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Le Tessere Del Paradiso
Vittore, d’altro canto, ritenne dapprima innocue le timide visite di Naila al mercato, e successivamente, ormai preso da quella costante presenza, non seppe né volle più respingerle in cuor suo.
Così Naila imparò a disfarsi della presenza della serva e Vittore cominciò ad invitare la sorella dell’eunuco del Re ad incontrarsi in luoghi più appartati e ad orari in cui era più difficile essere visti.
I primi giorni di novembre la coscienza di Naila parlò poi per la prima volta al suo buon senso. Fu allora che comprese che la presenza dei cospiranti in casa sua avrebbe potuto minacciare la vita di Vittore e che l’amore con l’uomo delle conchiglie avrebbe potuto compromettere la posizione di Amjad tra coloro che seguivano la rivolta. Decise perciò di disfarsi della cosa a cui le era più facile rinunciare e pose fine alle riunioni del fratello. Tuttavia, nascondere qualcosa a Palermo, città in cui a tutte le ore e i luoghi vi erano occhi indiscreti ed orecchie testimoni, era impossibile… Le cose erano andate storte e l’amore di Naila e Vittore aveva innescato la gelosia di Amjad.
Capitolo 13
Notte del 10 Novembre A.D. 1160, Balermus
Ignaro di quale sorte fosse toccata alla sua amata, Vittore fece un passo avanti verso Majone e richiese:
«Vostra Eccellenza, il greco ci ha a lungo pregato di lasciarlo andare; che avremmo riscosso da lui la nostra ricompensa. Tuttavia a noi è parso giusto onorare la legge del nostro rispettato Ammiraglio.»
Majone finì di guardare Alessio scomparire dietro l’angolo, dunque sorrise e rispose:
«Perché me lo dite? Non è stato forse il vostro dovere?»
«Anche gli uomini in armi di Sua Maestà assolvono il loro dovere, tuttavia ricevono il soldo.»
A ciò Majone, stizzito, guardò i suoi, i quali intanto si erano avvicinati al suo livello.
«Il nostro amico chiede il soldo dei mercenari!» esclamò, rivolgendosi proprio agli uomini della sua guardia personale.
Majone era molto nervoso… a giudizio di chi lo conosceva da vicino, più del normale.
«Chiediamo solo l’offerta dei poverelli…» spiegò Mamiliano, volendo correggere il tiro di Vittore.
«L’offerta dei poverelli…» ripeté Majone, sorridendo a sprezzo di quell’affermazione.
L’Ammiraglio tirò fuori dalla tasca una manciata di monete d’oro e d’argento e le gettò oltre i suoi interlocutori, proprio nel bel mezzo dell’incrocio.
Uno della combriccola del porto si mosse per andare a raccattare quel denaro, ma Vittore lo trattenne prontamente per un braccio e commentò serio:
«Non mi sono mai inchinato a raccogliere l’elemosina di nessuno! Ma avete ragione… consegnare quell’uomo era nostro dovere.»
Dunque il venditore di conchiglie concluse piegando un ginocchio e accennando un inchino.
«Vostra Eccellenza…» salutò infine prima di congedarsi.
«Te l’avevamo detto che non avremmo dovuto avere a che fare con l’Ammiraglio.» commentò Duccio a bassa voce non appena ebbero girato le spalle.
Vittore intanto stringeva i pugni.
«Pagherò vostra sorella… Vittore, venditore di conchiglie!» urlò uno di quelli che stava accanto a Majone, uno che evidentemente conosceva il mercato del porto.
L’obiettivo dell’Ammiraglio era quello di umiliare coloro che recalcitravano alla sua imposizione di potere; ora lasciava perciò che uno dei suoi insultasse colui che si era mostrato più coriaceo. Majone si defilava e si dirigeva verso il suo cavallo, mentre alcuni del suo seguito si avvicinavano minacciosi ai compari del porto.
«Non hai sentito, pescivendolo? Pago tua sorella!» urlò ancora quello che aveva cominciato.
Vittore si fermò.
«Lo ammazzo!» sentenziò a bassa voce.
«È già tanto che ti sia andata dritta con quell’eunuco. È già tanto che non ti abbia mandato gli uomini del Re.» disse la sua Mamiliano.
Dissuaso dai suoi amici Vittore riprese il passo.
«Sappiamo dove abiti.»
Udita l’ultima frase, Vittore si voltò e, comprendendo che non avrebbe risolto nulla con l’indifferenza, chiese:
«Che cosa volete da me?»
«Non potete rifiutare il dono di Sua Eccellenza. Raccogliete quelle monete e ringraziate la mano che ve le ha concesse.»
Vittore sapeva che dopo quel gesto l’Ammiraglio e la sua guardia più fidata ne sarebbero usciti soddisfatti, nondimeno una forza più grande di lui gli impediva di piegarsi.
«È davvero poca cosa.» incoraggiò qualcuno tra i pescivendoli.
«Se la prenderanno con la tua famiglia.» aggiunse Duccio.
Vittore emise un lungo respiro e commentò bassa voce:
«Ammiraglio, è così che ti ingrazi il popolo?»
«Taci Vittore… siamo solo dei poveracci! Me lo hai detto tu, ricordi?» rimproverò ancora Duccio.
Intanto Majone e il grosso del suo seguito lasciavano quel luogo per rincasare.
Ora una folata di vento colpì alle spalle Vittore, e questi avvertì come la sensazione che sulla piazza restasse solo lui a fronteggiare l’uomo dell’Ammiraglio.
«Se non conoscessi la vostra natura… l’infamia di quelli che derubano chi già non ha e maltrattano chi non può difendersi… se non fossi sicuro che di fronte alla sconfitta cerchereste soddisfazione sui miei cari… allora vi proporrei un duello… Anche se non so se avreste il coraggio di accettare!» sfidò l’uomo delle conchiglie.
«Non vi sarebbe più facile raccogliere quel denaro?» chiese perplesso il soldato che scortava il primo ministro, il quale quella sera non aveva proprio voglia di far scorrere del sangue.
«Mi sarebbe più facile se voi mi lasciaste andare in pace. Altrimenti sarebbe più conveniente che voi non mi incontriate mai in un’altra circostanza… da solo, in altri abiti e senza la possibilità che qualcuno si rivalga sulla mia casa.» spiegò e minacciò Vittore, consapevole che in qualunque caso quella sera ne sarebbe uscito sconfitto, ma non volendo comunque far passare la cosa come una ritirata.
«Quando potrete permettervi una spada… forse…» rispose provocatoriamente l’altro, ridacchiando per sottolineare la differenza sociale che intercorreva tra loro due.
«Io impugno il coltello da pescivendolo; battetevi ad armi pari e vi farò vedere!»
Mentre l’ansia saliva tra quelli del porto e tra gli uomini dell’Ammiraglio aumentava la consapevolezza che Vittore facesse sul serio, dall’angolo della via che costeggia le mura più esterne del Palazzo Reale cominciò a presentarsi un folto numero di uomini in armi e a cavallo. L’aspetto di questi era nobile e l’andatura con la quale spronavano i propri destrieri sicura. L’inconsueta presenza di quei tizi fece rimandare duelli e malumori a quelli che se ne stavano già sull’incrocio opposto.
Una parte dei nuovi giunti si avvicinò perciò agli uomini dell’Ammiraglio ed uno disse a gran voce:
«Dichiaro Majone di Bari decaduto! L’epoca dei tiranni è finita! Da che parte state?»
Gli uomini dell’Ammiraglio, dal basso della loro posizione di appiedati, si guardarono l’un l’altro. Era chiaro che contro i nuovi non avrebbero prevalso.
«Risparmiateci le vite, Signori!» implorò terrorizzato il tizio che finora si era mostrato tracotante con Vittore.
La spada gettata sul selciato fu il segno lampante della frettolosa resa degli scagnozzi di Majone.
«E voi, da che parte state?» chiese sempre lo stesso a Vittore.
«Abbasso la tirannia! A morte Majone!» gridò tutto d’un fiato il venditore di conchiglie, come a volersi liberare di tutta la tensione accumulata finora.
«Bene! Alla porta di Sant’Agata anche voi!» concluse il tipo a cavallo.
Vittore non aveva la men che minima idea di cosa stesse succedendo, tuttavia, comprendendo che quello fosse un comodo pretesto per risolvere la questione con i tirapiedi di Majone senza cedere e umiliarsi, corse alla spada gettata dall’uomo dell’Ammiraglio e la raccolse. Gli altri dei suoi fecero lo stesso con le armi gettate dagli sconfitti. Nessuno degnò più le guardie di Majone d’attenzione.
Vittore adesso correva per stare al passo dei nobili a cavallo, correva e immaginava che quella notte, andando dietro a quegli uomini, sarebbe stato possibile agguantare un guadagno maggiore. D’altronde l’aspetto fiero e autorevole di quelli gli dava la certezza che la caduta della tirannia del perfido Ammiraglio si sarebbe concretizzata davvero quella notte.
Dalle finestre del palazzo dell’Arcivescovo cominciarono ora ad apparire lumi e volti della servitù, gente che sembrava essere già preparata allo spettacolo che stava per consumarsi per le strade di Palermo.
Percorsero il Cassaro da una parte all’altra costeggiando le mura del Regio Palazzo, passarono il Kemonia e giunsero in prossimità della porta di Sant’Agata. Qui molti di quelli che in precedenza accompagnavano Majone ora fuggivano nelle più disparate direzioni, alcuni incalzati dai rivoltosi. Un cavallo imbizzarrito sbucò dall’oscurità e quasi non travolse Vittore e i suoi, i quali dovettero assottigliarsi alle mura dei palazzi sul bordo della via.
La scena che si era appena consumata giusto fuori dalla porta era qualcosa che fino a poco prima nessuno avrebbe immaginato. Majone se ne stava disteso al suolo, trafitto dalla spada del capo dei cospiratori, ovvero di quel giovane nobile che aveva interloquito con Amjad nemmeno mezz’ora prima. Questi aveva infatti supposto che in quella carrozza potesse esserci proprio l’Ammiraglio, inconsuetamente privo di scorta dal momento che intendeva filarsela senza dare nell’occhio, spaventato dalla voce di possibili rappresaglie. L’uomo che attentava alla vita di Majone si era sbagliato, tuttavia adesso, riuscito finalmente nel suo intento e attorniato dai suoi fedelissimi, annunciava a gran voce:
«La tirannide che affliggeva il Regno è caduta, il sangue innocente che quest’uomo ha versato è stato vendicato!»
Intanto cominciavano ad avvicinarsi uomini e donne della cittadinanza, gente facente parte delle ombre che la notte si aggirano tra il vizio e il malaffare per le vie della città. Il numero divenne sempre più folto minuto dopo minuto e ben presto si diffuse la voce che Matteo Bonello, Signore di Caccamo, aveva ucciso l’Ammiraglio.
Non appena i nobili che avevano cospirato contro Majone si furono allontanati dal luogo del delitto, il cerchio degli spettatori del popolo si strinse sul cadavere. Alcuni, come sfregio oltre la morte, e potendo permettersi solo questo, presero a sferrare calci sul corpo dell’Ammiraglio. Altri lo ingiuriarono sputandogli e trascinandolo ora a destra e ora a sinistra.
Vittore, a differenza di molti altri, era rimasto per lungo tempo indifferente di fronte alle malefatte di Majone. Tuttavia l’umiliazione che si era consumata presso la cattedrale era ancora troppo fresca e lui quel tipo di offese non era mai riuscito a digerirle. Per di più Majone rappresentava il potere, quello stesso potere di cui, nella sua immaginazione, faceva parte anche l’eunuco che ostacolava il suo amore con Naila. Sapeva d’altronde che Amjad prima o poi avrebbe cercato la sua vendetta, e dunque, adesso che era arrivato il momento in cui il sovvertimento dell’ordine poteva giocare a suo vantaggio, bisognava cogliere l’occasione al volo.
Vittore guardò alla sua destra e si accorse che dall’alto dei loro destrieri stazionavano ancora un paio di quelli che avevano dato inizio alla cosa. Questi osservavano curiosi la scena, volendo accertarsi fin dove arrivasse l’odio del popolo. Il venditore di conchiglie concluse che se si fosse messo in evidenza agli occhi di quegli spettatori, si sarebbe fatto degli appoggi importanti per tutelare la sua sopravvivenza di uomo libero e il suo amore per Naila. Dunque si fece avanti e, armato del suo coltello da pescivendolo, si mise all’opera per dilaniare le carni dell’Ammiraglio. Conosceva i tagli con cui si prepara il tonno – la testa, il filetto, la ventresca, la codella – ed ora immaginò Majone come se fosse proprio un grosso tonno. Lo smembrò alla base del collo e degli arti, bagnandosi nel sangue ancora caldo dell’ucciso, intanto che la gente attorno a lui continuava a tirare e strappare, quasi come se il lavoro di Vittore volessero farlo a mani nude.
«Che le membra di questo maledetto giungano ai quattro angoli della città, dalla Khalesa52 infino al Regio Palazzo, cosicché ognuno veda e sappia che da oggi Palermo acclama un nuovo salvatore!» urlò Vittore, gettando un’occhiata ai due a cavallo.
«Viva Bonello, Signore di Caccamo!» rispose a tono uno tra la folla.
Perciò Vittore prese con sé la testa dell’Ammiraglio e si diresse verso il Palazzo Reale, intento a mostrare ad Amjad con chi avesse a che fare. Qui, proprio sulla piazza della cattedrale, la quale si apre alla base dei cancelli del Palazzo, Vittore issò la testa di Majone su un’asta e prese ad urlare:
«Abbasso la tirannia, viva il Re!» intendendo sottolineare come con il suo gesto non volesse minare il potere regio degli Altavilla, fondamento stesso dell’esistenza del Regno di Sicilia.
Fu ora che chiese a Duccio e Mamiliano, suoi vicini di banco al mercato e da adesso suoi bracci fidati, di raggiungere la casa di Naila e di portagli la ragazza, affinché l’eunuco Mattia, affacciandosi, comprendesse che ciò che non voleva essere concesso con il suo benestare lui se lo prendeva con la forza.
Nella notte in cui l’ordine delle cose veniva improvvisamente sovvertito dalla nobiltà invisa all’Ammiraglio, Vittore coglieva l’occasione per sovvertire la sua condizione, quella della povera gente che non può mai cambiare, se non, forse, proprio per mezzo della rivoluzione.
Capitolo 14
13 Novembre A.D. 1160, Balermus
Le torce accese attorno al Palazzo fecero temere alla Regina e ai servitori la rivolta e l’assedio. Margherita di Navarra, la quale aveva sperato per tutta la notte che la nefasta notizia riguardante la morte del suo amato fosse infondata, dovette sorreggersi alle braccia delle sue ancelle quando vide, alle prime luci dell’alba, la testa di Majone infilzata su un’asta. Il suo pianto disperato inquietò gli animi di chi sapeva e confermò il sospetto di chi immaginava; solo il Re, il quale soggiornava in una delle residenze fuori città, poté risparmiarsi la vista delle lacrime che la moglie riversava per un uomo che non era lui.
Non poté invece tremare Amjad, dal momento che non era a Palazzo, così come Vittore non poté riabbracciare Naila, dal momento che questa non era in casa. Quando il venditore di conchiglie si rese conto, poiché gli fu riportato dai vicini curiosi che avevano assistito all’evento, che quella notte l’eunuco avesse portato via su una carrozza la giovane sorella, il pianto della sua anima non fu meno triste e doloroso di quello della Regina.
Ad ogni modo c’era da portare avanti l’opera che era cominciata quella notte, e così Vittore continuò a gridare a gran voce che era giunta una nuova era, che il tiranno era stato ucciso e che si avvicinava il tempo in cui non si sarebbero più pagate le tasse. Ovviamente per la maggior parte si trattava di promesse irrealizzabili; in quel momento tanta era la foga che Vittore avrebbe creduto che l’uomo fosse in grado di raggiungere la luna.
Il subbuglio a Palermo era enorme e presto la nobiltà cominciò a temere che quel tumulto spontaneo generato dall’odio per Majone potesse trasformarsi in una rivolta popolare, contro l’indifferenza del Re e contro l’aristocrazia che affama. Così, tre giorni dopo i primi fatti di sangue, Matteo Bonnel, conosciuto come Bonello, l’uomo che aveva ucciso l’Ammiraglio e che intanto si era rifugiato nella sua Caccamo, inviò delegati per parlare ai capi del popolo, affinché quella sollevazione non si trasformasse in qualcosa di violento e incontrollato. Poco prima di mezzogiorno un tale Manfredo, accompagnato da altri tre, si fece largo tra la folla e giunse al cospetto di Vittore, il quale in quei giorni aveva sfilato per le vie della città per poi ritornare innanzi al Regio Palazzo numerose volte.
«Credo che coloro che osservano da oltre i cancelli del Palazzo abbiano ricevuto il messaggio. Date riposo a quella testa e venite con me.» esordì l’uomo che sosteneva Bonello.
Vittore riconobbe immediatamente nel giovane Manfredo uno dei cavalieri che durante la notte del dieci se ne stava presso la porta di Sant’Agata ad osservare il popolo offendere il corpo di Majone. Calò perciò la testa dall’asta e, accompagnato da Mamiliano e Duccio, seguì gli uomini a cavallo. Intanto la folla agguantava ciò che restava dell’Ammiraglio e si azzuffava per far proprio quel nauseabondo trofeo.
Vittore venne condotto nell’atrio di un palazzo e qui, richiuse le porte, venne invitato ad accomodarsi sui gradini di una scala.
«Il Re ha accolto con giubilo la notizia che giustizia è stata fatta sull’odiato ministro che opprimeva il popolo e che desiderava usurpare il trono. Dunque non serve che voi continuiate l’opera che ha avuto inizio l’altra notte.»
In realtà Majone aveva oppresso più la nobiltà che il popolo spiccio, imprigionando i baroni ribelli di Puglia e Calabria, rendendo schiave le loro figlie e prostitute le loro mogli. Inoltre, sebbene fosse vero il fatto che il Re gioisse per l’uccisione di Majone, benché in un primo momento fosse rimasto sbigottito da tanta violenza, il motivo andava ricercato nella paura che Guglielmo provava per Bonello e per i cospiratori. Un tempo, prima che il giovane Signore di Caccamo fosse scelto per quell’opera, si era addirittura cercato di coinvolgere lo stesso Re, ma questi, all’idea di dover essere responsabile di un tale atto di sovvertimento, aveva fatto sapere di essere contrario. Nondimeno adesso, a giochi fatti, Guglielmo non poteva far altro che cercare di ingraziarsi coloro che avevano liberato la corte dalla pesante presenza dell’impopolare Ammiraglio. La nobiltà calabrese, in rivolta da qualche mese, faceva quindi sapere al Re che era disposta a deporre le armi, sempre a condizione che la giustizia regia non colpisse Matteo Bonello per il reato commesso.
Ancora pieno di zelo e preso dall’inerzia degli ultimi spaventosi avvenimenti, stringendo il pugno al cielo, Vittore rispose:
«Viva il Re e viva Matteo Bonello!»
«Ho visto come la folla vi segue… notevole per un pescivendolo e venditore di conchiglie!»
«Dunque sapete chi sono, mio Signore?» chiese lusingato Vittore.
«Ci sarà ancora bisogno di voi. Il popolo ha bisogno di eroi che vestano i loro stessi panni.»
«Ho solo smembrato un cadavere.»
«Il cadavere del Grand’Ammiraglio… un crimine per cui meritereste il patibolo; secondo per gravità solo a quello del Signore di Caccamo. Ma questo fa di voi un uomo che non si volta di fronte alle ingiustizie… un uomo valoroso.»
Vittore gongolò. L’aveva sempre saputo che prima o poi la vita avrebbe ripagato il suo modo di essere così diverso dal resto della popolazione sottomessa.
«Signore, possediamo un banco al mercato; chiediamo di essere ricompensati non pagando più la tassa per la vendita.» intervenne Mamiliano, volendo approfittare del momento positivo.
Manfredo stava per dire che non stava a lui concedere qualcosa del genere, tuttavia Vittore intervenne.
«No, Signore, niente di tutto questo. Non ho portato in processione la testa dell’Ammiraglio per un compenso o per il desiderio di potere, ma affinché il mio nemico potesse vedermi e tremare… tremare e concedermi quello che chiedo. Un malvagio eunuco si frappone fra me e la sua giovane sorella.»
Manfredo pensò immediatamente all’incontro avvenuto poco prima che Majone passasse per la porta della città e che Bonello lo ammazzasse. L’eunuco in carrozza intendeva infatti allontanare sua sorella da un uomo che non era al loro stesso livello, un uomo di cui la giovane donna si era infatuata.
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1
Saraceni: nome con cui erano comunemente conosciuti i musulmani nel Medioevo. Altri sinonimi utilizzati nel romanzo sono: mori, islamici e arabi. Alcuni di questi termini sono chiaramente impropri, tuttavia rispecchiano la conoscenza e la cultura della società dell’epoca. Oggi il nome “saraceni” viene utilizzato esclusivamente quando si devono indicare i pirati arabi e berberi che infestavano le coste del Mediterraneo, ma in questo romanzo indica tutti i musulmani. Il termine “musulmani” invece non è presente perché è di introduzione posteriore all’ambientazione del romanzo. Per lo stesso motivo non sono utilizzati mai i termini “bizantini” ed “ebrei”.
2
Giudei: nome con cui venivano chiamati gli ebrei in epoca medievale.
3
Cufico: stile calligrafico della lingua araba.
4
Egira: letteralmente “emigrazione”. Indica l’esodo di Maometto da La Mecca a Medina. L’anno di tale episodio, avvenuto nel 622 d.C., segna l’inizio del calendario musulmano.
5
Longobardi e Lombardi: il termine longobardi indica in senso stretto i discendenti del popolo germanico che invase la penisola italiana nel VI secolo, ma in senso lato tutti gli abitanti d’Italia che, da nord a sud, furono soggetti a tale popolo, e quindi anche a coloro che erano di origine italica (campani, lucani, ecc…). Nel XI secolo i longobardi parlavano ufficialmente il latino, ma si esprimevano nei dialetti romanzi dei luoghi in cui risedevano. Dopo la conquista normanna del sud Italia il termine derivato “lombardi” cominciò ad indicare solamente gli abitanti dell’Italia settentrionale.
6
Anno Mundi: nel calendario bizantino la locuzione Anno Mundi, abbreviato A.M., indica che il conteggio degli anni inizia dalla data della creazione del mondo, che secondo tale calendario sarebbe avvenuta l’1º settembre del 5509 a.C. In questo romanzo gli anni riportati nell’intestazione dei capitoli sono indicati secondo il calendario giuliano/gregoriano e secondo quello dell’etnia del protagonista di ciascuna parte.
7
Nicea: importante città dell’Impero bizantino, oggi parte della Turchia e conosciuta col nome di İznik.
8
Corcira: nome con cui era conosciuta un tempo l’isola greca di Corfù.
9
Faro di Messina: nome con cui veniva indicato l’attuale Stretto di Messina.
10
Eubea: grande isola del mare Egeo appartenente oggi alla Grecia. In passato era conosciuta anche come Negroponte.
11
Val Demone: uno dei tre Valli in cui era divisa un tempo la Sicilia. Il Val Demone corrisponde al triangolo nordorientale dell’Isola. Gli altri due sono il Val di Mazara ad ovest e Il Val di Noto a sudest.
12
Romei: appellativo con cui venivano chiamati i bizantini nel medioevo. Letteralmente “romani”, essendo Bisanzio proprio l’Impero Romano d’Oriente. Il termine “bizantini” fu coniato in un’epoca successiva. In questo romanzo sono anche chiamati col termine generico di “greci”, da non confondere con i greci propri della Sicilia, ovvero quella parte di popolazione indigena di lingua greca e osservante il rito orientale nella religione.
13
Stratigò o Strategoto: sorta di governatore della città di Messina con compiti esecutivi e giudiziari. La figura dello Stratigò risale all’epoca bizantina, ma si mantenne durante la dominazione normanna, a testimonianza del retaggio greco-bizantino della città.
14
Basiliani: monaci seguaci della regola di San Basilio. Possono essere di rito sia greco che latino, ma in questo romanzo si intendono soltanto quelli di rito orientale.
15
Logotheta: dal greco “colui che conta, calcola”. Dignitario del Regno di Sicilia e dell’Impero Bizantino che attendeva ai bilanci statali.
16
Balermus: nome di Palermo durante il periodo normanno. Si tratta della latinizzazione del nome arabo Balarm, che differisce tuttavia dall’antico nome latino Panormus. Da Balermus deriva l’attuale Palermo. Nelle intestazioni dei capitoli il nome delle città è pressoché quello in latino degli atti ufficiali dei normanni di Sicilia.
17
Amiratus: latinizzazione dell’arabo ‘amir (emiro). Era il titolo riservato al primo ministro del Regno di Sicilia in epoca normanna, chiamato per esteso anche Emiro degli Emiri (ovvero Amiratus Amiratorum), o Arconte degli Arconti (dal termine greco che significa primo magistrato). La parola italiana Ammiraglio deriva appunto dall’arabo ‘amir, avendo subito alla spiccia i seguenti passaggi: ‘amir > Amiratus > Amiralius > Ammiraglio. Tali trasformazioni linguistiche e semantiche avvennero alla corte siciliana. Proprio qui, infatti, la parola Ammiraglio, che inizialmente indicava una sorta di primo ministro con poteri plenipotenziari, finì per indicare il comandante generale della marina militare.