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Tranquilla Cittadina Di Provincia
YOGA IN SPIAGGIA
Fare Yoga è un'attività sana e rilassante, che fa bene al
fisico e all'umore.
A ciò aggiungete quanto benessere si può ottenere facendo Yoga in riva al mare, accompagnati dal rumore dell'acqua, potendo respirare aria sana e ricca di Iodio, che aiuta a combattere raffreddori e allergie.
Sotto la sapiente guida della nostra Baywatch Maria Lucia Brandi, le sedute si terranno nell'apposita area, a debita distanza dagli ombrelloni e dai capanni, al fine di
garantire la tranquillità necessaria.
I più tecnologici potranno portare con sé il tappetino Yoga Hi-Tech, in vendita anche presso il nostro stabilimento alla modica somma di € 50,00; gli altri potranno scegliere tra il tappetino classico o un asciugamano da mare, per una seduta Yoga in versione vacanziera.
Il ventenne compagno di Maria Lucia era obbligato a partecipare a ogni seduta di Yoga, ma non solo. Nelle giornate in cui queste non erano previste, la bagnina faceva almeno un'ora e mezzo di intensa attività fisica in spiaggia per mantenere in forma il suo fisico, e Giacomo era costretto suo malgrado a fare altrettanto: corsa sulla sabbia, flessioni, esercizi e infine una nuotata in acque profonde fino allo stremo delle forze. Più di una volta il ragazzo, che non era un provetto nuotatore, aveva rischiato l'annegamento, ed era stato tratto in salvo dalla sua compagna, che non aveva risparmiato battute sarcastiche nei suoi confronti. E dopo tutto questo, il povero Giacomo doveva soddisfarla anche a letto, e certe sere non era proprio facile saziare l'intenso appetito sessuale di lei, che poteva arrivare alle prime luci dell'alba ancora in preda alle voglie di carezze, baci e amplessi, per dormire appena un paio d'ore e affrontare la nuova giornata più in forma che mai.
Giacomo poteva avere una nottata di tranquillo riposo solo quando la sua donna si dedicava all'altra sua passione, che non voleva condividere con nessuno, se non con altri graffitari come lei. Era una trasgressione che la eccitava in modo particolare e a cui si dedicava, per lo meno in estate, una o due volte a settimana, più di rado in inverno. Quando Giacomo vedeva la sua compagna prepararsi per la notte brava, un po' provava gelosia per essere escluso dalla cosa, ma d'altra parte era felice di poter dormire tra quattro guanciali dalle undici di sera fino alla mattina successiva.
La preparazione per l'uscita era un rito, che si ripeteva ogni volta uguale. Maria Lucia indossava solo un camice bianco allacciato sul davanti, dalla lunghezza che arrivava circa a metà delle sue cosce, di solito nude. Solo se la notte si preannunciava fredda indossava anche un collant. Chiudeva solo i bottoni centrali del camice, lasciando slacciati sia quelli in alto che quelli in basso, in modo che, in base ai suoi movimenti, venissero ogni tanto messi in mostra cosce e seni prosperosi. Nella sacca, oltre le bombolette di vernice spray, inseriva due pacchetti di sigarette. Non era una fumatrice, anche perché, come convinta salutista, di regola non fumava, ma quando era in un sottopassaggio della ferrovia o in una fabbrica semi abbandonata per realizzare i suoi graffiti, non poteva fare a meno di accendere una sigaretta dietro l'altra. Fumare l'aiutava a scaricare la tensione nervosa, dovuta alla paura che da un momento all'altro potessero giungere le forze dell'ordine ad arrestarla, nonché a favorire la concentrazione sull'opera che stava realizzando.
Quella notte, lei e gli altri due Writers, di cui non conosceva neanche i nomi, dai volti coperti da fazzoletti, che lasciavano scoperti solo gli occhi, avevano preso di mira un vecchio insediamento industriale abbandonato a Porto Recanati. Una struttura in disuso da almeno due decenni, un tempo una fabbrica di fertilizzanti chimici, un orrore architettonico, un mostro di cemento armato che nessuna autorità si voleva prendere la bega di demolire o recuperare. Il senso dei graffiti che avrebbero disegnato era quello di stimolare qualcuno a prendere il coraggio di fare un progetto di recupero di quell'area degradata. I primi chiarori dell'alba erano già evidenti a est, quando Maria Lucia decise di salire in cima a una scala allungabile per dare il tocco finale alla sua opera. In cima alla scala, tirò fuori l'ennesima sigaretta, una delle ultime del secondo pacchetto, e fece per accenderla con la cicca di quella che stava finendo di fumare. Nel fare questo gesto perse l'equilibrio, e cadde al suolo dopo un volo di circa tre metri. Fortunatamente, la caduta fu attutita dal fatto che in quel punto non c'era più la pavimentazione in cemento, che era stata sostituita da terriccio e sabbia e vi era cresciuto un abbondante strato d'erba. Ma si era slogata una caviglia e la spalla destra le faceva un male terribile. I due writers che erano con lei si resero conto, dalla deformità della parte, che la spalla era lussata. La loro amica doveva essere condotta al pronto soccorso. Ma come fare? Vestita così sarebbe stata scambiata come minimo per una prostituta, e Luca e Damiano appartenevano a famiglie in vista della zona. Erano infatti figli di importanti imprenditori locali, che non avrebbero certo gradito il coinvolgimento dei loro pupilli in certe storie.
Luca si tolse il fazzoletto che nascondeva gran parte del volto e si rivolse al suo amico.
«Occorre un piano per venirne fuori puliti. Cerchiamo di portarla fino alla strada, vicino alla nostra auto. Intanto mi farò venire un'idea.»
Presero Maria Lucia sottobraccio, uno per lato, e pian piano riuscirono a condurre la loro amica zoppicante e dolorante fino in prossimità della loro lussuosa auto, una Mercedes station wagon.
«Tu vai a recuperare la scala e ripulisci il luogo», disse Luca, rivolto all'amico. «Non dobbiamo lasciare tracce della nostra presenza. Io penso a lei.»
A Luca piaceva molto il viso di quella donna, che non mascherava mai con il fazzoletto per il fatto che mentre creava graffiti fumava in continuazione, ma non aveva mai osato sfiorarla neanche con un dito. Adesso che era lì solo con lei a terra inerme, provava desiderio nei suoi confronti, desiderio che non avrebbe potuto di sicuro soddisfare in quel frangente. Luca prese qualcosa in macchina e si accese una sigaretta. Poi istruì Maria Lucia.
«È chiaro che tu non ci conosci, non ci hai mai visti prima d'ora. Dovrò farti soffrire ancora un po', anche se me ne dispiace.»
Soffiò sulla parte accesa della sigaretta a ravvivarne la brace, poi l'avvicinò alla pelle della ragazza e le provocò alcune scottature. Le tenne una mano sulla bocca a evitare che emettesse urla, ma Maria Lucia seppe resistere e non emise che qualche sommesso mugolio. Dopo di che le strappò le mutandine. Poi preparò la droga. In auto aveva sempre ben nascosta una piccola riserva di eroina pura, che aspirò in una siringa da insulina.
«Eri da sola a disegnare graffiti. Tre sconosciuti, con i volti coperti, hanno tentato di violentarti, ti hanno somministrato droga, ti hanno scottato con le sigarette, ti hanno strappato di dosso le mutande. A un certo punto sei riuscita a scappare e raggiungere la strada, barcollando in preda ai fumi della droga. Un'auto è sopraggiunta, ti ha investito e l'autista non si è fermato. Sei stata presa dalla fiancata dell'auto solo di striscio, cosicché hai riportato lievi lesioni. Io e Damiano siamo sopraggiunti in seguito, ti abbiamo visto in terra e ti abbiamo soccorso, non ci avevi mai visto prima.»
Mentre diceva queste parole, finì di inocularle la droga. Maria Lucia fece cenno col capo di aver capito e scivolò non nel sonno, ma in uno stato di oblio provocato dall'eroina. Luca era molto eccitato e avrebbe desiderato approfittare di quello stupendo corpo, prima di prendere il cellulare e chiamare il 118.
«Un'occasione simile non si presenterà più», pensò. «Del resto, se trovassero tracce di sperma, sarebbe avvalorata la teoria dello stupro.»
Già stava per slacciarsi i pantaloni, quando si diede del deficiente.
«Un'eventuale prova del DNA potrebbe incastrarmi, stupido che sono!»
Diede il tocco finale alla sua improvvisata opera d'arte strappando un bottone al camice di Maria Lucia, in modo che uno dei seni rimanesse bene in evidenza. Poi raccolse mutandine, bottone e cicca della sigaretta che aveva fumato, e infilò il tutto dentro un piccolo sacchetto di plastica che andò a nascondere nel vano della ruota di scorta della Mercedes. Mentre chiamava i soccorsi con il cellulare, ricomparve Damiano, che ripose la scala, dopo averla accorciata completamente, infilandola nell'auto attraverso il portellone posteriore. Quando vide come Luca aveva conciato la ragazza, impallidì e per poco non svenne. Luca lo rassicurò e istruì anche lui su come doveva essere raccontata la versione dei fatti.
«Lascia parlare me, e limitati a confermare quanto io dirò. Andrà tutto bene, vedrai!»
Nel giro di qualche minuto giunse l'ambulanza, seguita a breve da una pattuglia della polizia. Gli agenti riconobbero i ragazzi che, una volta liberatisi delle tute sporche di vernice, erano comuni ragazzi di famiglie bene, vestiti in polo Lacoste e Jeans Giorgio Armani, come qualsiasi ragazzo del loro giro che esce d'estate, un'estate che peraltro stava ormai volgendo al termine, per passare la serata in qualche locale della riviera. I ragazzi raccontarono quanto stabilito e si fecero sottoporre alla prova del palloncino con tutta tranquillità.
«Ok, ragazzi, il vostro tasso alcolico è a posto e non siete fatti di droga. Credo proprio che abbiate fatto il vostro dovere soccorrendo questa poveraccia», disse uno dei due poliziotti. «Andate a casa ora, ma presentatevi domattina in Questura per la vostra deposizione. Chiedete del Dottor Olivieri, che vi prenderà a verbale.»
Stavano per risalire in auto, quando uno dei due agenti notò la scala all'interno della Mercedes.
«Cosa ci fate con quella?»
A Damiano il cuore fece un tuffo. Non era bravo a improvvisare scuse e a imbastire bugie. Sentiva che quei due agenti li avrebbero potuti smascherare in un millesimo di secondo.
«Nulla di particolare, agente. Abbiamo organizzato una festa di compleanno a casa di un nostro amico, e ci è servita per metter su i festoni decorativi», fu svelto a rispondere a tono Luca.
Dopo quella notte non avrebbero mai più incontrato Maria Lucia. Damiano e Luca si diressero a casa, mentre la pattuglia, a lampeggianti accesi, raggiunse rapidamente il Pronto Soccorso dell'Ospedale Regionale di Ancona.
Erano le dieci della mattina successiva quando Maria Lucia riprese conoscenza in un letto della divisione di Ematologia della Clinica Universitaria presso l'Ospedale Regionale di Ancona, un enorme complesso che accoglie anche la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Politecnica della Marche. La spalla era dolorante, ma era stata sistemata e le era stato applicato un tutore, mentre alla caviglia aveva una benda elastica. Quello che la ragazza non si spiegava era perché fosse stata ricoverata in quell'ambiente asettico, con un'infermiera al suo fianco pronta a cacciarle almeno un litro di sangue con una siringa enorme, piuttosto che nel reparto di ortopedia, come sarebbe stato ovvio. Non era la vista della siringa che la rabbrividiva, ma il segreto che poteva essere svelato dall'esame del suo sangue e di cui sapeva di dover essere custode.
«Mi oppongo al prelievo. Sono una testimone di Geova», si inventò sul momento. «Togliendo del sangue dal mio corpo se ne andrebbe parte del mio spirito.»
«Balle!», replicò un giovane medico appena entrato nella stanza. «È la prassi. Dobbiamo verificare che tipo di droghe ti sono state somministrate. E inoltre abbiamo bisogno di tutti i tuoi parametri ematici, per poterti curare a dovere.»
Così dicendo fece un cenno a un infermiere dall'enorme stazza, dai folti capelli e la barba nera, il quale immobilizzò la donna con le sue possenti braccia, al fine di permettere alla sua collega di eseguire il prelievo.
«Voglio fare una telefonata. Ho il diritto di fare una telefonata. Datemi il mio cellulare.»
«Io faccio solo il mio dovere. La polizia è qui fuori della porta. Fra pochi secondi ne parlerai con gli agenti», fu la secca replica del giovane medico.
Il Dottor Giannini strappò di mano la provetta all'infermiera e si precipitò in laboratorio, preparò degli strisci su alcuni vetrini e allestì alcune colorazioni. Mise poi l'unico vetrino non colorato sotto la lente del microscopio per osservarlo a fresco.
«È incredibile! È pieno di nanomacchine, di nanobot che si muovono in maniera autonoma, come se fossero dotati di un motore proprio. Da quello che ho appreso fino a oggi, a questi risultati non si sarebbe potuti pervenire se non fra altri due decenni. Il Professor Whu, all'ultimo convegno di Zurigo sulle nanotecnologie, è stato chiaro e ha parlato del 2029 come data possibile per poter vedere qualcosa di simile. E invece...»
In pochi istanti realizzò quanto doveva fare. Innanzitutto chiamò il tecnico di laboratorio che lo aveva avvertito di aver osservato quegli strani corpuscoli nello striscio di sangue mandato dal Pronto Soccorso la notte precedente.
«Mio caro Sergio, ti chiedo un favore», e mentre parlava compilava un assegno con su scritta la somma di diecimila Euro. «Tu non hai mai visto niente su quel vetrino. Dammi la tua parola e scriverò il tuo nome su questo assegno. Hai tutto da guadagnare, soprattutto se non vorrai farmi domande. In più posso farti un'altra promessa... Tu sei laureato in Biologia, e lavori qui come tecnico di laboratorio, ruolo molto inferiore a quello a cui potresti aspirare. Fra tre mesi ci sarà il concorso per il Dottorato di Ricerca e io sono in commissione, credo che potresti partecipare e anche risultare il vincitore!»
Sergio, che non poteva riuscire a capire il senso della sua scoperta, né quanto potesse valere in soldoni, anche se di sicuro era molto più di quanto il suo superiore gli stava offrendo, pensò a sua moglie, ai suoi due pargoli, al mutuo della casa, al miserevole stipendio che percepiva a fine mese, e annuì col capo, accettando l'offerta. Afferrò l'assegno e se ne andò con la coda tra le gambe.
Fin qui era stato facile. Ma adesso doveva agire con la massima circospezione, appropriandosi della cartella clinica della Brandi, che doveva trafugare dallo studio del suo primario, ma soprattutto mettendosi in contatto con il Professor Whu senza lasciare tracce evidenti. Era certo che la sua scoperta sarebbe stata apprezzata e pagata profumatamente dal professore giapponese.
Facendo un rapido calcolo, si rese conto che in quel momento in Giappone erano le sette di sera. Se fosse stato fortunato avrebbe trovato ancora il Professore in clinica. Aveva i suoi numeri, sia quello privato, che quello diretto del suo studio al ventitreesimo piano della clinica Hirohito di Kyoto. Ma come chiamarlo? Inoltrare la chiamata dal cellulare avrebbe significato, oltre la spesa non indifferente, lasciare una traccia indelebile sui tabulati della sua utenza mobile. Dal centralino dell'Ospedale, pensò, partivano ogni giorno centinaia di telefonate dirette ad altre cliniche sparse in tutto il mondo, e sarebbe stato molto difficile individuare la sua telefonata in mezzo alle altre, se a qualcuno fosse venuto in mente di farlo. In fin dei conti, una consulenza telefonica con un luminare di un'altra nazione, rientrava nei costi e nella normale routine della ricerca scientifica. Piuttosto che comporre il numero, dovendo farlo precedere dal suo codice personale, decise di far lavorare il centralinista.
«Devo chiamare l'Ospedale di Kyoto per conto del primario, il Professor Gabrielli.»
«Un interno in particolare?»
«No, chiami il centralino e passi la linea nello studio del Professore.»
Il Professor Gabrielli era in visita in quel momento. Non appena sentì squillare il telefono nella stanza del primario, digitò un codice sulla tastiera del suo apparecchio telefonico, in modo tale da riprendere la telefonata dal suo studio. Un piccolo trucco per mescolare un po' le carte.
Alla voce che rispondeva in un incomprensibile giapponese, il Dottor Giannini oppose una frase in Inglese.
«I'd like to speak with Professor Whu.»
La voce a migliaia di chilometri di distanza si adeguò alla lingua con cui veniva apostrofata, e rispondeva nel medesimo idioma, con accento diverso a quello con cui aveva parlato l'italiano, ma comprensibile alle orecchie di quest'ultimo.
«Dai tabulati delle presenze, vedo che il professore ha passato il badge in entrata questa mattina alle otto e non è ancora uscito dall'ospedale. Provo a passarglielo.»
«L'efficienza giapponese!», pensò il medico italiano. «Se fossi stato io qui alle sette di un sabato sera, nessun centralinista al mondo mi avrebbe inoltrato una chiamata.»
Dopo qualche secondo di attesa con il sottofondo di una nenia giapponese, il Professore rispose.
«Hallo?»
«Professor Whu? Sono il Dottor Marco Giannini, dall'Italia. Ci siamo conosciuti all'ultimo convegno di Zurigo sulle nanotecnologie applicate alla medicina. Ricorda?»
«Oh, come no? Il bamboccione italiano!» Il professore parlava l'idioma italico, ma utilizzava alcune parole pensando che suonassero bene e dessero colore al discorso, senza neanche immaginarne il loro significato offensivo.
Il Dottor Giannini gli espose a grandi linee la sua scoperta.
«Sei il solito cazzone. Vuoi farmi credere che i nanobot presenti nel sangue di quella donna sono capaci di utilizzare l'idrogeno, ricavato dall'acqua presente nei liquidi organici, come propulsore per spostarsi in maniera autonoma da un sito all'altro dell'organismo? Fantascienza pura! E chi ce li avrebbe messi dentro il corpo della tua paziente, E.T. in persona, per caso? Possiamo concludere qui il discorso, mio caro mangiaspaghetti!»
«Aspetti, professore. Ho ottenuto un video al microscopio elettronico e glielo invierò via e-mail. Ma quello che è più sorprendente è che al pronto soccorso alla paziente hanno riscontrato scottature provocate da sigarette. Quando l'ho esaminata io, solo dopo poche ore, la pelle della donna era del tutto integra, non c'era alcuna traccia di scottature o lesioni di sorta.»
Il professore cominciò a cambiare atteggiamento nei suoi confronti.
«Vorrei esaminare la paziente di persona. Prenderò il primo volo per l'Italia e sarò lì domani in serata. Tu devi solo fare in modo che la donna non lasci l'ospedale!»
«Non so se ci riuscirò. Se la Polizia non ha motivi per trattenerla e la Brandi si riprende bene, in giornata sarà dimessa...»
«Falla trattenere, corrompi i poliziotti, so che in Italia non è difficile. Io arrivo prima possibile.»
Il professore chiuse la comunicazione.
«Chissà perché all'estero credono che siamo tutti mafiosi», pensò Marco tra sé e sé. «Però qualche aggancio in Questura lo ho. Tentar non nuoce.»
Chiamò la Questura e si fece passare la sovrintendente Gualandi, una sua vecchia fiamma dei tempi del liceo.
1 FESTA IN VILLA
28 Maggio 2010
Le sette di sera di un tranquillo venerdì di fine maggio. Avevo finito di impartire le ultime raccomandazioni alla baby-sitter, una giovane studentessa universitaria, che all'apparenza tutto sapeva fare tranne che trattare con i bambini, mentre Stefano stava tirando fuori dalla rimessa l'auto di lusso, una Mercedes classe E berlina color grigio metallizzato, tutta tirata a lucido.
Al suono del clacson, mi affrettai a congedare la ragazza e precipitarmi in cortile.
«Questi consessi mondani sono una cosa che odio», disse Stefano, concentrato sulla guida. «Come odio quest'auto, che dovrebbe rappresentare lo status symbol di una certa categoria sociale, costituita da professionisti e piccoli imprenditori, che devono apparire in società più che essere apprezzati per come svolgono il loro mestiere. Anche se appartengo alla stessa categoria, sai bene che non mi ci trovo in mezzo a loro. Stasera ci sarà tutta l'élite della città, immagino, a partire da Sindaco e Assessori vari, alcuni noti avvocati, alcuni baroni della medicina, il Notaio Criscuoli, e via dicendo.»
Mentre parlava, prese una strada a senso unico che costeggiava le antiche mura medioevali della città, in salita per la Costa del Montirozzo, per sboccare poco più a valle di Porta Bersaglieri, dove, in dei piccoli giardinetti, trovava posto il monumento dedicato a Federico II di Hohenstaufen. Imboccò poi Via Bersaglieri e da lì si portò in Via Nazario Sauro per proseguire in Via Mura Occidentali. In un punto in cui la strada correva a ridosso delle mura castellane, notai dei lavori. Era stato aperto un varco a forma di arco nelle mura, gli antichi mattoni erano stati accatastati su un lato, e intorno all'apertura si notavano dei tubi corrugati di plastica, di quelli per far passare i cavi dell'elettricità. Un tabellone indicava estremi della concessione edilizia, inizio e termine dei lavori e ditta appaltatrice, riportando a caratteri cubitali il nome del progetto: VIVERE IL CENTRO STORICO.
Mi rivolsi al mio compagno, chiedendo lumi.
«È un vero scempio. Cosa diavolo ci vogliono realizzare?»
«Una scala mobile, o un ascensore, credo, per raggiungere con facilità Piazza Federico II, attraverso il vecchio Palazzo Pianetti, che fino a qualche decennio fa ospitava le carceri. Solo che è tutto fermo perché subito dietro le mura hanno trovato dei reperti archeologici che risalgono all'epoca romana. E non è stato scoprire l'acqua calda! La parte storica di questa città sorge esattamente sopra il tracciato del Castrum realizzato dai Romani, che giunsero qui circa nel 300 Avanti Cristo, dopo aver sconfitto la coalizione di Umbri, Etruschi e Sanniti nella battaglia del Sentino. Proprio in questa zona, in prossimità del complesso di San Floriano, c'era un'enorme cisterna per l'approvvigionamento idrico della città di Aesis. La cisterna funzionava da riserva d'acqua anche per le Terme, che erano situate nella zona compresa fra Piazza Federico II e Porta Bersaglieri. Ancora oggi la zona è individuata da due strade che si chiamano, per l'appunto, Via delle Terme e Vicolo delle Terme.»
«È incredibile come queste cose le sai benissimo tu, mentre sembra che i progettisti dell'ascensore ne fossero del tutto all'oscuro.»
Stefano sospirò, cercando di defilarsi dal fare troppi commenti.
«Caterina, dietro tutto questo c'è sempre la politica. Non sappiamo quali siano le motivazioni che hanno portato l'amministrazione comunale ad approvare questi lavori, ma di sicuro ci sarà stata una bella discussione in consiglio comunale. Molti degli assessori e il sindaco sono miei amici fin dai tempi dell'infanzia e ti assicuro che hanno fatto e stanno facendo un buon lavoro, anche se a volte non tutta la popolazione apprezza il loro operato. Non è detto comunque che tra gli amministratori ci sia qualcuno che, sapendo comunque cosa ci fosse là sotto, ha favorito l'appalto per favorire un sostenitore della sua fazione politica, che al momento opportuno gli porterà voti. Oppure ci può essere qualche gioco legato alle parentele.»
«Già, finita tangentopoli, adesso c'è parentopoli», sorrisi a denti stretti della mia battuta.
«Beh, così com'è, non è bello da vedersi come spettacolo, ma dovremmo capire come sarà recuperata l'area a lavori finiti. E comunque adesso il cantiere è sigillato e i lavori sospesi.»
Accettai le spiegazioni del mio compagno, anche se il mio istinto mi faceva pensare a possibili appalti truccati e tangenti. Ma, pensai, ero la solita esagerata.
Tra una chiacchiera e l'altra avevamo raggiunto Villa Brandi e Stefano aveva parcheggiato la sua auto a fianco di altre non meno lussuose, tra una Lancia Thesis nera e un'Alfa 169 blu notte.
Ammirai la parte esterna della villa alla luce di uno splendido tramonto, un'enorme costruzione su tre livelli, circondata da un parco, dipinta di fresco in rosso mattone. Lampioncini in stile antico, disposti in posizione strategica, erano già accesi nonostante ci fosse ancora la luce del giorno. Una sontuosa scalinata conduceva all'ingresso principale, che era situato al primo livello sopraelevato. Da un ampio ballatoio, attraverso un grande portone, si entrava in un atrio e quindi in un enorme salone, illuminato da un incredibile lampadario arricchito da migliaia di cristalli Swarovski. Al piano terra c'erano le cucine e gli eventuali alloggi per il personale, mentre al piano superiore erano state realizzate le camere da letto, per la famiglia e per gli eventuali ospiti. Prima di entrare, dal ballatoio situato avanti all'ingresso principale, gettai lo sguardo verso il cortile e notai che la recinzione della dimora, nello stesso stile e dal muretto dello stesso colore della villa, circondava completamente la proprietà, ma in un punto, sulla parte anteriore, presentava una strana rientranza, in corrispondenza della quale, all'esterno, era presente un grande pozzo.