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Una promessa rubata
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Una promessa rubata

Язык: Итальянский
Год издания: 2024
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Una promessa rubata


Olga Kvirkveliya

© Olga Kvirkveliya, 2024


ISBN 978-5-0064-6125-3

Created with Ridero smart publishing system

Olga Kvirkveliya


Una promessa rubata

Capitolo I

Don Sancho

L’anno 885

1

Non sentiva né la gioia di essere sopravvissuto né il dolore di aver perso la battaglia. Aveva scelto lui un lavoro così: combattere per gli interessi degli altri. Però “scelto” non è proprio la definizione giusta: non aveva alternativa.

Suo padre, conte di livello medio, durante un ordinario bisticcio tra i signori più potenti si era schierato dalla parte sbagliata ed era finito al patibolo insieme con i figli più grandi. Tutta la sua proprietà fu confiscata e la moglie, con il figlio minore, rimase senza alcuna risorsa.

All’inizio la madre cercò rifugio e sostegno dai suoi parenti, ma questi temevano di provocare l’ira del vincitore ospitando la vedova con il bambino del “nemico della patria”. La povera donna aveva solo una via d’uscita: entrare in un monastero. Però il figlio era quasi adulto e il monastero femminile non era proprio un posto adatto a lui… anche se – il giovane ridacchiò a questo suo pensiero – la compagnia delle giovani educande gli sarebbe certamente piaciuta! Egli avrebbe potuto cercare rifugio dai frati, ma se c’era una cosa per la quale non sentiva alcuna vocazione, questa era proprio il monachesimo. Non gli restava che diventare militare, mercenario.

Cercò impiego in Francia, ma senza successo: il destino della sua famiglia era troppo noto e nessuno voleva avere a che fare con lui. Provò a chiamarsi con un falso nome… ma le voci riempiono la terra! Dopo aver attraversato tutto il paese, dalla Bretagna alla frontiera spagnola, decise di lasciare la patria, anche perché sua madre nel frattempo, sopraffatta dal dolore, era passata ad altra vita.

Una volta in Spagna decise subito, per non rischiare, di non chiamarsi con il suo vero nome: potevano essere arrivate anche qui le voci. Dio protegge coloro che si proteggono! Scelse di essere Sancho – dal suo vero nome Alessandro – figlio di un signore di qualche immaginaria contea (grazie a Dio, di quelle ce ne sono tante!). Senza pensare a lungo sul

cognome, prese quello di Guerriero – “alla spagnola” don Guevara. In seguito i cronisti della sua famiglia avrebbero cercato invano la sua patria sulla mappa; ma intanto quel nome gli permise di trovare impiego.


Don Guevara procede senza fretta, battendo ogni tanto la mano sul collo del cavallo stanco ed agitato, per rassicurarlo e abituarlo al suo odore (Lo aveva trovato – grazie a Dio!

– con le staffe ingarbugliate nei cespugli).

Osserva attentamente la boscaglia cercando di trovare i corpi dei militari che in quella macchia avevano incontrato la morte, senza farsi notare dai “colleghi” mercenari che urlano con brio e gioia sul campo. Sancho ritiene parte del suo lavoro ciò che adesso sta facendo. Sì, la battaglia è persa, il suo padrone è morto e anche il re è stato ucciso. Perciò è necessario cercare un nuovo padrone e sarebbe bene presentarsi con un aspetto non troppo sbrindellato. Il suo equipaggiamento si era rovinato durante le molte mischie anche perché non scappava dai nemici, mostrandosi sempre degno del suo nome-‐soprannome. Così adesso è costretto a frugare tra i cespugli per prendere dai suoi compagni meno fortunati tutto ciò che vi è rimasto di buono. In verità questo è diritto dei vincitori ma a loro basterà quello che resta sul campo; qui, nella macchia, cercarono di salvarsi soltanto coloro che erano gravemente feriti.


Improvvisamente qualcosa brillò ai raggi del sole. Don Guevara si avvicinò e in un primo tempo fece una smorfia di disgusto: erano alcune donne anch’esse uccise nell’ardore guerresco.

“Probabilmente sono prostitute”, pensò, e stava già per andare avanti, ma poi ci ripensò: “Forse vi si può trovare qualche ninnolo con cui guadagnare la simpatia di graziose contadine”.

Una risoluzione opportuna, pensando che nel prossimo futuro si sarebbe potuto trovare al verde!

Si appiedò e cominciò a osservare la sua “scoperta”. I ninnoli – con sua grande sorpresa – erano di notevole valore e potevano interessare non solo giovani contadine!

Nel centro del gruppo si trovava il cadavere di una donna incinta. Era vestita in modo molto più ricco rispetto alle altre.

“Finalmente sono fortunato”, pensò Sancho, e le cominciò a togliere la collana e gli orecchini. Poi guardò gli anelli e si bloccò. Sul dito della donna c’era un anello. Proprio

quell’anello! Quell’anello che il re aveva regalato a sua moglie quando era venuto a sapere che era incinta. Proprio quell’anello che da quel giorno lei non aveva più tolto!

Don Guevara era sgomento.

Da una parte non è un bene per la regina, anche se morta, trovarsi tra sangue e fango; e se la trovassero i vincitori questi esporrebbero il suo corpo al pubblico per l’oltraggio e la profanazione. Dall’altra parte potrebbe vendere i suoi gioielli per un sacco di denaro, ma ogni compratore sarebbe curioso di sapere dove un povero cavaliere li ha presi, in particolar modo l’anello fatto su ordine del re dai migliori gioiellieri del regno.


Uno strano, quasi invisibile movimento lo sviò da quei pensieri. Il grembo della donna si muoveva!

Don Guevara con fervore fece il segno della croce: per un momento credette che la regina morta reagisse così ai suoi pensieri non molto pii, ma subito dopo capì che nel grembo si muoveva un bambino: è vivo, ma rischia di morire senza aria!

Il giovane cavaliere non sapeva che cosa fosse necessario fare, ma poi ricordò che una volta, da fanciullo, aveva visto come un pastore di suo padre aveva tirato fuori un agnello dal grembo di una pecora uccisa dal lupo. Certamente il figlio del re non è un agnello, ma non potrà andargli peggio di adesso!

Sancho prese dal gambale un coltello, si inginocchiò e cominciò a tagliare con prudenza la pancia della donna cercando di trattenere il tremore delle mani, perché ogni movimento sbagliato avrebbe potuto costare la vita del neonato. Tutto andò per il meglio: non per caso lui era noto per la sua capacità di usare il coltello. Adesso restava solo da tagliare il cordone ombelicale e dare una sculacciata al bambino: era un maschietto, rosso e grosso, che si muoveva e scalciava con tutte le sue forze.

Con il cordone il cavaliere non aveva problemi, ma dare la sculacciata… Il bimbo avrebbe gridato e i nemici sarebbero accorsi! Questo grido poteva costare la vita a entrambi. Don Guevara strinse a sé il bimbo, salì sul cavallo e solo allora gli diede la sculacciata. Il bimbo cominciò a piangere, ma il cavallo correva ormai al galoppo tra i cespugli. Anche se quelli sul campo avessero sentito qualcosa, non vi avrebbero prestato attenzione poiché discutevano animatemente sul bottino…


2

Allontanandosi, e dopo essersi assicurato che non ci fossero inseguitori, don Guevara lasciò le briglie e il cavallo andò al passo.

Adesso è tempo di pensare cosa fare. Certo, il suo gesto è stato nobile, degno di un cavaliere, ma troppo sconsiderato! Dove mettere il neonato? L’unica soluzione sarebbe lasciarlo presso un monastero, ma questo non è un semplice neonato, è il figlio del re, l’erede legittimo al trono!

Il passo ritmato del cavallo aiutava a pensare chiaro. Sì, bisogna lasciare il neonato in un monastero; non abbandonarlo, ma consegnarlo nelle mani dell’abate raccontandogli tutta l’incredibile storia. Ma questi ci avrebbe creduto? Mah!

Don Guevara ha, però, una prova: il famoso anello. Per fortuna l’aveva messo in tasca prima di notare il movimento del bambino nel grembo della madre. Certo, è un peccato rinunciare all’anello; sarebbe possibile venderlo bene, ma non avrebbe altre prove… Bisogna, però, scegliere il monastero con saggezza. L’abate deve essere fedele al re ucciso, altrimenti potrebbe consegnare il piccolo nelle mani dell’usurpatore, vanificando così tutti gli sforzi per salvare la sua vita. Ma come sapere da che parte sta l’abate?..


Il bimbo, che già da tempo frignava, scoppia in un grido sdegnato. Don Guevara rimbocca l’orlo dello straccio nel quale lo aveva avvolto, prima di deporlo tra il petto e la camicia. Il bambino subito afferra il suo dito, lo strascica alla bocca e comincia a succhiarlo con entusiasmo. Il giovane capisce che ha fame, ma dove trovargli latte? Da una mucca! -‐ risponde a se stesso sorridendo. Ma dove trovare la mucca? Sul pascolo!

Riesce a risolvere tutti e due i problemi contemporaneamente: trova sia la mucca sia il monastero.


Una volta messo il neonato sotto le mammelle della mucca, don Guevara comincia a pensare come capire da che parte sta l’abate. Il monastero è maschile: è chiaro perché le mura sono fortificate e il portone ben chiuso. Quest’ultimo è un buon segno: se l’abate sostenesse l’usurpatore, il portone sarebbe spalancato in attesa dei vincitori che porterebbero le offerte di ringraziamento per la protezione celeste. Siccome il portone è chiuso significa che il monastero ha motivo di aver paura. Ma non si può rischiare, bisogna osservare ancora.

Il bimbo si è rimpinzato e adesso sbuffa contento. Improvvisamente il cavaliere ricorda con terrore che i bambini mangiano molto spesso, quasi senza interruzione! Cosa fare? Lui non può correre dalla mucca ogni ora! E poi, per la notte la mandria sarà portata nella stalla. Toccherà rubare la “nutrice”. Per dire la verità, anche prima Sancho era costretto a “impossessarsi” del bestiame che passava o correva oltre – di una gallina o addirittura di una pecora, ma di una mucca!!! Non si può fare altro. Solo che non sarà possibile viaggiare sulla strada apertamente: un uomo a cavallo, con un neonato sulla braccia, che porta dietro di sé una mucca… potrebbe richiamare una folla di curiosi.

Costruisce un rifugio con i cespugli tagliati presso un ruscello sotto le mura del monastero; da lì sarà possibile osservare il portone senza essere visto. Ora ha bisogno di riposare un po’, la giornata è stata faticosa: la battaglia, la ricerca di un cavallo e di un equipaggiamento, poi anche l’avventura con il bimbo… Si è appena sdraiato sull’erba quando il bimbo ricomincia a piagnucolare e tutto si ripete come in un circolo chiuso: nutrire, lavare, portare il cavallo e la mucca in altro posto, combinare per sé una sbobba dal “pascolame”, mangiare, di nuovo nutrire il bimbo… “Che bello non essere donna!”, pensò, “E tutto questo senza fare bucato e pulizia!”


Intorno al monastero non succede nulla per tutto il giorno: nessuno esce, nessuno entra. Come se tutti fossero morti! A crepuscolo avanzato don Guevara percepisce qualche movimento. Vaghe ombre, una o due alla volta, penetrano lungo le mura verso il portone, bussano – quasi grattano; il portone si apre inghiottendole senza traccia. Alcune ombre sembrano zoppicare, altre strascicano a malapena i piedi. “I nostri”, capisce Sancho.

Lega il cavallo e la mucca, stringe a sé il bimbo e si avvicina al portone. Quando questo si apre e lui entra, è circondato da uomini armati che, vedendo il neonato, subito si rilassano. Guevara chiede di essere portato dall’abate.


3

Don Guevara racconta tutto all’abate. Questi lo ascolta in silenzio; la sua faccia non mostra né sorpresa né diffidenza. Quando il cavaliere finisce il suo discorso, l’abate lo incalza:

– ‐ E tu ti aspetti che io ti creda?

– ‐ Che motivo avrei di mentire? Non sono una fanciulla che ha peccato sul fienile!

– ‐ Questo è giusto, però i tempi sono incerti; chissà quali ragioni potresti avere. Dammi qualche prova!

Don Guevara sospira con rammarico, infila la mano in tasca, tira fuori l’anello e lo consegna all’abate. Questi osserva attentamente il gioiello, poi si rivolge di nuovo al giovane.

– ‐ Sì, è quello. Non ci si può sbagliare: i due profili, del re e della regina, e le iniziali.

Però… tu sei comunque un ladro!

– ‐ Non tocchiamo questo argomento adesso! Non sono venuto per la confessione!

– ‐ Io non parlo dell’anello. Hai rubato il neonato al suo destino, si può dire a Dio!

– ‐ E non mi dispiace!

– ‐ Cosa vuoi da me?

– ‐ Prendete il bambino! Dove andrei con lui? Adesso mi tocca cercare un nuovo padrone.

E poi non va bene portare il figlio del re tra il petto e la camicia.

– ‐ È facile dire “prendetelo”… Se qui diamo asilo, sicuramente non lo diamo ai bambini. Credo che tu l’abbia capito! E poi, quale figlio del re è lui adesso?! Dagli un nome e portalo dalle suore, ti darò una lettera per la badessa. Lo cresceranno come un bambino qualsiasi.

– ‐ E questo sarebbe un bambino qualsiasi?! E no! Lui è l’unico e legittimo erede al trono!

Ho giurato fedeltà a suo padre!

Al clamore delle voci il bimbo si sveglia e comincia a piagnucolare.

– ‐ Forse ha fame di nuovo. Se è così, noi andiamo: ho legato nella macchia una mucca; darò da mangiare al piccolo.

– ‐ Aspetta, troveremo noi del latte! Alloggiate nella cella. Cercherò di sapere qualcosa di più, poi deciderò.


Dopo tre giorni l’abate chiamò il cavaliere. Don Guevara entrò e chiuse la porta senza far rumore per non svegliare il bambino che dormiva beatamente tra le sue braccia.

– ‐ Pare che tu non abbia mentito. Dicono che hanno trovato la regina con la pancia tagliata e che il figliolo è sparito. Adesso lo stanno cercando. Se lo troveranno saranno guai.

Tacciono. Poi l’abate rompe il silenzio:

– ‐ Certamente ci sono uomini pronti a dare la vita per questo bambino, ma sono pochi soppravvissuti. Alcuni sono feriti, altri mutilati… Ecco, resta qui con noi, poi vedremo.

– ‐ Io devo restare con lui?! Devo cercare un nuovo padrone, ho solo un cavallo, che per giunta non è mio!

– ‐ Non preocupparti per questo, vi sosterremo con l’aiuto di Dio.

– ‐ Padre, ma che balia posso essere io?! Oltretutto non ho vocazione alcuna per il monachesimo.

– ‐ Sei balia come ognuno di noi, siamo in un monastero maschile, come avrai certamente notato! Alla vita monastica non ti costringerò. Sarai un collaboratore, potrai uscire liberatamente e pregare quando la tua anima lo vorrà. Piuttosto, che lavoro potrei farti fare? Forse in biblioteca; credo tu sia alfabeta!

– ‐ Sì. Nella mia vita passata ho avuto insegnanti e maestri.

– ‐ Vedi che fortuna! Chi meglio di te può educare il figlio del re? I nostri frati sono persone semplici, non solo non sanno leggere, ma addirittura contano con le dita fino a cinque e poi sbagliano. Sono capaci solo di curare i feriti e difendere il monastero. Visto che abbiamo un ricco archivio dei tempi passati in pace, sarebbe bene metterlo in ordine.

– ‐ Ecco come andrà a finire… Sono un buon militare ma, a dire il vero, non è conveniente per un uomo vivere come un lupo solitario e rischiare la vita per gli interessi degli altri. Noi mercenari viviamo così: talvolta serviamo lo stesso padrone, facciamo quasi amicizia tra di noi, ma poi può succedere di combatterci perché i nostri nuovi padroni pretendono lo stesso villaggio. Di conseguenza cerchiamo di non coltivare veri rapporti di amicizia… Ma io sognavo di avere moglie e figli, una casa…

– ‐ Avrai tempo. Il bambino crescerà, e sarai libero. E così fu.


L’anno 895


Sono passati dieci lunghi anni. Il figlio del re è diventato un ragazzo molto sveglio, dallo sguardo sereno. Anche don Guevara è più maturo. Ormai si è abituato alla nuova condizione: ordina l’archivio con entusiasmo; insegna a leggere e scrivere al “figlio adottivo”. Ogni tanto va alla birreria del villaggio e mangia con gli occhi le belle ragazze, ma non pensa affatto a qualche legame serio: nel monastero lo aspetta il bambino, al quale si è affezionato moltissimo, mettendo in quell’amore tutta la nostalgia per la patria e la famiglia, tutto il dolore per le perdite subite, tutta la tenerezza accumulata nella sua giovane anima durante gli anni di vita solitaria.


Un giorno l’abate lo convoca e chiude bene la porta dietro di lui:

– ‐ Il tempo è arrivato. È ora che il “nostro” figlio del re si prepari a regnare. I figli dei sostenitori di suo padre – uccisi in battaglia – sono cresciuti. Essi sono pronti a lottare contro l’usurpatore e il ragazzo diventerà la loro bandiera. Adesso ci sono questi che lo porteranno al trono. Domani arriveranno alcuni di loro, tu racconterai la tua storia e farai conoscere l’erede del trono. A proposito, gli hai detto chi è lui?

– ‐ Sì. Ho creduto che fosse giusto.

– ‐ Va benissimo. Preparalo.


Il giorno seguente, domenica, insolitamente molti giovani si recano a messa. Arrivavano uno o due alla volta, quasi tutti a cavallo, solo alcuni a piedi. Entrati nel chiostro, si infilano, oltre la chiesa, nella biblioteca, dove li aspettano don Guevara e il figlio del re. Sancho è nervoso: il destino del suo pupillo sta per definirsi. L’erede al trono è serio e riservato come mai prima.

I convenuti li osservano alla chetichella, parlottando a bassa voce come in attesa di qualcuno. Finalmente si spalanca la porta ed entra l’abate con alcuni uomini, decisamente più anziani di quelli arrivati prima. Uno di loro, con una orribile cicatrice sulla faccia, osserva attentamente il ragazzo e sospirando esordisce:

– ‐ Sì. È lui. È una copia di suo padre, solo gli occhi sono della madre.

Si avvicina al figlio del re e si inchina. Il ragazzo dapprima si discosta un po’, poi gli mette la mano sulla spalla.

Gli altri non seguono l’uomo con la cicatrice, anche se la diffidenza poco a poco si dilegua dalle loro facce.

– ‐ Sentiremo prima la sua storia -‐ propone l’abate.

Don Guevara racconta come aveva trovato la regina morta e, omettendo alcuni dettagli, come dal grembo di lei aveva estratto il neonato.

I veterani facevano col capo ampi cenni di comprensione. Poi l’abate tira fuori dalla tasca la scatolina con l’anello e la porge al più anziano dei presenti, un uomo ingobbito e dai capelli grigi. Quest’ultimo la osserva e la passa ad un altro; egli stesso, zoppicando vistosamente, si avvicina poi al figlio del re e si inchina. Il ragazzo mette anche a lui la mano sulla spalla.

Gli astanti, giovani e veterani con le cicatrici, uno dopo l’altro si avvicinano al ragazzo.

Infine riprendono i loro posti.

– ‐ Allora, -‐ dice il primo veterano -‐ noi cominceremo a raccogliere gli uomini, intanto il ragazzo resterà ancora da voi. Bisogna prepararlo a regnare. Da quello che capisco, sa già leggere, scrivere e far di conto. Al monastero ha certamente studiato canto, ma servono anche storia, geografia, letteratura, danza e -‐ più importante -‐ l’etichetta di corte.

– ‐ I libri di storia e geografia sono nella nostra biblioteca e abbiamo già cominciato a studiare danza -‐ replica don Guevara. -‐

– ‐ In letteratura posso essere d’aiuto io, -‐ interviene l’abate -‐ ho una mia piccola raccolta di manoscritti.

Il vecchio soghignò:

– ‐ Non essere troppo modesto, padre, sei un noto esperto in questo campo.

– ‐ Io, però, non sono molto bravo nell’etichetta cortigiana, e nemmeno i frati -‐ aggiunge Sancho.

– ‐ Di questo mi occuperò io stesso. Mi prenderete come frate, padre? Sono vecchio e solitario, mia moglie è morta, i figli maggiori sono stati uccisi, quelli minori sono scappati. È tempo di pensare all’anima.

– ‐ Lo ritengo un onore! -‐

Tutti escono dalla biblioteca in assoluto silenzio. L’anno 897

Il figlio del re studiava con zelo. Sembrava che improvvisamente, sotto la pressione della futura responsabilità, fosse diventato adulto. Don Guevara era assolutamente meravigliato per l’acuta intelligenza del suo “trovatello”, per l’ampiezza di vedute, inconsueta alla sua età, la forza di volontà e, si potrebbe dire, il senso dello stato. Persino la sua postura si era modificata.

Un giorno, mentre studiavano la geografia chini su una mappa, improvvisamente il ragazzo alzò lo sguardo su don Guevara:

– ‐ Dove si trova la tua contea? Non ho trovato nessun posto con il nome “Guevara”.

– ‐ In verità non ho una contea -‐ rispose il cavaliere e raccontò all’allievo la sua storia, confessando, a tal proposito, che aveva inventato lui il cognome.

Il figlio del re si fermò un attimo a pensare, poi riprese:

– ‐ Tu sei un ladro, vero? Così dice l’abate. Mi hai rubato al destino.

– ‐ Mah! Si potrebbe dire anche così.

– ‐ Ladro… Però non sei un ladro qualsiasi, non hai rubato una cosa comune, ma l’erede al trono! Dunque non sei ladro, ma ladrone!

Il ragazzo sorrise con furbizia:

– ‐ E allora? Cosa hai inventato, maestà?

Anche don Guevara sorrideva.

– ‐ Guarda che cosa ho trovato: una zona che si chiama Latron! Quando salirò sul trono la donerò a te e diventerai il conte di Latron! Questo sarà il tuo vero cognome!

– ‐ Mi sono già abituato ad essere Guevara. E spero di continuare ad essere un buon guerriero. Presto te lo dimostrerò!

– ‐ Allora sarai Guevara Ladron! Ma promettimi che sarai soltanto mio guerriero!

– ‐ Promesso, maestà!


E così fu.

Capitolo II

Don Pedro

L’anno 1099

1

Egli ancora una volta non ha reagito all’appellativo di “conte di Latron”! Non riesce assolutamente ad abituarsi. Né il padre aveva dato il permesso di usare il nome di famiglia “Guevara”.

Il capostipite un giorno aveva promesso al figlio del re che non sarebbe mai stato un militare al servizio di qualcuno che non fosse lo stesso re. Proprio perché “Guevara” proviene da “guerriero”, “combattente”, nessun Guevara deve combattere per qualcuno che non sia il monarca spagnolo.

Invece adesso lui non stava combattendo propriamente per conto del re; tanto più che il re di Spagna non partecipava affatto alla spedizione. È questo il motivo per cui ora decide di chiamarsi temporaneamente conte Pedro Latron, che, grazie a Dio, è il secondo nome di famiglia.

In realtà lui non dovrebbe partecipare a questa campagna. La Spagna ha già abbastanza nemici e le forze per affrontare i Mori chiaramente non bastano. Ma il padre aveva un motivo particolare per mandarlo a liberare Gerusalemme…


Pedro siede sull’erba appoggiandosi all’albero con la schiena e osserva cupamente come l’acqua trasparente del piccolo fiume corre verso il mare. Non è contento né della una giornata calda e solare, né del pranzo gustoso e abbondante nella taverna, né dell’improvvisa possibilità di rilassarsi tranquillamente. Da quasi un anno non è contento di niente.

Sì, sono già passati trecentoquarantotto giorni, ma il giovane non può dimenticare come i Mori hanno buttato fuori della porta della città di Calaat-‐Rava il corpo deturpato della sua amata Miriam. L’aveva incontrata per la prima volta mentre passava con la pattuglia vicino al ruscello sotto le mura di Calaat-‐Rava. Era venuta a prendere l’acqua, e il conte Ladron aveva ammirato la sua fine ed elastica figura. Miriam notò il suo sguardo appassionato ma non si spaventò, non scappò via; si limitò a sorridere, abbassando gli occhi.

Da quel momento il giovane aveva sempre cercato di far parte della pattuglia presso il ruscello. E a lui sembrava che anche la ragazza cercasse di venire più spesso a prendere l’acqua. Passo dopo passo fecero conoscenza: all’inizio, incontrandosi, facevano un semplice cenno con il capo, poi si salutavano, più tardi cominciarono a scambiarsi qualche parola, non significativa ad orecchi estranei ma dolce carezza per gli innamorati.


Purtroppo qualcuno venne a conoscenza della simpatia “delittuosa” di Miriam per un

“infedele” e la giovane fu lapidata. Il suo corpo deturpato giacque a terra, al solleone, e le grandi mosche nere vi si riunivano per il sanguinolento banchetto…

Il padre ed i fratelli di lei cercarono di trattenere il giovane, ma lui salì in sella, si avvicinò alla ragazza, la sollevò in braccio e tornò indietro di corsa. Alle sue spalle fischiavano le frecce, ma lui, stordito dal dolore dell’anima, non si accorgeva di nulla.


Pedro portò il corpo nella chiesa del cimitero, ma il sacerdote rifiutò di seppellirlo nella terra consacrata: Miriam non era cristiana. Il giovane, senza dire una parola, si voltò e uscì dalla chiesa. Portò sulle braccia la ragazza al ruscello e la seppellì vicino al posto del loro primo incontro.


Da allora il suo carattere mutò notevolmente. Anche se non era mai stato un vigliacco, adesso era diventato semplicemente sconsiderato. Sembrava che cercasse la morte. In effetti era proprio così.

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