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Dipendenza comportamentale. L’illusione della libertà
Una dipendenza eccessiva dal sesso solitario o dall’attività sessuale in generale può non solo indicare un’inadeguatezza adattiva della personalità, ma anche suggerire la presenza di disturbi psichiatrici. Tra l’altro, un aumento del desiderio sessuale potrebbe essere legato a disfunzioni organiche cerebrali. Cosa accomuna il desiderio di ubriacarsi fino allo stordimento, praticare sesso solitario guardando film per adulti, abbuffarsi di dolci fino alla nausea o giocare d’azzardo? Tutti questi fenomeni rientrano nella dipendenza.
La dipendenza è ciò che la società definisce spesso “vizio”, e il vizio, a sua volta, è il tentativo di ottenere piacere immediato attraverso mezzi moralmente condannati. Anche l’ossessione amorosa, con il pedinamento patologico del partner (stalking), il desiderio di possesso assoluto e gli accessi di gelosia, rientrano in una dipendenza di tipo non chimico. Per prima cosa, è necessario esaminare la storia delle dipendenze da sostanze psicoattive, ovvero quelle abitudini umane in cui il piacere è ottenuto tramite un agente esterno, non attraverso uno schema comportamentale.
I sostenitori della teoria dei retaggi evolutivi ritengono che il desiderio umano di bere alcolici possa essere stato utile ai nostri antenati, aiutandoli ad adattarsi a un ambiente ostile, sebbene oggi questa strategia di “bere compulsivo” sia irrazionale.
Tuttavia, beviamo insieme non per dichiararci sentimentalmente innamorati sotto l’effetto dell’alcol, né perché bere da soli sia socialmente inaccettabile (gli alcolisti lo fanno comunque), ma perché è un comportamento radicato nell’evoluzione, come ha scritto il biologo R. Dudley – se avete letto il primo capitolo, sapete di chi parlo. La sua teoria, ovviamente, è controversa e non condivisa da tutti i biologi.
Secondo R. Dudley, beviamo e mangiamo in gruppo, in compagnia, perché – da un punto di vista evolutivo – condividere il cibo con la famiglia, il branco o la comunità è razionale. Nel quadro del processo evolutivo, compiamo ancora oggi, inconsciamente, questo gesto atavico. È come se avessimo bisogno che il nostro branco, la nostra famiglia o tribù sopravvivano.
Evolutivamente, per i primati superiori (gli esseri umani lo sono) bere in gruppo è vantaggioso almeno perché, se ti ubriacavi da solo nell’antichità, un predatore ti avrebbe trascinato via e divorato, mentre attaccare un branco ubriaco non era così semplice. Non esistono prove certe su quando l’uomo abbia iniziato a consumare bevande inebrianti. Nessuno sa come sia cominciato: se abbia trovato per caso un liquido fermentato o abbia imparato a produrlo da frutti fermentati. Ma c’è un’ipotesi curiosa: forse sono state le api ad aiutarlo. È possibile che l’uomo abbia assaggiato l’alcol per la prima volta dopo che un nido d’api, casualmente situato in un tronco cavo, venne distrutto da un temporale. L’acqua allagò il nido, e il miele presente, col tempo, fermentò generando idromele. Ovviamente, questa teoria è credibile quanto il mito africano degli elefanti ubriachi per aver divorato frutti di marula.
Nessuna prova, solo parole. Attiviamo il pensiero logico e la razionalità: affinché un liquido con zucchero e lieviti (come farne a meno?) fermenti e si trasformi in mosto, è necessario collocarlo in un recipiente. Questo implica, per l’uomo, smettere di condurre una vita nomade e stabilirsi in modo sedentario. Forse, quando l’essere umano iniziò a coltivare piante e decise di fermarsi in un luogo, questo primate superiore imparò a produrre bevande vegetali.
Ma anche ragionamenti simili restano ipotesi, per quanto apparentemente logiche, potenzialmente errate. Esiste un’altra teoria alternativa, più plausibile. Nella Turchia moderna sorge l’antichissimo complesso megalitico di Göbekli Tepe. Questo sito templare, risalente a circa 12.000 anni fa (IX millennio a.C.), fu scoperto dagli archeologi già negli anni ’60. Oltre a vari manufatti intriganti, nelle strutture furono rinvenute vasche di pietra, la più grande delle quali ha una capacità di 180 litri. Si potrebbe pensare che gli antichi vi si bagnassero, se non fosse per un dettaglio: le pareti di queste vasche presentano tracce di composti chimici chiamati ossalati.
Chimici che state leggendo, non scandalizzatevi – rivolgete le domande agli archeologi, è la loro ipotesi. Gli ossalati nelle antiche vasche turche potrebbero essersi formati mescolando orzo e acqua per produrre mosto. In sintesi, anche questa teoria manca di prove solide, e possiamo immaginare che a Göbekli Tepe ci si riunisse per bere un’antica bevanda fermentata, antenata della birra. Fantasie? Nessuno ce lo vieta. Una cosa è certa: i Sumeri avevano locali dedicati al consumo di alcol – non sappiamo come li chiamassero – ma basta leggere l’epica sumera per capire che tutti bevevano, con o senza motivo.
Sulle origini della tradizione alcolica europea e del consumo di sostanze psicoattive si trovano approfondimenti negli articoli scientifici del dottore in scienze storiche V. M. Lovčëv, attivista sociale di Kazan’.
Basandosi sulle riflessioni di S. N. Ševerdin, Lovčëv sostiene che quando il lavoro umano iniziò a produrre un surplus grazie alla coltivazione intensiva delle piante, l’uomo cominciò a conservare queste eccedenze, favorendo in alcuni casi la fermentazione dei prodotti. Gettare il surplus era impensabile: il cibo era troppo prezioso per gli antichi, che finivano per consumare le masse fermentate.
In sostanza, è così che l’uomo avrebbe conosciuto l’alcol. Lo storico definisce l’alcol un bug evolutivo – un errore, una casualità nata dal fatto che l’uomo antico, attraverso tentativi ed errori, fece scoperte geniali ma anche altre che influirono negativamente sulla sua specie. Torniamo ai Sumeri. Nella mitologia sumera esisteva la dea Ninkasi, responsabile della birra e delle bevande alcoliche.
Grazie al lavoro della dottoressa in scienze storiche V. Afanas’eva, poetessa e traduttrice dal sumero e dall’accadico, oggi possediamo le parole dell’inno alla dea della birra Ninkasi:
“… Oh, che birra eccellente prepari,Miele e vino mescoli, goccia a goccia versi,O Ninkasi, oh, che birra eccellente prepari,Miele e vino mescoli, goccia a goccia versi…”Qui i Sumeri non possono negarlo: secondo i fatti e le prove, bevevano, producevano birra e vino. Studiando la scrittura sumera come segno di civiltà, oggi sappiamo non solo della loro epopea, ma anche delle ricevute di debito in cui comparivano orzo, oro e persino birra. Una delle prime raffigurazioni di un recipiente per la birra risale al 3200 a.C. circa: aveva una forma conica. Con l’evolversi della civiltà, la rappresentazione del vaso divenne più schematica sui “documenti” d’argilla, trasformandosi in una sorta di icona con due tratti.
Dell’immagine originale non rimase quasi nulla: i tratti si ridussero a una lettera. A proposito, tra i Sumeri fu una donna, Enheduanna, a comporre poesie sull’alcol. Non è chiaro da dove trovasse tutto quel tempo per scrivere, ma forse lo aveva perché era una principessa, figlia del monarca accadico Sargon il Grande. Insomma, dall’antichità al mondo moderno, la trasmissione dei privilegi familiari resta centrale: se oggi un dipendente di un’azienda prestigiosa vi fa entrare parenti o amici, nulla è cambiato dai tempi dei Sumeri.
Enheduanna, figlia del re, fu nominata dal padre sacerdotessa suprema del dio lunare Nanna a Ur. Sargon ebbe una moglie, Tashlultum, che gli diede cinque figli, ma solo Enheduanna scrisse inni appassionati agli dèi sumeri, tradotti in russo da V. K. Afanas’eva.
Secondo O. Dietrich, la produzione di alcolici tra i Sumeri non era destinata alla conservazione, ma a un consumo immediato in grandi quantità durante feste rituali. Questa pratica non era limitata ai Sumeri: i sovrani della valle del Fiume Giallo in Cina, gli Inca in Sud America e altri usarono l’alcol nei festeggiamenti e per scopi politici, come rafforzare legami con governanti vicini. I regnanti cinesi, ad esempio, ricompensavano i sudditi con alcolici per incentivare il lavoro collettivo.
La cultura dei “corporate event” è evidente anche oggi. In alcune realtà si riduce a un sobrio brindisi con champagne in conversazioni formali; in altre, diventa un’orgia alcolica di fine anno, dopo cui i dipendenti ricordano poco la mattina seguente. È improbabile che gli antichi pensassero solo a ubriacarsi: la sopravvivenza e la riproduzione li interessavano più dell’alcol. Tuttavia, il desiderio di alterare lo stato di coscienza è radicato nella specie umana da millenni. Nell’antichità, il consumo di alcol era rigidamente ritualizzato e controllato dalle autorità.
P. Dauti osserva che nella società peruviana moderna il consumo collettivo di alcol accompagna progetti ambiziosi: poiché il sistema salariale è inefficace, la tradizione del “lavoro festivo” è uno dei pochi modi per portarli a termine. Fin dall’antichità, organizzare banchetti con abbondanti bevute è stato un privilegio dei ricchi e dei benestanti. Siate onesti: una persona al bar che paga da bere a tutti i clienti, non vi sembra facoltosa? Cosa è cambiato? Nelle culture polinesiane e figiane esiste una bevanda alternativa all’alcol, dotata di un lieve effetto narcotico: la kava. Attenzione a non confonderla con lo spumante spagnolo omonimo.
La kava consumata dai polinesiani viene utilizzata in rituali formali e incontri informali. Non è allucinogena, ma contiene principi attivi come flavokavine e kavalattoni, che agendo sul sistema limbico inducono sonnolenza e rilassamento. Dopo l’assunzione, si prova euforia, una piacevole sensazione di disinibizione durante le interazioni sociali, seguita – a seconda della quantità consumata – da un sonno profondo.
La parola kava deriva dal proto-oceanico kavari, che significa “radice amara”. In origine, il termine indicava lo zenzero zerumbet (Zingiber zerumbet), usato come sostanza tossica per la pesca. Nelle isole Figi, il consumo cerimoniale della kava è riservato agli uomini. Seduti in cerchio in base al loro status, si passano una ciotola con la bevanda. Questo rituale non solo unisce la comunità, ma ribadisce la posizione sociale di ciascun partecipante.
Dal punto di vista culturale, alcol e sostanze psicoattive hanno sempre avuto un ruolo simbolico nello sviluppo storico. L’alcol, in particolare, è stato caricato di significati profondi: storicamente, l’ubriacatura aveva motivazioni precise, e le bevande alcoliche fungevano da collante per negoziati di ogni livello, strumento per enfatizzare status e gerarchie.
Ogni sostanza alterante è stata utilizzata nella storia come un’“arma” con obiettivi specifici: personali (cambiare la coscienza) o sociali (rafforzare legami, siglare alleanze, avviare o concludere progetti, conflitti, guerre).
L’uomo moderno, oggi, non ha ancora superato il fascino dell’estasi chimica. Il piacere fine a se stesso non è sempre accettato dalla società, e giustificare gli eccessi è complesso a causa delle gravi conseguenze del consumo di alcol e sostanze psicoattive. Nonostante un consumo minimo di vino possa sembrare sicuro, l’opzione più prudente rimane l’astensione totale. Gli effetti collaterali anche di dosi minime di alcol, validate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono significativi: incidenti stradali, decessi per infarto, danni epatici, degenerazione neuronale e alterazioni decisionali. Tuttavia, anche il proibizionismo ha i suoi costi.
Nel 1914, lo zar Nicola II introdusse nell’Impero Russo un decreto che vietava produzione e vendita dell’alcol, provocando un’impennata della tossicodipendenza, con morfina e cocaina divenute accessibili alla popolazione.
Nel 1982, sotto il regime sovietico, attivisti anti-alcol fondarono a Mosca la Società per la Lotta contro l’Alcolismo. Simili organizzazioni sorsero in 103 città russe, promuovendo manifestazioni, cortei e comizi con slogan su striscioni. Nello stesso anno, i comitati esecutivi locali iniziarono ad adottare risoluzioni contro l’alcolismo.
A Leningrado, nell’agosto 1982, fu vietata la vendita di alcolici nei giorni festivi. Entro fine anno, il Consiglio di Mosca decise di ridurre la distribuzione della vodka nel Paese. Nel 1985, le scene di consumo alcolico vennero censurate dai film sovietici, e gli alcolici furono venduti solo in negozi dedicati, dalle 14:00 alle 19:00.
I risultati della campagna contro l’alcolismo domestico e l’abuso di alcol portarono a un’impennata del mercato nero nel Paese. Un lavoratore su dieci nel settore commerciale fu accusato di speculazione.
Oltre 55.000 persone furono sanzionate per vendita illegale di alcolici, mentre aumentò vertiginosamente la domanda di colonie, zucchero e prodotti alcolici. Davanti ai negozi scoppiavano spesso risse per accaparrarsi i beni. La popolazione iniziò a produrre clandestinamente samogon (distillato casalingo) e a consumare droghe.
Nel Paese, circa 11.000 persone morirono per intossicazione da samogon o sostanze stupefacenti. Tra il 1985 e il 1987, il numero di tossicodipendenti crebbe, e dopo il crollo dell’URSS, con l’arrivo dei turbolenti anni ’90, esplose il consumo di droghe e sostanze tossiche tra bambini e adolescenti.
A. Ju. Kombarova, nella sua ricerca, sottolinea che il picco della tossicodipendenza in Russia fu una conseguenza delle riforme liberali post-sovietiche. Legalmente, per “narcotico” si intende una sostanza sintetica o naturale, nonché preparati sottoposti a controllo nella Federazione Russa, in base alla legislazione vigente.
Si potrebbe concludere qui la storia di alcol e droghe, ma non è la fine. Nel 1990, in Russia arrivò Internet. La rete russa si chiamava Relcom, la popolazione iniziò a dotarsi di computer, e la dipendenza da sostanze psicoattive e alcol fu affiancata da una nuova forma di addiction. Quest’ultima si cristallizzò in uno schema comportamentale specifico, trasformandosi in una dipendenza non chimica.
Ancora oggi non è chiaro quale sia più distruttiva per l’umanità: la dipendenza chimica o quella comportamentale.
Internet è ormai parte integrante della vita umana. Oggi la digitalizzazione è percepita positivamente, poiché la rete è un’enciclopedia di tutto ciò che esiste (e non esiste) per le menti curiose.
Tuttavia, Internet è un Giano bifronte, capace di erodere la qualità della vita moderna. Nella sua monografia scientifica sulle dipendenze non chimiche, A. Ju. Egorov sottolinea che la dipendenza da Internet (netolismo) si è radicata nella società moderna – adulti, adolescenti e bambini – non perché oggi tutti possiedano un laptop o un computer, ma a causa dell’uso della rete tramite dispositivi mobili.
E il gadget mobile non è solo un mezzo di comunicazione, ma uno strumento che genera cambiamenti nelle interazioni umane e nel rapporto tra l’individuo e il mondo esterno. Le persone che si rivolgono a psicologi, psicoterapeuti e terapeuti cognitivo-comportamentali per problemi psicologici spesso lamentano, in sottofondo, un desiderio ossessivo di comunicare su messaggistica e social network, di controllare continuamente nuovi messaggi sul telefono, comportamenti che rubano tempo ed energia.
Dagli schermi dei dispositivi, i social media promuovono una romantizzazione delle relazioni, uno stile di vita spensierato e felice, il successo personale, canoni di bellezza femminile legati alla cosmetica moderna, corpi magri e “sani”. Questa esposizione costante a come “si dovrebbe vivere oggi” agisce su tutte le generazioni in modo più profondo ed efficace della pubblicità in TV o sui media tradizionali.
Tuttavia, questa rappresentazione ossessiva di successo, felicità e perfezione sta portando sempre più spesso a depressione, nevrosi, disturbi del rapporto con il proprio corpo, con l’aspetto fisico e con gli altri. La personalità umana è una struttura fragile.
Manifestazioni estreme d’amore, rapporti sessuali casuali, passione per lo shopping, desiderio di arricchirsi rapidamente con lotterie e casinò virtuali illegali, diete estreme che sfociano in disturbi alimentari, la corsa al piacere attraverso lo sport, persino la lettura compulsiva di libri o la visione “bulimica” di serie TV sono oggi terreno fertile per lo sviluppo di dipendenze non chimiche. Che meccanismo è mai questo, che intrappola l’uomo in comportamenti addictivi, sia che la causa sia una sostanza chimica o un film per adulti?
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