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Se Non Farai Del Sogno Il Tuo Padrone…
Accanto a lui anche Rondel reagì. “Ehi non ti addormentare su di me, se muoio in un incidente a mia madre non gliene verrà alcun bene.”
“Scusa” disse Wayne. “Mi ero perduto nei pensieri. Sai come succede.”
“Certo è il nostro lavoro. E che farai la prossima volta?”
“Bill dice che sarà un Western. Prendo la sceneggiatura domani.”
“Ehi, i Western vanno sempre forte. La classica sfida del bene contro il male. Non so più quanti Western ho fatto da quando ho cominciato. E’ un buon terreno di prova per affinare il talento.”
E perché il mio talento dovrebbe essere affinato? Pensò aspro Wayne, ma disse a voce alta: “Sì è quel che dice anche Bill. Ma non è così semplice. Mi piacerebbe un’azione un po’ più difficile.”
“E’ semplice perché così hai deciso di farla. Hai una copia di La Via del West di Ronson?”
“No. Che roba è?”
“E’ il materiale migliore che ho trovato sul periodo. Costa ottantacinque dollari ma ne vale la pena. Migliaia di figure e anche vecchie foto dell’epoca. E’ la cosa migliore per visualizzare i vestiti, gli edifici, tutta l’ambientazione del vecchio West. Te lo leggi un paio di volte e il tuo Western sarà così reale che quando gli spettatori si sveglieranno parleranno con l’accento.” Fece una pausa. “Ce l’ho a casa. Puoi venire su e te lo presto.”
“Non vorrei invadere…”
“Nessun disturbo. Ci vuole solo un secondo.”
Wayne non voleva farselo piacere, quell’uomo. Rondel era la superstar, lo standard con cui Wayne si era sempre misurato trovandosi in difetto. Rondel aveva fatto l’amore con la donna che Wayne desiderava, le aveva sconvolto talmente la testa che Bill gli aveva suggerito prudenza per un’eventuale relazione che al momento Wayne potesse avere in mente con lei. Rondel poteva creare un Sogno Superiore, qualcosa che Wayne non sarebbe mai riuscito a fare perbene. Rondel possedeva tutto ciò che Wayne desiderava e Wayne aveva veramente bisogno di odiarlo. Quell’uomo invece era pateticamente amichevole e Wayne non poteva far altro che accettare quelle aperture, a modo suo. “Oh. D’accordo Vince. Grazie.”
Ancora silenzio. Rondel si schiarì la voce un paio di volte come per parlare, poi ripensandoci. Alla fine trovò abbastanza coraggio da entrare nel vivo dell’azione. “Dato che mi hai fatto una domanda personale, ti spiace se ti rendo il favore?”
“Suppongo di no.” Wayne cercava di reagire il meno possibile. La vicinanza forzata a Rondel lo metteva sempre più a disagio.
“Ma tu…. Voglio dire ho sentito dire che tu…. prima di arrivare alla Dramatic Dreams…. lavoravi nel porno. E’ vero?”
Le mani di Wayne strinsero forte il volante. “Sì. Perché?” L’ultima cosa di cui aveva bisogno al momento era una predica di moralità e Rondel era conosciuto per le sue aperte convinzioni religiose. “L’ho fatto perché era l’unico lavoro che ho trovato come principiante. Come hai detto tu è un grande terreno di prova per affinare il talento.”
“Oh, beh…. sono sicuro di sì. Non è che ti sto criticando. Tutti dobbiamo cominciare da dove si può, di questo mi rendo conto. Almeno Dio ha ritenuto giusto sollevarti dal letame. Solo che… volevo solo sapere…. com’è.”
“Eh?” Wayne guardò sorpreso Rondel che fissava rigidamente davanti a sé, asciugandosi nervosamente le mani sui pantaloni. “Che intendi dire?”
“Beh, tutto quel sesso. Deve essere stato eccitante.”
Eccolo lì, aperto a tutto. Piccolo signor Perfettino, l’uomo che donava fette cospicue di stipendio alla chiesa, un ipocrita da cesso. Wayne fu quasi accecato da un flash improvviso, la visione interiore dell’anima di Rondel: in qualche modo conoscere la debolezza dell’altro accese in lui un caldo bagliore. Stette ben attento a non far trasparire l’emozione però, mentre rispondeva: “No. Veramente era piuttosto noioso.”
L’annuncio sortì l’effetto desiderato: Rondel lo guardò stupito. “Noioso? Davvero, non capisco come…”
“Ma sì, se ci pensi un attimo. Parlando in soldoni, l’atto sessuale fisico è solo un’azione ripetitiva. Certo quando lo fai ti perdi nelle sensazioni del corpo, ma ricreare i sospiri, i suoni e gli odori diventa molto clinico. La maggior parte della grande letteratura erotica mondiale è fatta di preliminari e il sesso vero e proprio ha un ruolo molto limitato. E poi possiamo soltanto eccitare: non ci permettono mai di consumare nulla.”
“E perché no?”
“Per lo stesso motivo per cui non ci è permesso ferire o uccidere nessuno, suppongo. Anche nei Sogni normali nessuno completa mai l’atto. Ci si può avvicinare molte volte ma succede sempre qualcosa che ti impedisce di terminare l’azione.”
Scosse la testa. “Forse è il metodo che ha il corpo per eliminare la tensione – la Commissione Comunicazioni però ci ha imposto regole piuttosto severe. Assolutamente senza consumare, così hanno detto. Se solo cercassimo di fare una cosa del genere ci starebbero talmente addosso che la storia di Spiegelman al paragone diventerebbe un tè con le amiche.”
“E allora che cosa si fa?”
“Perlopiù roba di routine. Uno a uno, fantasie di harem, orge. Io mi sono tenuto fuori dalla roba più eccitante, i trip sadomaso, la disciplina, scat e così via. Una volta ho provato un Sogno con un gay, un uomo, ma è stato orribile; non mi ci trovavo, il capo mi ha detto di limitarmi alle cose normali. Una volta ho fatto delle scene lesbiche ma è stata una cosa diversa. Le fantasie lesbiche sono esclusivamente per gli uomini, quel che posso dire è che la maggior parte dei gay non sono interessati. E’ curioso però che…”
Rondel lo interruppe. “Usciamo qui per Laurel Canyon.”
Nei minuti successivi Rondel si impegnò a dare indicazioni a Wayne guidandolo per le strade che portavano a casa sua e la conversazione languì. Quando l’automobile giunse di fronte alla destinazione era troppo tardi per riprendere il dialogo sulla precedente occupazione di Wayne; cosa di cui fu contento.
“Entra che ti prendo il libro” lo invitò Rondel.
“Me lo puoi dare pure domani alla riunione.”
“Ci vuole solo un minuto. Accomodati.”
Riluttante, Wayne scese dalla macchina e seguì Rondel fino a casa.
L’abitazione era straordinariamente insignificante; un modesto edificio di un piano, rannicchiato timidamente lontano dalla via. Il giardinetto all’entrata era circondato da una siepe continua di media altezza, contorta e ripiegata perché usata da molti anni dai bambini del quartiere. In molti punti il prato arrivava alle caviglie, in altri era quasi nudo. Forse Rondel aveva altri pregi, ma sicuramente non eccelleva nel giardinaggio.
Sul portoncino d’ingresso era accesa una fioca lampadina nuda. Anche nella luce tenue Wayne riuscì a notare, salendo le scalette del portico, che la vernice si staccava dalle trascurate pareti in legno, e che il frontale della finestra davanti era consumato e rappezzato in diversi punti. Squallido, pensò schifato. Quest’uomo è una delle star della nostra professione e vive in queste condizioni. Perché?
Se era rimasto sbigottito dall’esterno della casa, l’interno lo strabiliò letteralmente. Mentre Rondel apriva la porta il naso di Wayne fu assalito dall’odore acre di lettiera per gatti non cambiata da settimane. Il pavimento era letteralmente cosparso di giornali e riviste; le librerie che riempivano le pareti erano costipate non solo di libri ma anche di piatti sporchi, bicchieri e altri oggetti assortiti poggiati lì in un momento frettoloso e mai spostati; i mobili erano vecchi e la tappezzeria in broccato era consunta e aperta a mostrare l’imbottitura in numerosi punti.
“Scusa il disordine” disse Rondel semi-consapevole, mentre camminava con cautela sulla sporcizia del pavimento. “Non ho molto tempo per fare le pulizie, e mia madre non ci riesce, quindi tutto si accumula…”
Wayne non fece commenti e seguì Rondel all’interno. Il suo disagio si faceva sempre più acuto ad ogni istante; avrebbe voluto non accettare l’invito dell’altro. Come aveva detto DeLong, doveva imparare a dire “no” un po’ più in fretta.
“Vince, sei tu?” chiamò una voce acuta dall’interno. “Grazie al Cielo ce l’hai fatta, mi sembrava che non dovessi mai arrivare.”
“Sì Mamma un attimo e sono da te.”
“C’è qualcuno con te? Sento che parli con qualcuno.”
“Sì Mamma. E’ Wayne Corrigan, un collega. Ti ho parlato di lui. Mi ha dato un passaggio fino a casa.” Si volse verso Wayne. “Scusami un istante, vado a vedere come sta. Torno subito.” Si diresse verso il fondo del corridoio e svanì lasciando Wayne da solo.
Qualcosa gli si strusciò su una gamba e lui uscì quasi di sé: in una casa come quella quale creatura poteva mai girare liberamente? Ma era solo un gatto, a pelo corto, grigio e bianco, con l’aria smunta e disordinata. Aveva qualcosa in bocca ma scappò via prima che Wayne potesse vedere cosa fosse. Guardandosi attorno, Wayne scoprì di essere diventato oggetto degli sguardi di diverse altre paia di occhi felini, celati in angoli bui della stanza disordinata.
Nella stanza accanto, Rondel e sua madre parlottavano tra loro, discutendo su quale potesse essere una parola più appropriata: Wayne non distingueva molto delle parole – la signora Rondel diceva qualcosa su “sconosciuti in casa” ma erano evidenti gli alti e bassi della conversazione. Era sempre a disagio nel trovarsi testimone di una qualche disputa familiare e la tentazione fu quella di voltarsi ed andarsene - ma non sarebbe stato cortese scappar via dopo aver accettato l’invito di Rondel di entrare. Doveva aspettare almeno il ritorno di Rondel per potersi accomiatare.
Più restava nella stanza, più lo squallore sembrava peggiorare. Wayne riuscì a notare palline di tessuto arrotolate tra le cartacce sul pavimento e gli sembrò di vedere un grosso scarafaggio scappare in un angolo e svanire sotto lo zoccolo della parete. I piatti, che gli ricordavano la porcellana di Limoges che la madre tanto amava, erano stati impilati a caso sulla libreria e contenevano ancora avanzi di cibo, alcuni dei quali iniziavano a formare la muffa. Accanto ad un piatto c’era una piccola opera di Steuben, una balena di cristallo con la coda arcuata in aria – ma la coda era incrinata e una pinna si era spezzata. Alla finestra c’erano tendine in merletto che però mostravano i segni di anni di unghiate di gatto. C’era una fila di piante morte e avvizzite sul davanzale, talmente rinseccolite che era impossibile capire che tipo di piante fossero state. Accanto alla porta che conduceva in cucina c’era una busta marrone da droghiere piena di immondizia, in cui Wayne riuscì a vedere lo scintillìo di vassoi di plastica usati, di quelli utilizzati per i pasti surgelati. Dalla cucina arrivavano vaghe zaffate di un odore a metà tra una fogna e una bara aperta.
Se debbo stare qui ancora per molto, pensò Wayne, mi sentirò male. Ma come si fa a vivere in questo modo?
Rondel sbirciò nella stanza. “Corrigan, ce l’hai un minuto? Vorrei presentarti mia madre.”
“Beh veramente dovrei proprio andare…”
“Ci vuole un minuto e comunque ti devo andare a cercare il libro. Vieni.”
Chiedendosi perché si lasciava intrappolare in impicci del genere, Wayne camminò gaiamente nel disordine cercando di evitare di calpestare un gatto o altro oggetto spiacevole tra i detriti del pavimento del soggiorno. Nel corridoio non c’erano cartacce ma questo rendeva visibili al passaggio i punti del pavimento in parquet in cui erano state spente sigarette. I mozziconi, gettati in un angolo, formavano una piccola piramide di filtri.
C’era una porta appena socchiusa che conduceva fuori dal corridoio. La stanza su cui si affacciava era di una semplicità cruda: pavimento in legno vuoto; un letto in ferro battuto a due piazze rifatto con cura; un ricamo religioso sul muro, che proclamava: “Il Signore è il mio Pastore”. La stanza era un’oasi di pulizia in quel letamaio di casa. Wayne immaginò che fosse la camera di Rondel, in linea con la nettezza personale della persona. Ma la camera era vuota e Wayne proseguì.
Riuscì a riconoscere la stanza della madre di Rondel ancor prima di entrare: glielo annunciò con notevole forza il tanfo che emanava. L’aria era pesante per l’odore di scadente profumo Devon alla violetta, misto al fetore di fumo di sigaretta stantìo e di urina. Uno solo degli odori sarebbe già stato nauseante ma in qualche modo la combinazione di tutto triplicava l’effetto spiacevole. Wayne dovette fermarsi prima di entrare per ricacciar giù il pasto veloce che aveva mangiato alla Stazione. Non intendeva vomitare lì, di fronte a Rondel; anche se vista l’ambientazione generale, dubitava che lo avrebbe notato.
La stanza da letto della signora Rondel non lo deluse. La toletta in noce rivestita di marmo presentava chiazze di caffè e aloni di sigaretta; i fianchi del mobile erano stati ampiamente utilizzati dai gatti per affilarsi le unghie. In un angolo c’era un paravento stile Coromandel; una volta forse era stato di valore cospicuo, ma ormai la maggior parte della lavorazione a intarsio era sparita. C’erano dei vestiti, nessuno dei quali troppo pulito, gettati alla rinfusa sulle sedie e sul pavimento. Alle pareti fotografie di una donna assai attraente – ma qualsiasi somiglianza tra lei e la signora Rondel attuale rappresentava a dir poco un’illazione.
Al centro della stanza, contro la parete più lontana, c’era il letto della signora Rondel. Era un letto matrimoniale grande; ai quattro lati si ergevano delle colonne intarsiate, in legno, che sostenevano quanto rimaneva di un baldacchino; da cui pendevano brandelli di merletto, come malinconici souvenir di glorie passate. Persino il copriletto di broccato orientale parlava di giorni migliori da tempo tramontati; scolorito, lacero, coperto di grosse, brutte macchie. Attorno al letto mozziconi di sigarette non calpestati.
La signora Rondel era mezzo seduta, poggiata su un cumulo di cuscini. Era una donna grassa con un viso rubicondo e occhi scuri e porcini. Aveva la pelle puntecchiata di macchie da fegato e i capelli bianchi raccolti in bigodini; il viso era coperto di trucco spesso, quasi da clown. Aveva alla gola una forma grigia, scura, che inizialmente Wayne pensò essere un altro gatto; poi si rese conto che si trattava di un marabù sporco, pendant di un vestito da sera che una volta forse era stato di un qualche colore – ma non voleva neppure tentare di immaginare quale.
“Questa è mia madre” disse Rondel, imperturbabile.
La signora Rondel emise dalla gola un suono disgustoso e tossì del catarro in un fazzoletto che poi gettò a caso in un angolo. Guardò Wayne con sguardo analitico e disse: “Corrigan, sì? Irlandese?”
“Sono americano. Da quattro generazioni.”
“Cattolico?”
“Non molto.” Wayne era irritato per quel maleducato controinterrogatorio.
La signora Rondel guardò il figlio. “Gli hai già mostrato la Via del Signore?”
Rondel era evidentemente imbarazzato. “Mamma, lo conosco appena.”
“Non ha importanza. Tutti gli uomini sono fratelli per il Signore.” Si rivolse a Wayne. “Vuoi essere salvato?”
Guardandola bene Wayne non ne era tanto certo; almeno non se lei ne era un esempio…. “Non è una cosa di cui mi preoccupo e francamente, signora Rondel, non penso che siano affari che la riguardino.”
La donna sbuffò e si rivolse al figlio. “Hai degli amici in questo posto di lavoro. Lui è il peccatore che mi dicevi, dei Sogni sporchi?”
“Mamma!”
“Infedele senza Dio!” gli occhi della signora Rondel fiammeggiavano fissandosi su Wayne. “Schiavo del Maligno, che adeschi gli uomini dal cammino di Giustizia con la tua sporcizia e la tua lussuria. Ma verrà il Giorno del Giudizio e in quel giorno ti sarà reso il dovuto. Le viscere della Terra si apriranno e ingoieranno i peccatori come te. E allora come godrai della tua lussuria, se brucerai rotolandoti nelle fiamme e soffocando nel puzzo dello zolfo? Temi il Verdetto del Signore, temi la punizione dei peccatori. Gesù perdona ma tu devi andare da Lui a confessare i tuoi peccati. Tu devi supplicare in ginocchio...”
“Mamma,” implorò Rondel “è nostro ospite.”
La signora Rondel non prestò attenzione. “Prega per la tua anima, o verrai ingoiato dalla dannazione eterna.”
Wayne era rimasto in piedi, senza parole, di fronte a tanta sfrenata ostilità, senza sapere come reagire. Era scioccato, infuriato, imbarazzato e anche un po’ impaurito: tutto insieme. Mentre la vecchia farneticava Rondel prese Wayne sottobraccio e lo portò fuori, in corridoio. La signora Rondel non si accorse quasi che se ne erano andati; era in pieno sproloquio e la sola assenza di un bersaglio non l’avrebbe arrestata.
“Mi spiace, davvero,” disse Rondel. “A volte queste cose le prendono la mano. Il cervello non è più come una volta.”
Wayne respirò profondamente per un po’, per ricomporsi. “Mi avevi detto che venivi a casa perché non sta bene.”
Rondel scosse le spalle. “Penso un falso allarme, a volte succede. Alla sua età e nelle sue condizioni non voglio rischiare assolutamente. Senti, posso farti un caffè?”
Un breve ricordo dell’odore proveniente dalla cucina gli stuzzicò la mente e lo stomaco di Wayne fece un rapido salto mortale. “Ah, no grazie. Davvero, devo andare a casa.”
“Almeno ti cerco il libro.”
“No!” disse, un po’ brusco, poi forzò la calma nella voce. “Domani va bene, davvero. Puoi portarlo alla riunione, ci sarò anche io.”
“Ma ci metto solo un paio di minuti…”
“Scusa… io… devo andare.” Senza ulteriori esitazioni Wayne ritornò sui suoi passi verso il soggiorno e poi alla porta d’ingresso. Tanta era la fretta di allontanarsi da casa di Rondel che inciampò sui gradini del portico.
Riuscì a raggiungere la macchina e le si premette contro per alcuni minuti, contento di respirare a grandi sorsate l’aria fresca della notte. Gli ci vollero alcuni minuti per far fermare il tremore della mano, per poter pescare le chiavi dalla tasca. E anche guidando continuò a sentire la voce stridula della signora Rondel che pontificava il suo sermone nell’indifferenza della notte.
CAPITOLO 5
Wayne non aveva mai pensato al suo appartamento come ad un’attrazione: ma dopo aver visto casa dei Rondel, la sua gli sembrò uscire direttamente dalle pagine di A.D. Quello di Wayne era un appartamento monoambiente, decorato in stile assolutamente californiano: la sua funzione primaria era un’efficienza cruda e squallida. Le pareti erano pulite, bianche, i mobili economici ma funzionali. Ciò che più lo colpiva però, entrando e accendendo la luce, era che l’appartamento era pulito e senza odori. Wayne non era un casalingo coscienzioso e sugli scaffali c’era polvere, ma almeno era tutto al proprio posto e il tappeto dorato non era cosparso di rifiuti.
A volte ci serve davvero una brutta esperienza per apprezzare ciò che abbiamo, pensò Wayne guardandosi attorno.
Però la sterile qualità del suo appartamento lo annoiava.Volendo essere critico, avrebbe dovuto estendere la critica anche al proprio stile di vita. A parte la TV e un paio di stampe appese per rallegrare le pareti nude, c’era poco che potesse davvero definire di sua proprietà. Fece un inventario e si sentì ancora più depresso. Nel cucinotto aveva i suoi piatti e i suoi utensili, un tostapane-forno e un computer da tavolo che gli appartenevano; nella stanza da letto c’era una Calotta Onirica e un armadio pieno di vestiti. Quelle cose e la biblioteca in continua crescita contenente testi di riferimento – molti dei quali, comunque, conservati anche allo Studio – erano gli unici oggetti che non aveva ereditato assieme all’appartamento.
Pensandoci si rese conto che la maggior parte dei Sognatori che conosceva non erano persone di mondo ne’ materialisti. La cosa più bella che si poteva dire di loro era che, la realtà, la sopportavano; le loro vere vite erano nel Sogno e il mondo era semplicemente un indirizzo dove soddisfare le proprie necessità fisiche. Tutto ciò che contava per loro era vissuto nella loro mente e si propagava ad altre persone attraverso la Calotta Onirica. Wayne si domandò se era così che il fastidioso Rondel riusciva a sopravvivere con sua madre in quella casa – trattandola come un fenomeno temporaneo, da sopportare con quieta dignità finché non riusciva a scappare nel Sogno.
Si sentì pervadere da un’ondata di pietà per se stesso e cercò di fugarla. Forse i Sognatori erano ancor peggio di tutti gli altri? Gli altri, quelle masse senza volto che fungevano da spettatori notturni, non avevano neanche l’immaginazione per creare i propri Sogni. Vivevano le loro vite svolgendo lavori che la maggior parte di loro odiava, e il loro solo sfogo era sintonizzarsi sui Sogni indiretti creati da altri. Almeno la vita dei Sognatori godeva di un’indipendenza liberatrice rispetto alle catene della vita terrena.
Era una razionalizzazione familiare. Aveva sentito le stesse argomentazioni d’élite, o variazioni sul tema, ogni qualvolta i Sognatori si riunivano per parlare della loro esistenza. Era la verità, oppure tutti affermavano pubblicamente la stessa cosa per mascherare le loro insicurezze? Durante le feste, nelle sale degli studi della Dream, sembravano coraggiosi — ma Wayne si chiedeva se quegli stessi Sognatori da soli, la notte, non soffrissero mai quei momenti di calma disperazione che egli stesso aveva sofferto; consapevoli di avere innanzi a loro una vita vuota, consapevoli che le loro realtà più vivide erano fermamente ancorate alla finzione scenica.
Con Marsha tutto era diverso. Allora la vita aveva uno scopo, o almeno così sembrava; se Wayne aveva qualche dubbio sulla validità della sua vita e del suo lavoro, era facile seppellirlo dietro la maschera di una relazione sentimentale. Se non altro, essere impegnato con Marsha lo aveva protetto da verità più spiacevoli su se stesso.
Ma Marsha per vivere vendeva polizze assicurative. Non c’era nessuno al mondo più fermamente abbarbicato alla realtà di Marsha Framingham. La loro attrazione iniziale era sembrata la prova del vecchio detto secondo cui gli opposti si attraggono, ma un anno di convivenza aveva dimostrato che una coppia ha bisogno di avere qualcosa in comune per far crescere una relazione. Marsha aveva poca consapevolezza, o poca solidarietà, per le necessità artistiche di lui, e gli orari di lavoro invertiti del Sognatore gli offrivano sempre meno tempo da passare con lei.
Sei mesi prima, nel disperato tentativo di mantenere la relazione, Wayne aveva commesso un atto imperdonabile: aveva chiesto a Marsha di sposarlo.
Lei l’aveva guardato a lungo prima di rispondere. “No”, aveva detto, “in queste circostanze non funzionerebbe mai, e non acconsentiresti mai alle circostanze che potrebbero permetterlo.”
“Mettimi alla prova.”
“Devi lasciare la Dreaming.”
Si erano lasciati una settimana dopo. Era stata una rottura amichevole, come vanno queste cose. Si erano promessi di rimanere amici ma, con pochi interessi in comune, i loro passi si incrociavano raramente. L’ultima volta che Wayne l’aveva sentita, Marsha era impegnata con un agente di cambio e non era mai stata tanto felice.
Wayne si domandò se uno dei fattori che lo avevano spinto con tanta veemenza verso Janet Meyers non fosse che, fisicamente, lei e Marsha si assomigliavano: nessuna delle due era una bellezza mozzafiato, ma entrambe sapevano radiare un senso di calore e intelligenza che lui tanto ammirava in una donna. La differenza tra le due era che Janet, al contrario di Marsha, era una Sognatrice e sapeva riconoscere quei suoi bisogni speciali, gli umori, i dubbi, perché rispecchiavano i suoi. Lei e Wayne potevano condividere il mondo unico del Sogno e le sue particolari problematiche. I due potevano sostenersi l’un l’altro nei momenti di crisi; insieme formavano un duo che avrebbe potuto sconfiggere le tempeste emotive. Se lui avesse potuto farglielo capire…
Improvvisamente l’appartamento gli parve freddo e solitario. Il mondo attorno a lui era immobile e si sentiva tagliato fuori, isolato dal flusso dell’umanità. Persone più decenti a quell’ora erano addormentate, molte di loro indossavano la Calotta Onirica e vivevano attraverso le fantasie pre-digerite di altri. Wayne era invaso dalla necessità di tuffarsi e di nuotare col branco, di perdersi nell’identità di massa e di arrendersi ai problemi fino al giorno successivo.