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Le Tessere Del Paradiso
Giovanni Mongiovì
Regnum – Le tessere del Paradiso
LE TESSERE DEL PARADISO
Regnum
In copertina: contorno del “portale”, dall’abside della Cappella Palatina, Palermo.
giovannimongiovi.com
Copyright © 2019 – Giovanni Mongiovì
In principio fu il gran finale, l'ultimo atto, la più bella poesia; "carne di carne e ossa di ossa", l’integrità naturale in un paradiso inviolato…
…primigenia visione che in me ridesti, tu, preziosa madre, ammaliante sposa, per sempre mio Eden.
A Valentina e Tommaso…
Premessa
Il mondo potrebbe essere definito un mosaico di vita… razze, culture, lingue, pensieri e comportamenti differenti che creano un’enorme opera musiva di straordinaria bellezza estesa fino ai confini della Terra. Solo l’accostamento razionale della diversità può regalare un’opera di senso definito e compiuto… lì dove altrimenti avremmo la monotona monocromia del tutto uguale, un muro bianco in cui nessuno ravviserebbe l’arte. Ciò fa perciò di Dio l’artista per eccellenza, primordiale e quindi modello assoluto. Tuttavia, per apprezzare la bellezza di questo gigantesco mosaico bisognerebbe osservare da lontano, da una distanza tale da non riuscire a cogliere le singole parti come elementi a sé stanti. Spettatori privilegiati sono dunque Dio e gli spiriti celesti, in quanto all’uomo che vi è dentro è impossibile avere la stessa visione d’insieme. E per tale motivo, proprio perché non riescono a cogliere la bellezza complessiva, molto spesso gli esseri umani prendono le distanze da chi è diverso da loro. Eppure, se in luogo di carne e sangue fossero date all’uomo le ali incorporee degli angeli, egli potrebbe vedere che tale mosaico di vita, in cui nessuna tessera è meno importante di un’altra, ha le sembianze di un soggetto di senso definito e compiuto… le sembianze della stessa immagine del suo Artista e Creatore.
L’uomo ha sempre cercato di emulare il modello assoluto del mondo… ci hanno provato pittori, scultori, architetti… e ancora maestri di lettere e di scienza che hanno cercato di cogliere l’essenza in luogo dell’evidenza. Eppure vi fu anche chi tentò di creare un modello, di proporzioni umane, dello stesso mondo… proprio una riproduzione di quel mosaico di vita tanto caro a Dio. Una rappresentazione in scala e limitata della diversità terrestre. Un modello avente come confini il mar Mediterraneo in luogo dell’abisso ignoto di dove finisce il mondo, e avente come centro la felice Palermo in luogo della contesa Gerusalemme. Qualcosa di umano e quindi fallimentare, ma capace di dare una rozza idea di ciò che è il mondo visto da lontano.
Singolare nello spazio e nel tempo, il Regno di Sicilia creato da Re Ruggero era un esempio di tolleranza e tutela della diversità. Mecenate di arti e curioso dei segreti del mondo, Re Ruggero ereditò una terra in cui gente differente viveva già l’una di fronte all’altra. Cristiani di lingua greca, cristiani di lingua romanza, saraceni1 e giudei2 di lingua araba, convivevano sulla stessa isola da secoli, oggi stringendo amicizia ed oggi dichiarandosi guerra. Ruggero seppe pacificarli permettendo ad ognuno di vivere la propria diversità purché riconoscessero il potere dal quale ogni cosa era data e sottratta… purché riconoscessero il potere del Re e della sua legge.
Ruggero era consapevole della povertà della cultura normanna dinanzi ai millenni di sapere del mondo greco-romano e dinanzi all’innovativo approccio alla scienza degli arabi, dunque umilmente aveva fatto suo ciò che era stato di altri e si era proposto continuatore ed unificatore di quelle stesse civiltà, intendendo sfruttare le potenzialità di ogni razza a sua convenienza. Per tale motivo le monete recavano leggende in latino e leggende in arabo, le cupole delle chiese erano decorate con caratteri cufici3, gli atti ufficiali erano redatti in latino, in greco e in arabo, e il conteggio degli anni era reso secondo la data della creazione del mondo, secondo l’Egira4 e secondo la nascita di Cristo. Per tale motivo i funzionari e i consiglieri del Re erano spesso illustri greci; così come potevano trovarsi a corte e nell’amministrazione eunuchi saraceni, dignitari d’oltralpe e vescovi d’origine straniera. Inoltre, l’esercito era costituito dalla componente feudale, per lo più formata dai baroni normanni, e dalla componente regolare, formata per la maggiore da saraceni stipendiati, mentre i marinai della flotta erano forniti dalle colonie lombarde5 dell’Isola.
Questo mondo variegato rendeva il Regno una metafora della diversità del mondo e faceva della stessa Sicilia un mosaico di vita. Tuttavia, come Dio aveva abbandonato l’uomo alla mercé della propria presunzione, affinché l’umanità facesse il suo tempo, ed era entrato nel suo giorno di riposo, così Ruggero era entrato nel suo riposo eterno.
Che cosa avrebbe potuto minare d'altronde l'epoca più splendente del Regno se non la fugacità della vita umana?
Di lui restano le opere ed un sarcofago in porfido rosso contenente le sue spoglie. Quelle opere tuttavia testimoniano proprio il cosmopolitismo del suo Regno… e non a caso, tra ciò che l’avrebbe reso immortale ai posteri, c’erano proprio gli splendidi mosaici delle chiese e dei palazzi. Milioni di tessere in pietre pregiate e in pasta vitrea, sgargianti e brillanti, sistemate con sapienza l’una accanto all’altra.
Essi quindi diventano la metafora del Regno, come il Regno è la metafora del mondo. Un singolo colore per ogni singola razza e cultura… un singolo materiale per ogni singola religione e lingua: il rosso del porfido, il bianco della madreperla, l’oro e l’argento, il verde della malachite e l’azzurro oltremare del lapislazzuli…
Un’arte che era destinata a conservarsi nei secoli, diversamente all’opera di congiungere persone diverse in un unico mosaico di vite. Infatti, solo un potere forte, solo Ruggero, poteva essere in grado di tenere coeso ciò che a causa degli egoismi umani tende a sfaldarsi.
Esistono gli eredi, è vero, ma raccogliere il testimone è difficile nella misura di quanto fosse amato e grande il predecessore. Per di più l'opulenza porta spesso ad adagiarsi nelle comodità e ad indulgere nei piaceri; il benessere ereditato conduce alla noncuranza delle proprie responsabilità.
E che cosa avrebbe potuto minacciare la tolleranza assicurata dal Regno se non l'odio che risiede nel fanatismo e nella paura del diverso?
Quando un popolo inizia ad odiare sé stesso, perché riconosce nel proprio fratello un estraneo ed un nemico, allora si trova al principio della fine… sulla strada che conduce alla sconfitta di ogni bene.
Ma forse, se quel mondo, pur così pieno di difetti e ingiustizie, fosse perdurato oltre la vita di una generazione sulla strada tracciata da Ruggero, nel tempo esso avrebbe rasentato utopisticamente il modello assoluto del primo mosaico di vita, ciò che fu per Dio l’Eden e il Paradiso.
PARTE I – PORFIDO ROSSO SANGUE
Capitolo 1
Ottobre 1160 (Anno Mundi6 6669), Messina
Un uomo di nobili principi sprofondato nel baratro del disonore. Lui che era manipolatore della luce finito nell’oscurità più profonda. Mortificato nello spirito, rassegnato alla morte e desideroso dell’oblio tanto quanto i vivi sono desiderosi del ricordo. Un uomo ancora vivo per definizione, ma morto nella sostanza… Un condannato non ancora giunto al suo momento di celebrità; quel momento in cui l’intera piazza avrebbe gridato “A morte!” e il boia avrebbe assolto il suo impegno.
Alessio marciva nei sotterranei umidi e scuri delle carceri di Messina da ormai tre anni. Non aveva amici e familiari che lo venissero a trovare e poteva godere della sola compagnia dei topi e degli scarafaggi. Smagrito della metà del suo peso iniziale, poteva contare nella sola provvigione gettatagli ai piedi dal carceriere. I capelli grigi erano cresciuti fino a coprirgli la schiena e la barba fino al petto. Non ricordava più quale fosse il suono della sua voce né che colore avesse il sole.
Cinquantenne nativo di Nicea7, Alessio era giunto a Messina appunto tre anni prima, proprio mentre il conflitto tra il Regno e Costantinopoli raggiungeva il suo apice. Salpato da Corcira8 aveva affrontato il viaggio fino alla città del Faro9 per mezzo di un mercantile veneziano che commerciava seta. Dunque, mentre la flotta del suo Imperatore veniva sconfitta dai siciliani presso Eubea10, lui era attraccato in territorio nemico.
Il suo intento iniziale era stato quello di spingersi fino a Palermo, tuttavia si era voluto intrattenere alcuni giorni presso uno dei numerosi monasteri di rito greco del Val Demone11. Questi luoghi religiosi, sparsi sui monti della Sicilia nordorientale, avevano rappresentato per secoli il baluardo della cristianità contro l’islamizzazione dell’Isola, ma ora che a Palermo sedevano sovrani devoti alla chiesa di Roma, tali monasteri venivano sempre più accantonati in favore di quelli di rito latino; aumentavano così i monaci benedettini e diminuivano quelli basiliani.
Alessio era un uomo con un forte senso della spiritualità e non si faceva mai mancare la preghiera e la contemplazione, specie prima di affrontare le difficoltà della vita. Quelli infatti sarebbero dovuti essere giorni fatidici, in cui la sua esistenza, ricca di denari ma povera di affetti, si sarebbe dovuta capovolgere a soddisfazione dei suoi desideri. Anelava come niente al mondo riscattare dalla schiavitù la sua unica figlioletta, una ragazza ormai più che ventenne di nome Zoe, rapita dai siciliani molti anni prima, quando questi avevano strappato Corcira ai romei12.
Le cose, tuttavia, com’è facile intuire, erano andate storte. Invece di raggiungere Palermo, era finito in gattabuia, e invece di riscattare la figlia dalle mani dei padroni, era stato costretto a riscattare giorno dopo giorno la sua sopravvivenza. Pendeva su di lui un’accusa di omicidio e per tale accusa era già stata emessa la condanna per impiccagione. Si diceva che avesse ucciso un giudeo messinese di nome Moshè, medico personale dello Stratigò13, ma conosciuto soprattutto come presta denari. Alessio si dichiarava innocente e faceva appello alla giustizia divina affinché prevalesse su quella umana. Nondimeno pesavano a suo sfavore molte cose… Per quanto infatti la morte di Moshè avesse fatto comodo a molti, i suoi interessi erano tutelati dallo stesso Stratigò, il quale aveva promesso, sotto pressione dell’intera comunità giudaica, che la dipartita violenta del suo medico e amministratore di finanze non sarebbe rimasta impunita. Inoltre, cosa più importante, la colpevolezza di Alessio era avvalorata da un testimone oculare. Comunque sia, se il greco straniero non era ancora asceso al patibolo, il motivo andava ricercato nella sua grande fortuna economica. Custodiva il suo denaro, quello con cui avrebbe dovuto riscattare Zoe, un certo monaco basiliano14 di nome Onesimo, un giovane frate con cui Alessio aveva legato particolarmente nei giorni precedenti al suo arresto. Questi avrebbe dovuto tenere nascosto il denaro in vista della liberazione dello straniero, tuttavia, venendo a conoscenza della prossima condanna a morte, aveva deciso di trovare un accordo con lo Stratigò, tale Guglielmo Perollo. Settimanalmente partiva quindi dal suo monastero sui Peloritani e scendeva fino a Messina. Qui versava parte della somma nelle tasche dello Stratigò in modo che questi ritardasse l’esecuzione. Ecco perciò spiegato il motivo per cui il collo di Alessio non era ancora stato appeso ad un cappio. D’ogni maniera, se il prigioniero avesse saputo con che cosa Onesimo stesse pagando il suo mantenimento in vita, probabilmente avrebbe commesso un secondo omicidio a danno del religioso.
A circa tre anni dal suo arrivo a Messina, Alessio mise piede fuori dalla cella e gli occhi gli bruciarono per più di un’ora a causa dell’intensa luce.
«Sarai condotto a Palermo.» gli dissero.
Dunque per un attimo provò uno strano appagamento; forse lo portavano a Palermo perché era lì che avvenivano le esecuzioni importanti… e lui era divenuto noto e famoso.
Poi, prima che il carro dalle grosse ruote partisse per la capitale del Regno, Onesimo saltò dentro, intenzionato ad accompagnarlo.
Alessio lo fissò per lunghi minuti con i suoi occhi azzurro cielo; il suo sguardo era serio ma non spento, la sua espressione piena di rancore ma non avvilita. Perfino quando il carro cominciò a sobbalzare tra sassi e buche, il greco restò a guardare il suo giovane conoscente senza dire nulla.
«Hai tu il mio denaro!» esclamò poi, come se a quella conclusione vi giungesse adesso.
«Credo nella vostra innocenza.» rispose invece Onesimo, ma Alessio sembrava pensare solo ad una cosa.
«Il mio denaro… dov’è? Devi ridarmelo!»
Il viso candido del frate si turbò. Per come lo straniero lo fissava forse aveva fatto male a crederlo innocente. Allargò perciò al collo la semplice tunica monacale e tirò fuori un sacchetto tintinnante di monete.
«Questo è ciò che rimane…»
Quindi Alessio, nonostante fosse legato ai polsi, gli saltò addosso come una bestia feroce, intendendo strozzarlo.
«Se siete ancora vivo è perché ho pagato lo Stratigò!» urlò Onesimo, non appena gli fu chiaro che quell’aggressione si sarebbe conclusa con qualcosa di grave.
«Avreste conservato il denaro per riscattare vostra figlia, ma non avreste potuto abbracciarla…» spiegò ulteriormente.
La cosa, dopo alcuni minuti di imprecazioni e maledizioni, che fecero fischiare le orecchie del giovane tonsurato, parve convincere Alessio.
«Potevi intascarteli tu quando hai saputo la fine che avrei fatto.» ragionò il prigioniero, intanto che la lunga barba grigia dondolava a destra e a sinistra per via della strada dissestata.
«Maestro, voi mi avete appassionato con i racconti della vostra arte ed io non riuscirei a non ammirarvi neppure se criminale lo foste davvero.»
«La mia arte… a cosa mi serve adesso la mia arte?» domandò Alessio, rivolgendosi al destino infausto e sollevando impotente le spalle.
«Voi potete dare ancora molto, e potete insegnare ai giovani quella vostra teoria su come imbrigliare la luce nella pietra.»
«Riponi la tua fiducia sull’uomo sbagliato.»
«No, voi davvero potete riprendere il controllo della vostra vita… o almeno vi è una possibilità perché questo accada…
Statemi a sentire: un paio di mesi fa passò per il palazzo dello Stratigò un funzionario del Re ed io mi ci imbattei per caso. Questi parlava fluentemente il greco nostrano, la mia stessa lingua, e non mi ci volle molto per comprendere che fosse diretto a Palermo. Colsi l’occasione e gli parlai di voi, Maestro… di voi e del torto che si stava facendo al Re lasciando marcire nelle carceri un tale genio. È risaputo che Guglielmo d’Altavilla sia mecenate d’arti e cultore delle piacevolezze della vita. Quell’uomo, un logotheta15 di nome Basilio, si lisciò la barba interessato all’argomento, dunque mi parlò di una grande sala del Palazzo Reale che il Re aveva intenzione di abbellire con dei mosaici. E infine, quando gli dissi che venivate da Costantinopoli e che avevate impreziosito le stanze dell’Imperatore, sorrise e mi disse che per certo ne avrebbe parlato al Re.»
«Io non ho mai prestato servizio per l’Imperatore. Tu pecchi mentendo, ragazzo!»
«Davvero io l’ho creduto…»
«Sebbene io non te ne abbia parlato… Poco male… in fondo era a Palermo che intendevo giungere già tre anni or sono. Troverò la mia Zoe e la strapperò dalle mani di quel maledetto!»
Onesimo tossì due volte, segno che avesse tralasciato di comunicare una postilla importante.
«Temo, Maestro, che le cose non siano come le credete. Il Re non vi ha accordato nessuna grazia, ed in verità, anche se desiderasse farlo, la cosa non sarebbe così semplice.»
«Quale razza di sovrano vi governa?» chiese stizzito Alessio.
«Quello che vi è successo è accaduto nella gloriosa Messina e la legge cittadina, maggiore perfino all’arbitrio del Re, vieta ai tribunali che non siano composti da messinesi di giudicare i misfatti avvenuti in città.»
«E dunque il Re non può niente?»
«Potrebbe, ma col clima di diffidenza che aleggia in giro, difficilmente contrarierà una città che finora gli è stata amica.»
«E non vale a nulla che a morire sia stato soltanto un avaro giudeo?»
«I giudei di Messina hanno pari diritti dei cristiani, e godono di tutela anche nelle altre città del Regno.»
«Che assurdità!» esclamò Alessio.
«Vi ci dovete abituare… anche se so bene che a voi stranieri molte cose di questa terra appaiano come bizzarrie. Ad ogni modo, farete bene a considerarvi come in prestito per un servigio da rendere al Re, poiché in realtà appartenete ancora alle carceri messinesi.»
«Per quale assurdo piacere allora mi hai fatto tirare fuori? Non posseggo più il denaro e non posseggo più la libertà… verrò comunque ucciso, ma dopo aver lasciato la mia firma sulle pareti del Palazzo del Re. Che guadagno posso averne in tutto questo?»
«Maestro, voi mi avete detto che la vostra arte vi importava più della stessa vita ed io ho creduto di farvi felice.»
«Tu sei solo un monachello che ha deviato la propria fede e si è abbandonato al materialismo delle arti umane.»
«Chiedo solo di vedervi all’opera… e poi farò penitenza.»
Alessio si resse quindi la testa come preso da una forte emicrania.
Capitolo 2
Ottobre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus16, Palazzo Reale
Raccogliere il testimone di Re Ruggero sarebbe stato un compito arduo per chiunque. A causa della straordinarietà dell’uomo che era stato e della grandezza raggiunta dal suo regno, sarebbe diventato il termine di paragone per tutti i re che si sarebbero avvicendati sul trono di Sicilia… ed ovviamente, com’è facile immaginare, dal confronto quasi tutti ne sarebbero usciti rimpiccioliti.
La nascita di Guglielmo non era stata accolta col consueto giubilo riservato agli eredi al trono. Essendo solo il quarto dei figli avuti da Ruggero, era impensabile che un giorno potesse diventare il sovrano del glorioso Regno costruito da suo padre. E forse, proprio per questo motivo, il destino gli aveva riservato le qualità strettamente necessarie alla sua natura, solo ciò che gli sarebbe servito per vivere lontano dalle responsabilità di governo. Guglielmo era un coraggioso combattente, una qualità consona ai cadetti, ma per quanto riguardava i pregi che rendono un sovrano un buon sovrano, era mancante in tutto. La morte dei suoi fratelli l’aveva costretto a ricoprire un ruolo in cui, per tutta la durata del suo regno, sarebbe stato additato come incapace. Guglielmo era abulico, avaro e pieno di superbia. Non aveva abbastanza forza di carattere e volontà per prendere decisioni, e a differenza di Ruggero, il quale firmava tutto ciò che usciva dal Regio Palazzo, rimandava le questioni o delegava i suoi potenti ministri. Passava gran parte del suo tempo nelle splendide regge fuori Palermo, attorniato da paradisiaci giardini e lusso d’ogni genere, e qui, tra eunuchi e donne favorite, era solito abbandonarsi a smodati banchetti e piaceri sessuali. Del suo ruolo assolveva quindi solo gli aspetti piacevoli, e tutto questo mentre uomini più furbi e capaci di lui imperavano a proprio arbitrio. Spiccava tra tutti i suoi funzionari Majone di Bari, Emiro degli Emiri ed Arconte degli Arconti, chiamato Amiratus17 da quelli che contavano e Ammiraglio dal popolo. Questi era la vera mente del governo. Benché le origini di Majone fossero modeste, si era distinto già ai giorni di Ruggero per la sua effettiva intelligenza amministrativa e militare. Un uomo che tuttavia ricalcava i vizi della corte forse ancor più del Re e che sapeva imporre il potere regio con straordinaria crudeltà e violenza. Lo conoscevano bene i baroni della Terraferma che ci si erano scontrati durante l’ultima ribellione. Sarebbe bastato un qualsiasi giudizio, perfino il più benevolo, per indicarlo come la ragione di ogni male e di ogni sventura del Regno. Perfino i saraceni, benché parteggiassero per il Re, avevano da ridire su Guglielmo e sopratutto sul suo primo ministro. E alla fine, per le proprie e altrui mancanze, sarebbe stato proprio il Re a pagare il prezzo più alto, e l’avrebbe fatto con la reputazione riservata ai libri di storia, con quell’epiteto che avrebbe accompagnato il suo nome per tutta l’eternità: Guglielmo di Sicilia, detto il Malo.
Appena giunti a Palermo, Alessio venne condotto al Palazzo del Re e qui venne accompagnato da quel Basilio logotheta fino ad una sala ubicata nella torre chiamata Joharia18, presso le stanze del tesoro. La sala in questione era di medie dimensioni e dalla forma allungata. Inoltre aveva il soffitto a crociera e su un lato di essa si apriva una loggia che dava sul panorama di Palermo.
«Quando arriverà il Re è consuetudine che vi prostriate col viso al pavimento.» istruì il dignitario.
E di fatto non passò molto che Guglielmo d’Altavilla fece capolino nella sala insieme ad uno stuolo di uomini preziosamente vestiti, eunuchi e servi.
Guglielmo era un uomo alto, di aspetto pregevole, anche se in viso manifestava un minimo di trascuratezza dovuto probabilmente all’animo indolente e vizioso. Indossava una larga e lunga veste di foggia arabesca, a significare come nel suo perpetuo soggiorno a Palermo, nel suo eterno oziare tra i giardini e gli harem dei suoi palazzi, si fosse fatto influenzare dall’impronta culturale islamica della città.
«Basilio, è questo l’uomo di cui mi avevate parlato?» chiese Guglielmo una volta che l’ospite si rimise in piedi e ce l’ebbe davanti.
Il timbro della voce del Re lasciava trasparire tutta la mollezza del suo carattere.
«Come vi chiamate?» domandò quindi direttamente allo straniero, rivolgendosi in greco.
«Aléxios, Maestà.»
«Avete ucciso un uomo; perché un assassino compare oggi al mio cospetto?»
«In verità, Maestà, venni accusato ingiustamente…»
«Ingiustamente? Dite quindi che la giustizia del Regno sia fallace?»
«Non la giustizia in sé, Maestà, ma nel mio caso un uomo testimoniò il falso.»
Guglielmo sbuffò, come spazientito dalle discolpe di Alessio.
«Basilio, raccogliete quanto prima le rimostranze di quest’uomo…» comandò al logotheta, il quale rispose con un accenno di inchino.
«E tu, Mattia.» fece perciò ad uno degli eunuchi che lo accompagnava.
«Occupati di rendere presentabile il nostro ospite. Fallo radere, cambiare d’abito e lavare…»
E rivolgendosi a tutti:
«Che non mi sia più presentato qualcuno che non sia al meglio del suo aspetto… Non sopporto i visi scuri e tristi!»
«Me ne occuperò io, Maestà.» rispose quel tale Mattia.
«Bene, dagli cibo e comodità… e pure una donna se te la chiede. Questa corte tratta con rispetto gli uomini d’arte e di scienza!»
Fu allora che Guglielmo si sciolse dagli uomini del suo seguito e prese a passeggiare avanti e indietro nella stanza.
«In questa sala mio padre ricevette molti grandi uomini e prese importanti decisioni. Gli erano care queste quattro mura e gli era cara questa torre, così come gli era cara la vista della nostra amata Palermo guardando dalla loggia. Io ho continuato la sua tradizione e vi ho continuato a tenere le mie udienze private… tuttavia oggi intendo rendere questa sala un luogo di stupore, qualcosa che desti meraviglia, qualcosa degno della cappella del Palazzo e delle cattedrali edificate da mio padre.»
Alessio intanto studiava le pareti e il tetto osservando in tutte le direzioni.
Quando Guglielmo si accorse della distrazione del maestro d’arte, gli chiese:
«Per certo uno con le vostre referenze deve vedervi già l’opera compiuta…»
«In verità, Maestà, scrutavo le linee, la luce e gli spazi… ragionavo sul potenziale che queste mura possono esprimere.»
«E che cosa vedete oltre la pietra?»
Alessio si spostò al centro della sala e, guardando il vertice del tetto a crociera, propose:
«Quattro cherubini dai colori sgargianti, uno per lato!»
Guglielmo storse il muso… letteralmente.
«Niente santi e angeli! Le chiese costruite da mio padre sono già piene di queste immagini, ed io stesso ho continuato il decoro della cappella del Palazzo facendo raffigurare scene bibliche. Avete prestato servizio per l’Imperatore di Costantinopoli, dunque conoscete bene come rappresentare potere e regalità…»
Perciò, mimando con le mani, tutto preso dal progetto, sempre il Re spiegò:
«Il Paradiso… voglio che mi ricreiate il Paradiso! In questa sala concederò udienza privata ad ambasciatori, nobili e vescovi; desidero che ognuno di essi rimanga stupefatto. Si fa un gran parlare dei giardini delle mie residenze fuori Palermo, eppure molta di questa gente non li vedrà mai. Che se ne facciano un’idea osservando le pareti di questa stanza, così da invidiare e rabbrividire dinanzi alla bellezza e alla potenza del mio regno. Voglio tuttavia che nessuno, né l’Arcivescovo né l’ambasciatore dei fatimidi19, possa offendersi a causa di ciò che vede.»