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Spettri, Ragazze E Fantasmi Vari
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Spettri, Ragazze E Fantasmi Vari

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“Sì,” sussurrò Starling. “Ah-OK e roba del genere. Lo faresti?”

Non.”

“Perché no, Babette?”

“E’ troppo… troppo pericoloso. Non desidero perdere la vita andando nello… spazio.”

“Il mio Governo intende pagarti…” fece un rapido calcolo mentale “…cinque volte la tua tariffa normale. Ci saranno altre undici ragazze con te, non sarai sola. Dovrai soltanto lavorare due o tre ore al giorno. E oggigiorno non ci sono più pericoli. Molte donne sono andate nello spazio e sono tornate sane e salve; sembra che le condizioni nello spazio esterno siano molto rilassanti. E quando andrai in pensione ti forniremo persino una casa e un fondo pensione, così potrai trascorrere i tuoi ultimi anni in modo confortevole.”

“E tutto questo proprio per me?”

“Solo per te.”

Babette inghiottì e chiuse gli occhi. “E perché allora ho sempre avuto l’impressione che gli americani fossero…come dite voi? Puritani?”

***

Sen. McDermott: E lei afferma di aver ingaggiato tutte queste ragazze personalmente?

Signor Starling: Sì, esatto Signore.

Sen. McDermott: E la maggior parte di loro ha collaborato?

Signor Starling: E’ il loro lavoro, signore.

Sen. McDermott: Voglio dire, che reazioni hanno avuto alla sua proposta tanto insolita?

Signor Starling: Beh probabilmente ricevono un sacco di proposte insolite. Sembrava che la prendessero come un fatto che accade nella vita.

Sen. McDermott: Un’ultima domanda Signor Starling. Come ha trovato il suo primo impiego?

Signor Starling: Molto faticoso, signore.

***

“Wilbur, devi essere molto stanco” disse Hawkins, facendo balenare il suo famigerato sorriso. “Quante ragazze hai detto di aver intervistato?”

“Ho smesso di contare arrivato a venti.”

“E ne hai selezionate dodici per noi, giusto?”

“Sì signore, nove francofone e tre anglosassoni.”

“Beh, penso che ti sei meritato una vacanza; partirai non appena le ragazze saranno al sicuro sulla USSF 187. A proposito, com’è che si chiamano?”

Starling chiuse gli occhi come se avesse i nomi scritti sulle palpebre. “Allora vediamo… ci sono Babette, Suzette, Lucette, Toilette, Francette, Violette, Rosette, Pearlette, Nanette, Myrtle, Constance e Sydney.”

“Sydney?”

“E… che ci posso fare capo, si chiama così.”

“Oh beh, suppongo che ci sia di peggio,” sorrise Hawkins. “Avrebbe potuto chiamarsi Australia di cognome.”

“E’ peggio, capo. Di cognome fa Carton.”

***

Hawkins impartiva un discorsetto preparatorio pre-lancio alle dodici nuove astronautine. “Mi piace pensarvi come un piccolo esercito di usignoli fiorentini” disse loro. “Spero che non riceverete tutto il credito che il vostro coraggioso atto di sacrificio meriterebbe, però…”

Starling irruppe nella stanza col panico negli occhi. “Sta arrivando il Generale Bullfat, è in corridoio!” urlò.

Filmore saltò giù dal tavolo su cui si era seduto. “Jess, sei sicuro di sapere cosa stai facendo? Se Bullfat scopre le ragazze…”

“Tranquillo Bill” sorrise Hawkins con noncuranza. “Con Bullfat me la cavo a occhi chiusi. Una quisquilia.”

“Che è una quisquilia?” Ruggì Bullfat entrando. Il Generale era un uomo corpulento – ma si sa che trascorrere quarant’anni dietro a una scrivania donerebbe lo stesso aspetto a chiunque.

“Lei,” rispose Hawkins, voltandosi con calma per affrontarlo “Stavo proprio dicendo a Bill che per lei sarebbe una quisquilia essere promosso al mio posto, se mai dovessi dare le dimissioni.”

Bullfat mormorò incoerentemente. “E loro chi sono?” chiese dopo un attimo, indicando le ragazze.

Era una domanda intelligente. Le astronautine, contrariamente alla procedura usuale, indossavano tute spaziali ampie e rozze. Dalla schermatura del viso si intravedevano soltanto occhi e nasi, mentre il resto della testa era completamente rivestito dai caschi. Facevano pensare più a goffi pagliacci che a viaggiatrici spaziali.

“Fanno parte del gruppo che deve partire tra tre ore. Glieli presento?” Filmore e Starling a quell’invito quasi svennero, ma Hawkins fece balenare una smorfia rassicurante.

“Ho troppo da fare per permettermi presentazioni, Hawkins. Ma perché hanno un aspetto tanto scadente? Ma li hanno già passati, gli esami fisici?”

“E non sa quanto!” sussurrò Starling a Filmore.

“Generale, ma sa bene che non manderei mai nessuno nello spazio se non fosse in condizioni perfette” rispose Hawkins.

“Che ha detto il medico di volo?”

“Ha detto che questo gruppo ha le migliori forme… ehm, la miglior forma che abbia mai visto.”

“Beh, l’importante è che abbia controllato.” Bullfat fece l’atto di andarsene ma poi si fermò sulla soglia. “A proposito, per dove si inbarcano? Per la Stazione Tycho?”

“No, per il satellite USSF 187.”

“E’ già ora di cambio turno?”

“No, è un gruppo di personale aggiuntivo.”

“Personale aggiuntivo?” urlò Bullfat. “Hawkins, sa stramaledettamente bene che quella Centottantasette è stato costruito per diciotto uomini contati, in turni di sei ogni mese. Non c’è assolutamente spazio per altre dodici persone. Che dovrebbe fare secondo lei questo suo “personale aggiuntivo”, dormire accucciato sugli altri uomini?”

Con meravigliosa prova di autocontrollo, Hawkins riuscì a trattenere una risata. Anche il “personale aggiuntivo” sorrise con consapevolezza. Starling però dovette allontanarsi dalla stanza in preda a un attacco di riso isterico.

“Dove cavolo va?” chiese Bullfat vedendo Starling uscire.

“Oh, ultimamente è stato parecchio sotto pressione. E’ ora che vada in vacanza.”

“A me pare più che debba farsi controllare – e anche lei, Hawkins. Lei ha in mano la politica dell’Agenzia Spaziale ma i lanci sono cosa mia e quell’equipaggio non va su come “personale aggiuntivo” di una stazioncina spaziale. Se li vuole far partire dovrà farli includere nella rotazione del personale a sei mesi, proprio come tutti gli altri. E non se ne parli più.” Bullfat uscì trionfante dalla porta.

“Pronto a mollare, Jess?” chiese Filmore.

“Neanche per idea. Mi ha sorpreso, ma Bullfat su un punto ha ragione. Se mandiamo le ragazze sull’Ottantasette risulterebbero troppe, sarebbero costantemente d’impiccio per gli uomini e potrebbero diventare un problema anziché un aiuto. Ma non tutto è perduto. La Novantatré… quand’è che deve decollare?”

“La prossima settimana —ma non starai mica pensando di mandare su le ragazze con quella?”

“E perché no?”

“Il satellite USSF 193 non è una stazione passeggeri – serve per lo stoccaggio di cibo e materiale. Non è stata progettato per viverci dentro.”

“E allora improvviseremo, Bill. La Novantatré sarà posta in orbita in parallelo con l’Ottantasette, perché ne avranno bisogno per magazzinaggio. Sarà mandata su in quattro sezioni già cariche e assemblata nello spazio. In una settimana sarà un gioco da ragazzi aggiungere alle sezioni delle cuccette d’accelerazione e delle aree di soggiorno – basterà disfarsi di materiale non essenziale e saremo a posto. E le ragazze potranno star lì.”

“Jess, è assurdo” mormorò Filmore.

“Veramente no. Sai che l’idea mi piace sempre di più.” Hawkins sorrise appena. “Pensaci: USSF 193: il supermarket sotto casa e il bordello di fiducia, due al prezzo di uno.”

Filmore gemette. Le ragazze esultarono mentre le conducevano via.

***

“Io non ci posso credere,” disse Jerry Blaine. “Voglio dire, qualcuno laggiù sta facendo trucchetti.”

“Nessuno fa trucchetti in codice top secret” replicò il Colonello Briston. “Gli ordini li ha firmati personalmente Jess Hawkins. E le ragazze le avete viste coi vostri occhi. Ammetto che è da folli….—”

“Folli? Amico mio è da pazzi furiosi” disse Phil Lewis. “Mark, leggimi di nuovo questi ordini per favore. Devo sentire ancora quel messaggio, ancora una volta.”

Briston ridacchiò. “Cari amici,” lesse, “assieme a ciascuna sezione della USSF 193 riceverete tre componenti dell’equipaggiamento necessario per il progetto Coccole (per un totale di dodici Unità). Il nostro caro Zio Sam non si è risparmiato per inviarle direttamente dall’Europa, quindi trattatele con cura, d’accordo? Saranno sostituite a rotazione ogni sei mesi circa, ma nel frattempo potranno essere stoccate nell’USSF 193. Condividetevele con giustizia e divertitevi – è un ordine! Qualsiasi comunicazione riguardante questo equipaggiamento dovrà essere inoltrata personalmente a me, con questo stesso codice. Anche questo è un ordine. Cordialmente, Jess Hawkins, Direttore Agenzia Spaziale Nazionale.”

“Wow!” esclamò Lewis. “Ricordami di smettere di lamentarmi perché pago le tasse.”

Proprio in quel momento dalla stanza attigua emerse Sydney. Si era tolta la tuta ed era lievemente più sgonfia. “Blimey,” disse “sicuramente voi ragazzi state al freddo quassù. Io Nanette e Constance stiamo gelando. Ci domandavamo se…. Forse qualcuno di voi ragazzi vorrebbe gentilmente riscaldarci…”

Per via del grado, il Colonnello Briston riuscì a posizionarsi in testa alla fila.

***

Era molto tardi, cioè ciò che sulla stazione veniva considerata notte, ed era passato un mese circa dall’arrivo delle ragazze. Lucette, Babette, Francette, Toilette, Violette, Rosette, Suzette e Myrtle erano di turno, mentre le altre cercavano di dormire, per quanto possibile. Sydney era pacificamente rannicchiata nel letto, immersa nei suoi sogni non tanto innocenti, quando improvvisamente una meteora della grandezza di un pugno le forò la parete accanto al letto andando a scoppiare contro il muro all’estremità opposta della stanza. L’ambiente fu invaso da un sibilo; Sydney boccheggiò mentre il foro creato dal meteorite risucchiava via rapidamente tutta l’aria.

Un secondo ed era fuori, chiudendo dietro di sé la porta stagna dello scompartimento. Le altre tre ragazze si precipitarono nel corridoio, cercando di capire cosa era successo.

“Blaine!” disse Sydney appena riuscì a riprendere fiato. “Quell’accidente ha aperto una falla!”

***

“Ora è tutto a posto, Sydney,” annunciò Jerry Blaine rientrando dall’esterno. “L’ho rappezzato. Mi dispiace ma tutto quel che avevi in giro per la stanza è stato risucchiato nello spazio. Nulla di valore, spero.”

“Nulla che io ricordi” gli rispose Sydney. “Siamo sicuri che non succederà di nuovo?”

“Come ti ho già detto, questi sono colpi di fortuna che capitano con una probabilità su un miliardo. Non potrebbe succedere ancora in altri mille anni.”

“Meglio di no, gente, altrimenti me ne torno sulla Terra in un batter d’occhio.” Si voltò per tornarsene in stanza.

“Oh, a proposito” la chiamò Blaine, “sei prenotata per stanotte? Bene. Io stacco alle quattro – mi puoi raggiungere a quell’ora.”

“Il lavoro di una donna non finisce mai” sospirò con saggezza Sydney rientrando in stanza. La maggior parte delle sue cose era ancora nei cassetti del comò, ma per quanto cercò non riuscì a trovare la scatolina portapillole che teneva accanto al letto. “Oh beh” si disse “ne ho fatto a meno già altre volte. Potrò ben farne a meno ancora per un po’”.

Fu quasi dopo quattro mesi, per essere esatti, che decise che la situazione doveva essere esposta a qualcuno; quindi ne parlò al Colonnello Briston, che era appena tornato dai suoi tre mesi sulla Terra. “Oh Cielo!” fu tutto quel che riuscì a dire lui.

“Non è poi così grave.”

“Non è così grave? Sicuramente la prendi con calma. Perché non ne hai mai parlato prima con qualcuno?”

“Beh, perché non mi era mai successo.”

Briston sussultò.

“Penso che faremmo bene a fare una chiamata a questo signor Hawkins. Lui sa sempre cosa fare.”

***

Sen. McDermott: E’ stato lei a scoprire cosa stava accadendo, Generale, giusto?

Gen. Bullfat: Ci può scommettere. Ho sospettato sin dall’inizio che Hawkins avesse mandato su delle ragazze, ma gli Spaziali non agiscono mai senza una prova certa. Quindi mi ero tenuto i sospetti per me e avevo raccolto meticolosamente le prove, in attesa del momento opportuno per mostrare le mie scoperte al Presidente.

Sen. McDermott: In altre parole, la sua scoperta era basata su un’indagine lunga e meticolosa?

Gen. Bullfat: Esatto Senatore. E’ così che fanno le cose i Militari.

***

Come Fortuna volle, quando arrivò la comunicazione sia Hawkins che Starling erano fuori per il pranzo. Era classificata come “urgente,” quindi l’addetto alla sala telecomunicazioni la fece inoltrare direttamente all’ufficio di Hawkins. La porta era chiusa a chiave.

Il Generale Bullfat, che proprio allora usciva dal suo ufficio e si incamminava per il corridoio, trovò il fattorino che aspettava il ritorno di Hawkins fuori dalla sua porta. Con la sua tipica capacità di persuasione —e duecentocinquanta libbre che indossano cinque stellette possono essere molto persuasive – Bullfat convinse il fattorino che una comunicazione urgente non poteva attendere “i capricci di un dannato imbroglione come Hawkins.”

Bullfat si portò il messaggio in ufficio e lo aprì. Decodificò con facilità la noticina di cinque parole e poi restò a fissarla per un minuto con gli occhi di fuori. “Parks,” scattò contro il segretario sul telefono interno - “passami il Presidente. No, pensandoci bene, non ti disturbare – vado a trovarlo di persona.”

Usciva dall’ufficio proprio mentre Hawkins e il suo assistente tornavano dal pranzo. Il Generale non sapeva se ridere trionfante in faccia a Hawkins oppure fargli la predica, quindi si limitò a dire: “Adesso ti ho acciuffato, Hawkins. Finalmente ti ho acciuffato.”

Hawkins e Starling si scambiarono occhiate perplesse e preoccupate. Entrarono nell’ufficio del Generale: Hawkins trovò il messaggio sulla scrivania, lo lesse silenziosamente tra sé, ricadde pesantemente a sedere. Vagava con gli occhi assenti sul muro di fronte: le mani inerti lasciarono andare il messaggio, Starling lo raccolse e lo lesse a voce alta, incredulo.

“Sydney incinta. E ora? Briston.”

***

Sen. McDermott: Signore e Signori. Appena ieri ho avuto ancora occasione di comunicare con il Presidente e siamo giunti alla conclusione che compiere ulteriori indagini al riguardo ormai sia davvero sterile. Quindi, desidero aggiornare quest’udienza fino a ulteriore avviso, senza mettere agli atti la trascrizione ufficiale fino a quel momento, quando sarà ritenuto opportuno renderla di dominio pubblico. E questo è tutto.

***

Filmore riuscì a vedersi con Hawkins fuori dall’edificio. “Riesco a vedere una tua manovra in tutto questo Jess. Come l’hai cavata, questa patata bollente?”

“Beh,” spiegò Hawkins, “dato che ancora la cosa non è di dominio pubblico, ho semplicemente fatto capire al Presidente che…. se non può liberarsi di noi, potrebbe abituarsi a noi.”

“E perché non si può liberare di noi?”

“Perché il Direttore dell’Agenzia Spaziale Nazionale è nominato per sei anni, e me ne rimangono ancora quattro. E poi, soltanto il Congresso ha l’autorità per esonerarmi.”

“Ma le ragazze? Non le possono licenziare?”

“Santo Cielo no! Sono impiegati civili dell’Agenzia e rientrano nello status di “servizio obiezione” potrebbero essere rimosse dall’incarico soltanto per incompetenza nell’esecuzione di compiti specifici. E nessuno…” Hawkins sorrise… “nessuno potrebbe mai accusarle di una cosa del genere.”

Bel Posto da Vedere

Questo è apparso per la prima volta in Vertex nell’ottobre 1973.

Guardando indietro mi pare di subire un po’ il fascino di quelle vecchie città desolate che si vedono nei sogni—ma a che prezzo! Una città del genere compare nel mio romanzo SCAVENGER HUNT, e ha il suo coronamento in A WORLD CALLED SOLITUDE. Questo però è il primo testo in cui appare. Mi chiedo cosa pensano gli studiosi di ciò che tento di dire.

Il confine della città era esattamente a mezzo metro dalla punta dei suoi stivali. Ryan, in piedi, non aveva particolarmente fretta di attraversare quella demarcazione. Cinquanta centimetri: era tutto ciò che separava lui e la sua potenziale pazzia. Fissò la città cercando di capirne qualcosa da quel profilo imperscrutabile – cercando, ma senza riuscire.

Infine trasse di tasca il comunicatore. La fredda scatola metallica rettangolare si adattava stranamente bene alla sua mano. Nell’alienità di quel pianeta era il simbolo della Terra. E finché la teneva in mano, in un certo qual modo la nave – e persino la Terra stessa – non erano poi tanto distanti. Ryan non era un uomo particolarmente coraggioso; nonostante le dichiarazioni della propaganda, gli esploratori planetari tendevano a sperimentare fallimenti e paure assolutamente terrestri. Ryan aveva paura della solitudine.

Parlò con toni calmi e pacati. La sua voce non era diretta ad altri esseri viventi a bordo della nave, ma al computer modello JVA che la gestiva. Il consorzio umano era in esubero, troppo diversificato e complesso perché la mente potesse afferrarlo… c’era bisogno di un aiuto meccanico. Per la razza umana i computer erano diventati padri, madri, insegnanti. Il Java-10 era la controparte portatile dell’enorme cervello che controllava la Terra.

“Sto per entrare in città,” disse Ryan.

“Inutile sottolineare che è importante andar cauti,” rispose Java-10. “Qui abbiamo già perduto cinque spedizioni. Cerca di mantenerti in comunicazione frequente, se non costante. E ricordati che se fallisci non faremo altri tentativi. La città sarà distrutta, nonostante il suo valore potenziale.”

“Capito,” rispose asciutto Ryan. “Vado e torno.” Disattivò il comunicatore e lo ripose in tasca.

Era fermo prima della demarcazione, esitante. Proprio alla sua destra, la navetta d’esplorazione si ergeva tozza accanto alle altre cinque, essenziale, pronta a partire all’istante in caso di necessità. Percepiva dietro di sé il deserto: asciutto, mortale, con le dune polverose che mutavano forma non appena una brezza passeggera le sfiorava. Davanti a lui lo attendeva quella città dal profilo aguzzo, bella, profondamente aliena. Pareti brillanti creavano sporgenze in angolazioni folli, come prodotte dal delirio di un architetto ubriaco. Lateralmente, una dopo l’altra, spuntavano strutture fragili, quasi fiabesche, che si ergevano anche per centinaia di metri. Altri edifici ancor più sorprendenti sembravano proprio appesi in aria, senza alcun sostegno visibile. Di tanto in tanto il vento sfiorava la città e faceva vibrare l’intera struttura come un cristallo sonoro; allora la metropoli sembrava sospirare il canto di una sirena.

Già cinque volte altri uomini erano entrati in città, l’unica, su un pianeta altrimenti desolato. Nessuno ne era mai tornato. I rilevatori non avevano mostrato alcuna traccia di vita antecedente all’arrivo dell’uomo: registravano sedici forme di vita – i sedici uomini svaniti. Ora toccava a Ryan, era la possibilità di far salire la quota a diciassette.

Non avevano idea di chi avesse costruito quella città, quando, o perché. Sapevano soltanto che si era ingoiata sedici persone, ancora vive, eppure apparentemente incapaci di sfuggire, nonostante disponessero delle migliori armi che la Terra potesse fornire. La città generava un campo di energia sconosciuta che si irradiava in forma sferica dal centro verso l’esterno per una certa distanza e mai oltre. Per un po’ alcuni degli uomini che erano entrati in quel campo di energia avevano mantenuto il contatto radio con la navetta: ma le informazioni inviate dagli esploratori erano state quasi inutili perché presto gli uomini avevano iniziato a scivolare in un crescente stato di delirio, per perdere poi completamente contatto con la realtà e interrompere le comunicazioni.

La curiosità della Terra, la necessità di tecnologia che invece questa metropoli rappresentava, erano forti. E per questo motivo sedici persone erano entrate in quella città ed erano impazzite.

Forse sarebbero salite a diciassette.

Espirando rumorosamente, Ryan attraversò il confine.

***

Non accadde nulla. Ryan rimase in attesa, con i muscoli tesi e la mascella serrata, ma non c’era differenza tra le sensazioni di un momento e quelle dell’istante precedente. Tirò ancora fuori dalla tasca il comunicatore, affidandosi al senso di benessere che gli elargiva. “Ho appena passato la demarcazione e sono entrato. Finora non avverto alcun effetto.”

“Bene,” rispose la nave. “Procedi verso il centro città. Muoviti con lentezza e non correre rischi.”

“Ricevuto” disse Ryan, riagganciando.

Le prime costruzioni distavano ancora un centinaio di metri. Ryan si avvicinò con gran decisione. Aveva tutti i sensi in allerta, alla ricerca di un qualche segnale di pericolo, sia pur lieve. Ma nulla si muoveva e gli unici rumori erano quelli provocati dal bisbigliare del vento. La città non aveva alcun odore e ciò era più avvertibile di qualsiasi puzzo. Ryan ebbe come la vaga impressione di entrare in un castello di cristallo: una sensazione che svanì rapidamente.

Arrivò al primo edificio e allungò la mano per toccarlo. Era liscio, duro, come vetro, però opaco; ne’ caldo ne’ freddo sotto le sue dita curiose, ma gli fece formicolare i polpastrelli e lui ritirò la mano. Il punto sfiorato dalle dita mostrava piccoli segni scuri contro la parete altrimenti lattea. Mentre guardava le macchie, queste svanirono e alla fine il muro tornò uniforme.

La parete non presentava aperture ne’ fratture. Ryan ci camminò rasente, in parallelo, ma senza toccarla di nuovo. Cercava un varco, una qualche apertura da cui entrare nella costruzione. Il muro appariva liscio, duro e continuo, apparentemente senza entrate; finché improvvisamente ecco che una sezione mandò un bagliore e scomparve, lasciando a disposizione di Ryan uno spazioso portale d’ingresso. Ryan sobbalzò per la sorpresa; poi tirò fuori il comunicatore e descrisse quest’ultimo avvenimento alla navetta orbitante sopra di lui.

“E’ accaduto qualcos’altro di potenzialmente pericoloso?” fu la risposta.

“Non ancora. Non c’è alcun segno di vita, a parte l’apparizione di questa porta.”

“Allora dovrai rischiare, entrare ed esplorare” disse freddamente Java-10.

Certo, pensò Ryan, a che che ti frega? Non sei mica tu a giocarti la pelle. “Ricevuto.”

Aveva con sé una torcia, ma bastò un’occhiata all’interno per chiarirgli che non avrebbe dovuto usarla. La costruzione era vivacemente illuminata; il bagliore sembrava diffondersi dalle pareti. Ryan si guardò attorno con curiosità e si addentrò.

L’edificio era assolutamente privo di mobilio. L’unico dettaglio era una larga scala a spirale che si ergeva scalando le pareti cilindriche. L’esploratore torse il collo per seguire il percorso ascendente, che però sembrava proseguire all’infinito. Ogni venticinque scalini c’era uno spazioso pianerottolo con una finestrella al muro da cui si poteva osservare la città sottostante. Sul bordo interno della scala c’era un corrimano in plastica chiara.

Ryan proseguì con lentezza, ancora teso per qualsiasi possibile evenienza. L’eco degli stivali che grattavano il duro pavimento in pietra era quasi assordante in confronto al silenzio totale che copriva il resto della città. Si avvicinò all’inizio delle scale e si appoggiò al corrimano. La plastica risultò fredda ma stranamente confortevole… era come imbattersi in un vecchio amico in mezzo a tutta quell’estraneità. Iniziò a salire con cautela gli scalini, un piede dopo l’altro, con le mani ben ferme sulla ringhiera. Gli occhi scrutavano dappertutto, alla ricerca di qualsiasi concepibile pericolo. Ma non appariva nulla. Poi fu preso dall’impazienza e iniziò a salire le scale correndo.

Si fermò finalmente a riprendere fiato al quarto pianerottolo, forse a sedici metri da terra. La porta era ancora lì, ad attendere pazientemente il suo ritorno, ma da quell’altezza sembrava assai più piccola. Si avvicinò alla finestra, guardò fuori e vide

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