che passò pochi minuti dopo, volle sapere a chi appartenesse tutto il grano che vedeva.

–È del signor marchese di Carabà,—risposero i mietitori.

E il Re se ne rallegrò col Marchese.

Il gatto, che trottava sempre avanti la carrozza, ripeteva sempre le medesime cose a tutti quelli che incontrava lungo la strada; e il Re rimaneva meravigliato dei grandi possessi del signor marchese di Carabà.

Finalmente il gatto arrivò a un bel castello, di cui era padrone un orco, il più ricco che si fosse mai veduto; perchè tutte le terre, che il Re aveva attraversate, dipendevano da questo castello.

Il gatto s'ingegnò di sapere chi era quest'uomo, e che cosa sapesse fare: e domandò di potergli parlare, dicendo che gli sarebbe parso22 sconvenienza passare così accosto al suo castello senza rendergli omaggio e riverenza.

L'orco l'accolse con tutta quella cortesia che può avere un orco; e gli offrì da riposarsi.

–Mi hanno assicurato,—disse il gatto,—che voi avete la virtù di potervi cambiare in ogni specie d'animali; e che vi potete, per dirne una,23 trasformare in leone e in elefante.

–Verissimo!—rispose l'orco bruscamente,—e per darvene una prova, mi vedrete diventare un leone.

Il gatto fu così spaventato dal vedersi dinanzi agli occhi un leone,24 che s'arrampicò subito su per le grondaje, ma non senza fatica e pericolo, a cagione dei suoi stivali, che non erano buoni a nulla per camminar sulle grondaje de' tetti.

Di lì a poco,25 quando il gatto si avvide che l'orco aveva ripresa la sua forma di prima, calò a basso e confessò di avere avuto una gran paura.

–Mi hanno per di più assicurato,—disse il gatto,—ma questa mi par troppo grossa e non la posso bere, che voi avete anche la virtù di prendere la forma dei più piccoli animali; come sarebbe a dire,26 di cambiarvi, per esempio, in un topo o in una talpa: ma anche queste son cose, lasciate che ve lo ripeta, che mi paiono sogni dell'altro mondo!

–Sogni?—disse l'orco.—Ora vi farò veder io!—

E nel dir così, si cangiò in sorcio, e si messe a correre per la stanza.

Ma il gatto, lesto come un baleno, gli s'avventò addosso e lo mangiò.

Intanto il Re che, passando da quella parte, vide il bel castello dell'orco, volle entrarvi.

Il gatto, che sentì il rumore della carrozza che passava sul ponte-levatojo del castello, corse incontro al Re e gli disse:

–Vostra maestà sia la benvenuta27 in questo castello del signor marchese di Carabà.

–Come! signor Marchese!—esclamò il Re.—Anche questo castello è vostro? Non c'è nulla di più bello di28 questo palazzo e delle fabbriche che lo circondano; visitiamolo nell'interno, se non vi scomoda.—

Il Marchese dette la mano alla Principessa; e seguendo il Re, che era salito il primo, entrarono in una gran sala, dove trovarono imbandita una magnifica merenda, che l'orco aveva fatta preparare per certi suoi amici che dovevano29 venire a trovarlo, ma che non avevano ardito di entrar nel castello, perchè sapevano che c'era il Re.

Il Re, contento da non potersi dire,30 delle belle doti del marchese di Carabà, al pari della sua figlia, che n'era pazza, e vedendo i grandi possessi che aveva, dopo aver vuotato quattro o cinque bicchieri, gli disse:

–Signor Marchese! se volete diventare mio genero, non sta che a voi.—

Il Marchese, con mille riverenze, gradì l'alto onore fattogli dal Re, e il giorno dopo sposò la Principessa.

Il gatto diventò gran signore, e se seguitò a dar la caccia ai topi, lo fece unicamente per passatempo.

CHARLES PERRAULT.

Voltato in italiano da C. Collodi.

II.

CENERENTOLA

C'ERA una volta un gentiluomo, il quale aveva sposata in seconde nozze una donna così piena di albagia e d'arroganza, da non darsi l'eguale.

Ella aveva due figlie dello stesso carattere del suo,31 e che la somigliavano come due gocce d'acqua.

Anche il marito aveva una figlia, ma di una dolcezza e di una bontà, da non farsene un'idea; e in questo tirava dalla sua mamma, la quale era stata la più buona donna del mondo.

Le nozze erano appena fatte, che la matrigna dette subito a divedere la sua cattiveria. Ella non poteva patire le buone qualità della giovinetta, perchè, a quel confronto, le sue figliuole diventavano più antipatiche che mai.

Ella la destinò alle faccende più triviali della casa: era lei che rigovernava in cucina, lei che spazzava le scale e rifaceva le camere della signora e delle signorine; lei che dormiva a tetto, proprio in un granaio, sopra una cattiva materassa di paglia, mentre le sorelle stavano in camere coll'impiantito di legno, dov'erano letti d'ultimo gusto, e specchi da potervisi mirare dalla testa fino ai piedi.

La povera figliuola tollerava ogni cosa con pazienza, e non aveva cuore di rammaricarsene con suo padre, il quale l'avrebbe sgridata, perchè era un uomo che si faceva menare per il naso in tutto e per tutto dalla moglie.

Quando aveva finito le sue faccende, andava a rincantucciarsi in un angolo del focolare, dove si metteva a sedere nella cenere; motivo per cui la chiamavano comunemente la Culincenere.32

Ma la seconda delle sorelle, che non era così sboccata come la maggiore, la chiamava Cenerentola.

Eppure Cenerentola, con tutti i suoi cenci, era cento volte più bella delle sue sorelle, quantunque fossero vestite in ghingheri e da grandi signore.

Ora accadde che il figlio del Re diede una festa di ballo, alla quale furono invitate tutte le persone di grand'importanza e anche le nostre due signorine furono del numero, perchè erano di quelle che facevano grande spicco in paese. Eccole tutte contente e tutte affaccendate a scegliersi gli abiti e le pettinature, che tornassero loro meglio a viso.33 E questa fu un'altra seccatura per la povera Cenerentola, perchè toccava a lei a stirare le sottane e a dare l'amido ai manichini. Non si parlava d'altro in casa, che del come si sarebbero vestite in quella sera.

–Io,—disse la maggiore,—mi metterò il vestito di velluto rosso e le mie trine d'Inghilterra.

–E io,—disse l'altra,—non avrò che il mio solito vestito: ma, in compenso, mi metterò il mantello a fiori d'oro e la mia collana di diamanti, che non è dicerto di quelle che si vedono tutti i giorni.—

Mandarono a chiamare la pettinatora di gala, per farsi fare i riccioli su due righe, e comprarono dei nei dalla fabbricante più in voga della città.

Quindi chiamarono Cenerentola, perchè dicesse il suo parere, come quella che aveva moltissimo gusto; e Cenerentola diè loro i migliori consigli: e per giunta si offrì di vestirle: la qual cosa fu accettata senza bisogno di dirla due volte.

Mentre le vestiva e le pettinava, esse le dicevano:

–Di', Cenerentola, avresti caro di venire al ballo?…

–Ah! signorine! voi mi canzonate: questi non son divertimenti per me!

–Hai ragione: ci sarebbe proprio da ridere,34 a vedere una Cenerentola, pari tua, ad una festa da ballo.—

Un'altra ragazza, nel posto di Cenerentola, avrebbe fatto di tutto per vestirle male; ma essa era una buonissima figliuola, e le vestì e le accomodò come meglio non si poteva.

Per la gran contentezza di questa festa, stettero quasi due giorni senza ricordarsi di mangiare: strapparono più di dodici aghetti, per serrarsi ai fianchi e far la vita striminzita; e passavano tutt'intera la santa giornata35 a guardarsi nello specchio.

Venne finalmente il giorno sospirato. Partirono di casa e Cenerentola le accompagnò cogli occhi più lontano che potè:36 quando non le scorse più, si mise a piangere.

La sua Comare, che la trovò cogli occhi rossi e pieni di pianto, le domandò che cosa avesse.37

–Vorrei38… vorrei....—E piangeva così forte, che non poteva finir la parola.

La Comare, che era una fata, le disse:

–Vorresti anche tu andare al ballo, non è vero?

–Anch'io, sì,—disse Cenerentola,—con un gran sospirone.

–Ebbene: prometti tu d'esser buona?—disse la Comare.—Allora ti ci farò andare.—

E menatala in camera, le disse:—Vai nel giardino e portami un cetriolo.—

Cenerentola scappò subito a cogliere il più bello che potè trovare e lo portò alla Comare, non sapendo figurarsi alle mille miglia39 come mai questo cetriolo l'avrebbe fatta andare alla festa di ballo.

La Comare lo vuotò per bene, e rimasta la buccia sola, ci battè sopra colla bacchetta fatata, e in un attimo il cetriolo si mutò in una bella carrozza tutta dorata.

Dopo, andò a guardare nella trappola, dove trovò sei sorci, tutti vivi.

Ella disse a Cenerentola di tenere alzato un pochino lo sportello della trappola, e a ciascun sorcio che usciva fuori, gli dava un colpo di bacchetta, e il sorcio diventava subito un bel cavallo: e così messe insieme un magnifico tiro a sei, con tutti i cavalli di un bel pelame grigio-topo-rasato.

E siccome essa non sapeva di che pasta fabbricare un cocchiere:

–Aspettate un poco,—disse Cenerentola,—voglio andare a vedere se per caso nella topajola ci fosse un topo; che così ne faremo un cocchiere.

–Brava!—disse la Comare,—va' un po' a vedere.—

Cenerentola ritornò colla topajola, dove c'erano tre grossi topi.

La fata, fra i tre, scelse quello che aveva la barba più lunga; il quale appena l'ebbe toccato, diventò un bel pezzo di cocchiere, e con certi baffi, i più belli che si fossero mai veduti.

Fatto questo, le disse:

–Ora vai nel giardino: e dietro l'annaffiatoio, troverai sei lucertole. Portamele qui.—

Appena l'ebbe portate, la Comare le convertì in sei lacchè, i quali salirono subito dietro la carrozza, colle loro livree gallonate, e vi si tenevano attaccati, come se in vita loro non avessero fatto altro mestiere.

Allora la fata disse a Cenerentola:

–Eccoti qui tutto l'occorrente per andare al ballo: sei contenta?

–Sì, ma che40 ci devo andare in questo modo, e con questi vestitacci che ho addosso?—

La fata non fece altro che toccarla colla sua bacchetta, e i suoi poveri panni si cambiarono in vestiti di broccato d'oro e di argento, e tutti tempestati di pietre preziose: quindi le diede un pajo di scarpine di vetro, che erano una maraviglia.

Quand'ella ebbe finito di accomodarsi, montò in carrozza; ma la Comare le raccomandò sopra ogni altra cosa, di non far più tardi della mezzanotte, ammonendola che se ella si fosse trattenuta al ballo un minuto di più, la sua carrozza sarebbe ridiventata un cetriolo, i suoi cavalli dei sorci, i suoi lacchè delle lucertole, ed i suoi vestiti avrebbero ripreso la forma e l'aspetto cencioso di prima.

Ella dette alla Comare la sua parola d'onore che sarebbe venuta via dal ballo avanti la mezzanotte.

E partì, che non entrava più nella pelle dalla gran contentezza.41

Il figlio del Re, essendogli stato annunziato l'arrivo di una Principessa, che nessuno sapeva chi fosse, corse incontro a riceverla, le offrì la mano per iscendere di carrozza, e la condusse nella sala dov'erano gl'invitati.

Si fece allora un gran silenzio: le danze rimasero interrotte, i violini smessero di suonare, tutti gli occhi erano rivolti a contemplare le grandi bellezze della sconosciuta.

Non si sentiva altro che un bisbiglio confuso, e un dir sottovoce:—Oh! com'è bella!…—

Lo stesso Re, per quanto vecchio,42 non rifiniva dal guardarla, e andava dicendo sottovoce alla Regina, che da molti anni non gli era più capitato di vedere una donna tanto bella e tanto graziosa.

Tutte le dame avevano gli occhi addosso a lei, per esaminarne la pettinatura e i vestiti, e farsene fare degli uguali per il giorno dopo, sempre che fosse stato possibile trovare delle stoffe così belle e delle modiste così valenti.

Il figlio del Re la collocò nel posto d'onore; quindi andò a prenderla per farla ballare.43 Ella ballò con tanta grazia, da far crescere in tutti lo stupore.

Fu servito un magnifico rinfresco, che il giovine Principe non assaggiò nemmeno, tanto era assorto nel rimirare la bella sconosciuta.

Ella andò a porsi accanto alle sue sorelle: usò loro mille finezze: e fece parte ad esse delle arance e dei cedri, che il Principe le aveva regalato; la qual cosa le meravigliò moltissimo, perchè esse non la riconobbero nè punto nè poco.44

In quella che45 stavano discorrendo insieme, Cenerentola sentì battere le undici e tre quarti; e fatta subito una gran riverenza a tutta la società, scappò via come il vento.

Appena arrivata a casa, corse a trovare la Comare, e dopo averla ringraziata, le disse che avrebbe avuto un gran piacere di tornare anche alla festa del giorno dipoi, perchè il figlio del Re l'aveva pregata molto.

Mentre stava raccontando alla Comare tutti i particolari della festa, le due sorelle bussarono alla porta: Cenerentola andò loro ad aprire.

–Quanto siete state a tornare!—disse ella stropicciandosi gli occhi e stirandosi come se si fosse svegliata in quel momento.

E sì, che ella non aveva avuto davvero una gran voglia di dormire, dacchè s'erano lasciate.

–Se tu fossi stata al ballo,—le disse una delle sue sorelle,—non ti saresti dicerto annoiata: vi è capitata la più bella Principessa, ma di' pure la più bella che si possa vedere al mondo: essa ci ha fatto mille garbatezze, e ci ha regalato dei cedri e delle arance.—

Cenerentola non capiva più in sè dalla gioja.46 Ella domandò loro il nome di questa Principessa; ma quelle risposero che non la conoscevano, e che il figlio del Re si struggeva della voglia di sapere chi fosse, e che per saperlo avrebbe dato qualunque cosa.

Cenerentola sorrise, e disse loro:

–Dev'esser47 bella davvero! Dio mio!48 come siete felici voi altre! Che cosa pagherei di poterla vedere! Via, signora Giulietta, prestatemi il vostro vestito giallo, quello di tutti i giorni.

–Giusto, lo dicevo anch'io!—rispose Giulietta.—Prestare il mio vestito a una brutta Cenerentola come te! Bisognerebbe proprio dire che avessi perso il giudizio.

Questa risposta Cenerentola se l'aspettava: e ne fu contentissima; perchè si sarebbe trovata in un grande impiccio, se la sua sorella le avesse prestato il vestito.

La sera dopo le due sorelle tornarono al ballo: e Cenerentola pure; ma vestita anche più sfarzosamente della prima volta.

Il figlio del Re non la lasciò un minuto; e in tutta la serata non fece altro che dirle un monte di cose appassionate e galanti.

La giovinetta, che non s'annojava punto, si era dimenticata le raccomandazioni fatte dalla Comare; tant'è vero che sentì battere il primo tocco della mezzanotte, e credeva che non fossero ancora le undici. S'alzò e fuggì con tanta leggerezza, che pareva una cervia.

Il Principe le corse dietro, ma non potè raggiungerla.

Nel fuggire, ella lasciò cascare una delle sue scarpine di vetro, che il principe raccattò con grandissimo amore.

Cenerentola arrivò a casa tutta scalmanata, senza carrozza, senza lacchè e con addosso il vestito di tutti i giorni, non essendole rimasto nulla delle sue magnificenze, all'infuori di una delle sue scarpine, la compagna di quella che aveva perduta per la strada.

Fu domandato ai guardaportoni del palazzo, se per caso avessero veduto uscire una Principessa: ma essi risposero che non avevano veduto uscir nessuno, tranne una ragazza mal vestita e che all'aspetto pareva piuttosto una contadina che una signora.

Quando le due sorelle ritornarono dal ballo, Cenerentola chiese loro se si erano divertite e se c'era stata anche la bella signora.

Esse risposero di sì, e che era scappata via allo scocco della mezzanotte, e con tanta furia, che s'era lasciata cascare una delle sue scarpine di vetro, la più bella scarpina del mondo: e che il figlio del Re l'aveva raccattata, e non aveva fatto altro che guardarla tutto il tempo del ballo, e che questo voleva dire che egli era innamorato morto della bella signora, alla quale apparteneva la scarpina.

E dicevano la verità: perchè di lì a pochi giorni,49 il figlio del Re fece bandire a suon di tromba, che sposerebbe colei, il cui piede avesse calzato bene quella scarpina.

Si cominciò a provare la scarpa alle Principesse: poi alle Duchesse e a tutte le dame di corte: ma era tempo perso.

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