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Il Vero E Il Verosimile
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Il Vero E Il Verosimile

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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Sul momento Bruno aveva creduto che si fosse riferito alla nota promessa d’associazione in ditta. Non aveva affatto immaginato che ben altro si nascondesse in quella frase. Solo qualche tempo dopo avrebbe capito che notizie bugiarde giravano tra la gente.

Intanto, era arrivata per l'economia italiana la congiuntura negativa.

Il giovane s'era consultato con suo padre: "Mi pare che la ditta stia perdendo colpi; ha molti, anzi troppi crediti da incassare da clienti morosi. C'è la possibilità di una crisi di liquidità, e coi costi fissi che la fabbrica deve sopportare, come i nuovi macchinari ancora in gran parte da pagare, c'è rischio grave."

Papà Seta gli aveva risposto tranquillamente: "Intanto, è ovvio che non farai nessun contratto con tuo zio, anche se lui, ma ne dubito, lo proponesse. Poi, ti consiglio di stare per qualche mese ancora a vedere come si conducono le cose; un po' di tempo in più non cambia niente. Potrebbe essere solo una crisi passeggera. Dopo due anni, buttar via tutto senza verificare sarebbe sbagliato."

Bruno non gli aveva detto che, per la verità, l'ambiente non gli piaceva e che avrebbe preferito svolgere la libera professione paterna, pur rinunciando alla prospettiva d’essere ricchissimo; oltretutto, a differenza di molti, se era vero che gradiva un qualche agio, per nulla si preoccupava di possedere tesori, e tanto meno avrebbe provato un piacere nel mostrarli.

Sentendosi inesperto, non aveva però voluto rischiare uno sbaglio e aveva respinto quell'impulso. Era stato invece un buon sentimento, ché è sempre assai arduo riuscire a guidare un'industria senza compromessi ed era prima di tutto la coscienza che per Bruno, allora come sempre, contava. Di più, s'egli se ne fosse andato, si sarebbe forse allontanato in tempo da certi malevoli occhi e da certe bocche che, sia pur in buona fede, avrebbero gonfiato, di lì a poco, una menzogna contro i Seta, e avrebbe evitato, forse, quel dispiacere grande che, là in fabbrica e nei suoi paraggi, lo stava attendendo in agguato.

La polvere per costruire montagne, mescolata alla superstizione del cavaliere, avrebbe dato all'azienda Pittò la spinta decisiva per la caduta.

Dall'inizio del terzo anno in fabbrica di Bruno, l'aggravamento della crisi economica aveva indotto il prozio a cercare nuovi e importanti ordini che sostituissero quelli di clienti ormai inaffidabili o falliti. Improvvisamente, s'era ricordato d'una persona conosciuta a suo tempo, un dirigente d’uno degli stabilimenti cinematografici romani, di proprietà pubblica. Anni prima, in crociera con la moglie sull’Andrea Doria nel viaggio inaugurale di quella bella, sfortunata motonave, il Pittò s'era trovato allo stesso tavolo con lui e signora, e c'era stata fra loro una cordiale compagnia che assomigliava a un'amicizia e con la promessa, non mantenuta, di ritrovarsi. Era poi successo, per caso, anni dopo, che i due uomini, passando le acque a Montecatini, si fossero riconosciuti e che il dirigente avesse confidato al cavaliere d'essere vanamente alla ricerca di nuovi materiali, forti leggeri e poco costosi, per la realizzazione di artificiali paesaggi e falsi edifici, soprattutto per quei film d'ambiente classico o mitologico che allora erano di moda; avrebbe dovuto essere una sostanza che consentisse, inoltre, un realismo superiore a quello della cartapesta.

"È la mia polvere!" aveva detto fra sé il cavaliere, ma non gliel'aveva riferito; infatti la sua ditta era allora piena di ordini da evadere e in arretrato con le consegne ai clienti.

Adesso, invece, una commessa pubblica da Roma sarebbe venuta a puntino.

Il problema era rintracciare la persona, in quanto l'industriale ne aveva perso l'indirizzo né sapeva con certezza di quale stabilimento fosse a capo; per di più, il nome del dirigente era comunissimo.

Il dottor Fringuella, che era noto in fabbrica per l'abilità di saper raggiungere, all'occorrenza, persone dei più diversi ambienti, s'era incaricato dell'indagine e, nemmeno quattro ore dopo, aveva consegnato al principale, di fronte a un meravigliato Bruno, tutti i dati richiesti.

"È in gamba, no?" s'era compiaciuto col nipote un sorridente cavaliere, non appena l'altro s'era allontanato.

Il giovane, non riuscendo a vincere la curiosità, gli aveva chiesto maggiori notizie sul dottore, concludendo: "È possibile che una persona tanto abile abbia accettato uno stipendio così modesto?"

"Come, modesto?!" s'era scherzosamente stupito, ridendo soddisfatto, il cavaliere. "Abbiamo fatto un buon colpo, no?" e gli aveva strizzato l'occhio sano. Poi, per meglio mostrare la propria bravura nel trovare gente a basso costo, lo zio aveva raccontato, ma facendo prima giurare a Bruno che non avrebbe mai riferito perché, nell'assumere l'uomo, l'industriale s'era impegnato a tacere: "…ma tu sei l'erede e hai diritto d'essere informato."

Bruno aveva così saputo che il Fringuella aveva commesso, ormai scontato, un delitto contro la Repubblica: Anni prima era stato un abile, solerte e temutissimo funzionario delle imposte, incorruttibile dal punto di vista pecuniario. Purtroppo per lui, il dottore era afflitto da irresistibile organico priapismo e, per maggiore sfortuna, era stato a un certo punto comandato a un incarico alquanto tentatore. Erano gli anni '50, quando ancora si tolleravano le case chiuse, cioè i bordelli, e lo Stato se ne faceva vergognoso super lenone con gabelle e imposte sopra quel meretricio: il compito assegnato al Fringuella era stato proprio il controllo fiscale di postriboli. Non potendo soddisfare a sufficienza, per via del magro stipendio, le sue quasi irresistibili voglie, e pensando forse, come s'era poi maldestramente difeso, di "non commettere un grossissimo male, non avendo toccato denaro", era infine venuto meno alla propria onestà e s'era accordato con tenutarie di bordelli: avrebbe alleggerito le loro personali posizioni fiscali se gli avessero consentito, senza spese e a suo esclusivo beneplacito, l'uso fuori orario dei servigi di quei locali. Disgraziatamente per lui, quando quelle case erano state finalmente vietate dalla legge Merlìn, una lettera anonima l'aveva denunciato; e alcune delle ex tenutarie, interrogate in Questura, avevano spifferato tutto. Così il dottore, scacciato dai pubblici uffici, era stato condannato a quattro anni di reclusione, tutti scontati. Uscito finalmente di galera e ormai cinquantenne, non aveva trovato nient'altro che l'impiego sottopagato nell'azienda Pittò.

"Era sui giornali: non li leggevi, allora?" aveva concluso lo zio.

Bruno ricordava quel caso, ma non l'aveva collegato al Fringuella. Il cavaliere l'aveva invece ben in memoria perché, in un lontano passato, il dottore, incaricato di controllare le denunce dei redditi di artigiani, gli era stato potente avversario faccia a faccia negli uffici delle imposte.

Era per la trascorsa professione, dunque, che il direttore amministrativo godeva di vaste conoscenze e, grazie ai suoi antichi colleghi, aveva saputo rintracciare in fretta quel dirigente romano.

Dopo abboccamenti telefonici, contatti epistolari e l'invio di campioni, s'era destato l'interesse della controparte, grazie pure all'opera d'un amico del Pittò e suo agente di commercio per la zona Lazio-Umbria. In un tempo straordinariamente breve, era venuto l'assenso alla stipula del contratto e l'imprenditore, con Bruno al seguito come segretario portaborse, era partito per Roma a concludere l'affare.

Come nelle abitudini del parsimonioso industriale, ma solo quando nessuno poteva saperlo, la spesa era stata contenuta: viaggio notturno in ferrovia in vagone-cuccette di seconda classe. All'arrivo però, preso per il braccio il nipote, lo zio l'aveva trainato, senza che lui ne comprendesse la ragione, nella carrozza adiacente, una vettura-letto, dalla quale, con una strizzatina d'occhio, l'aveva autorizzato a scendere. C'era, e finalmente Bruno aveva compreso, l'amico di Roma ad attenderli.

Questi s'era incaricato d'accompagnarli all'ufficio della controparte e aveva poi atteso con pazienza che il contratto fosse firmato; quindi, li aveva condotti all'aeroporto. Il cavaliere aveva infatti in programma di tornare in aereo, nonostante il maggior costo, sia perché non era certo di poter sopportare la fatica d'un nuovo viaggio in treno, sia in quanto, la sera stessa, avrebbe avuto ospite in villa un importante cliente grossista.

Quel volo, sebbene in sé tranquillo, sarebbe stato per l'industriale estremamente sofferto, tutto vissuto con una mano stretta attorno al suo chiodo portafortuna.

Paura dell'aereo? Normalmente no, ma sì in quell'occasione: era infatti accaduto che l'amico, nel portarlo con Bruno all'aeroporto si fosse lasciato sfuggire, sottolineando divertito che a quelle cose lui per niente credeva, che il dirigente cinematografico aveva nera fama di iettatore potentissimo. Era a lui che i maligni attribuivano, per il solo fatto d'aver partecipato al viaggio inaugurale, il sinistro della modernissima Andrea Doria, affondata nell'oceano pochi anni dopo quella prima crociera. Il Pittò aveva tremato all'idea del pericolo che, senza saperlo, aveva corso durante quell'ormai lontana navigazione; ma era gelato addirittura all'immediato successivo pensiero del rischiosissimo, iellato volo che stava per intraprendere. Sceso dunque dall'auto dell'amico e congedatosi, aveva pensato per un poco, e seriamente, di prendere un taxi e tornarsene alla stazione ferroviaria, nonostante i biglietti aerei già pagati.

Bruno, che nessuna voglia aveva di altre lunghe ore in treno, e per di più di giorno, gli aveva allora insinuato, riuscendo a rimanere serio: "Ho letto le statistiche, ci sono moltissimi incidenti ferroviari; pensa che sono enormemente più numerosi di quelli aerei. Non parliamo poi neanche di quelli stradali, se si viaggia in pullman!"

Il cavaliere aveva immediatamente toccato chiodo e, poiché fare a piedi quelle centinaia di chilometri non si poteva proprio, dopo lunga riflessione aveva, infine, subìto di volare.

Solo all'arrivo avrebbe aperto bocca: "Siamo a terra e fermi, no?" e, all'assenso del nipote, avrebbe concluso: "Hai visto che erano tutte stupidaggini?" come se il superstizioso dei due fosse stato il giovane.

Vi sono persone, avrebbe ragionato anni dopo Bruno tornando con la mente all’episodio, che come il cavaliere si dichiarano atee perché, così affermano, esse sono concrete, positive o, addirittura, scientifiche; ma poi son quelle stesse, tante volte, che leggono ogni mattina l'oroscopo, non passano mai sotto una scala, sfuggono gatti neri e fiori bianchi e hanno almeno un portafortuna in tasca. Sovente questi esseri umani s’attirano guai proprio a causa della loro superstizione.

Giunto in ditta, il viso nuovamente rabbuiato, il Pittò aveva rinchiuso, tenendolo per due dita, il contratto in cassaforte.

"Allora, iniziamo a produrre?" gli aveva chiesto il perito Tirlotti.

"Un…m... un momento, domani ne riparliamo", era stata l'incertissima risposta del principale. Sceso sano e salvo dall'aeroplano, pur non temendo più per la propria pelle, era infatti nato nell'imprenditore un novello timore, che la fornitura al menagramo romano portasse disgrazia all’azienda.

Passavano i giorni e l'ordine di produrre non veniva.

"Cavaliere, cominciamo? Roma aspetta", interrogava lo stupito direttore tecnico.

"Hmm... non c'è fretta".

"Cavaliere", interveniva allora il direttore amministrativo, "scusi ma bisogna iniziare! Ci sarà certo un termine di consegna, no? e poi, i soldi ci servono!"

"Aah!" e il principale, allargando la bocca nel gemito, prendeva a battere alla sua maniera le palme delle mani fra di loro, più e più volte, e si allontanava con l'aria indignata.

Solo Bruno aveva intuito il motivo di quell'incertezza e, ben comprendendo il danno che alla ditta stava venendone, l'aveva confidato al Fringuella.

I rapporti fra i due s'erano, nel frattempo, guastati, il dottore aveva perso molto dell'iniziale rispetto per lui e lo chiamava ormai, intenzionalmente, Bruno invece di signor Seta. La causa? Certamente quell'infelice frase del Pittò sulla nomina dell'erede al suo posto e, ben probabilmente, anche le sopraggiunte difficoltà economiche della ditta. Il giovane, per reazione, aveva ricambiato l'antipatia; inoltre, conosciuto il suo passato, aveva perso la stima per lui. Tuttavia, il dottore restava pur sempre l'unica persona cui affidarsi per salvare la situazione. Infatti, nonostante il suo precedente penale, l'uomo riusciva non poco, unico fra tutti, a intimidire il principale, forse in memoria della fiscale carica censoria che aveva a suo tempo esercitato contro di lui; e non era da escludere che soprattutto per questo il cavaliere, inconsciamente, volesse liberarsene non appena possibile.

"Bruno, perché non m’ha avvertito immediatamente?" lo aveva, per prima cosa, rimproverato.

"Era solo un sospetto; e mi pareva talmente assurdo! Eppure, è l'unica spiegazione logica"; e gli aveva raccontato del viaggio in aereo.

"Non c'è più alcun dubbio", aveva sentenziato il direttore; poi, scuotendo la testa: "Son cose da non credere! e non sappiamo nemmeno come sia 'sto benedetto contratto! L'ha predisposto la controparte a Roma; io non ho neanche avuto l'onore di leggerne la bozza; e vuole che non ci siano penali per eventuali consegne in ritardo? È un'azienda a direzione pubblica, chi sa che ghigliottine!" e s'era seduto sconsolato. Poi, con un balzo d'orgoglio: "…ma lo sa che suo zio è proprio un incosciente? Glielo dica pure, e se non lo fa lei, lo farò io; anzi, ci vado subito!" S'era alzato e, alla bersagliera, aveva preso a girare corrucciato per tutto lo stabilimento alla ricerca del principale.

Per fortuna del Pittò, questi era assente.

Aspetta un giorno, aspettane due, il cavaliere non veniva. Allora il Fringuella gli aveva telefonato. In casa, soltanto la domestica: "I signori sono partiti per una vacanza."

"Una vacanza! Con tutto quello che c'è per aria?"

"Io non so cos'è per aria", aveva replicato la sconcertata fantesca mentre il dottore, senza neppur salutare, abbassava la cornetta.

"Ecco, adesso siamo proprio a posto. Bel parente che ha lei!" s'era sfogato con Bruno, come se la colpa fosse stata del giovane.

Finalmente, d'accordo col Tirlotti e testimone l'erede, era stata assunta l'ammutinata decisione di chiamare un fabbro a scassinare la cassaforte; intanto, senza più indugi, si sarebbe cominciato a produrre per Roma.

Uno dei principali compiti del giovane Seta era divenuto, intanto, quello di passare freneticamente da debitori dell'azienda a sollecitare pagamenti e, raramente, a incassare fatture, e molte volte pure villanie, correndo poi da notai a pagare cambiali del cavaliere prossime al protesto; infatti la crisi, o addirittura la bancarotta, di molti clienti per la congiuntura negativa ormai gravissima, aveva ridotto a un bicchierino la liquidità dell'industria Pittò.

Perciò, quando il ladro Dialzi era nuovamente venuto a elemosinare, l'ultima volta solo due giorni prima della spensierata vacanza del cavaliere, era stato finalmente allontanato e senza un soldo. Prima d'andarsene, aveva però detto al suo antico principale: "Ricòrdati quello che solo tu ed io sappiamo!" e il dottore e Bruno avevano sentito. "Si dànno del tu?!" s'era stupito il giovane.

Scassinata la cassaforte, dove peraltro il denaro era del tutto assente, e prelevato il contratto, mentre il Fringuella e il Tirlotti andavano a leggerselo in ufficio e il fabbro ripristinava i meccanismi della porta, l'erede era rimasto di guardia; e, nell'attesa, il suo sguardo era stato attratto da un pacchetto di lettere. Erano indirizzate allo zio e, come avrebbe poi capito, tutte di mano del Dialzi. Non vincendo la curiosità, dopo aver esitato per un minuto buono, le aveva prese e, un poco discosto, s'era seduto a leggerne una.

Iniziava così: Caro padre...

Il mittente preannunciava una sua prossima visita e invitava il cavaliere a preparare il denaro.

Bruno, visto che l'artigiano stava per terminare, s'era tenute le lettere per leggerle tutte e con comodo dopo il lavoro, sperando che lo zio rimanesse in vacanza ancora per qualche tempo. S'era fatto consegnare una delle due nuove chiavi, mentre aveva lasciato l'altra al Fringuella; il giorno dopo, avrebbe riposto le missive nella cassa blindata.

La sera, a casa, prima di cena, senza nulla dire al papà per timore d'esserne rimproverato, aveva letto. Le lettere cominciavano tutte col Caro padre e annunciavano una prossima visita in fabbrica del Dialzi; c'erano poi, diverse da missiva a missiva, considerazioni varie: rimembranze, l'ammissione d'avere l'invincibile passione del gioco, lamentazioni di miseria e richieste di perdono; in una, sottolineata, l'accusa al Pittò d’essere stato irriconoscente, ché molto della bellissima posizione che aveva raggiunto era da attribuirsi a lui, il sottopagato collaboratore tuttofare.

Era venuto in chiaro che il Dialzi era figlio naturale dell'industriale, avuto, prima del matrimonio con la prozia, da una donna che non era nominata, morta subito dopo il parto, e affidato immediatamente dal padre a un orfanotrofio, ma seguito poi sempre da lui che, alla giusta età, l'aveva preso con sé in azienda. Mai, però, l'aveva voluto riconoscere, perché troppo temeva il parere della gente: in quegli anni cose del genere potevano infatti chiudere l'accesso all'ambiente borghese, perché erano considerate colpe vergognosissime; non si pensava che, semmai, colpa era l’abbandonare un figlio come orfano.

Il cavaliere pagava il Dialzi per timore che rivelasse la sua origine? No, era invece per affetto e il figlio stesso lo riconosceva in quegli scritti. Semmai, doveva essere lui a non provare affatto amore per il padre naturale; anzi, tra le righe s'insinuavano disprezzo e rabbia. A suo tempo il Pittò, com'era chiaramente scritto, aveva fatto al figlio la promessa di lasciarlo erede. Poi, disgustato dai furti, scacciandolo, l'aveva ritirata; ma non col cuore di non più rivederlo. Neppure aveva resistito all'impulso di dargli denaro, almeno fin a quando ciò era stato possibile, e ufficialmente con la scusa d’un prestito da restituire non appena l'altro avesse trovato un nuovo lavoro.

Il Dialzi sarebbe morto tre mesi dopo lo scasso della cassaforte, sfracellato in un burrone sulla sua fuoriserie acquistata a cambiali, dopo aver perso gli ultimi liquidi in una bisca.

Bruno aveva riposto le lettere in cassaforte prima che il Fringuella, il quale aveva portato il contratto a fotografare, lo rimettesse a posto: a quei tempi, le comode macchine fotocopiatrici erano ancora un bel sogno.

Nulla mai Bruno avrebbe detto allo zio; si sarebbe confidato col padre, ma solo alla notizia della morte del Dialzi pubblicata dai giornali.

Il cavaliere era tornato al lavoro una settimana dopo l'apertura della cassa blindata e, trovatosi di fronte al fatto compiuto, era stato contento che gli altri avessero deciso per lui, perché la iella, come aveva detto al nipote fingendo di scherzare, sarebbe caduta su di loro.

Sebbene la produzione fosse ormai iniziata da giorni, forte era il timore di non riuscire a consegnare puntualmente; a suo tempo il principale avrebbe fatto meglio a recarsi a Roma col perito, invece che col nipote portaborse. Il Tirlotti avrebbe potuto manifestare alla controparte che il tempo fissato per la consegna era imprudentemente vicino e chiedere una scadenza un po' più distante; e se non fosse stato possibile, almeno non si sarebbe firmato il contratto. Peggio, s'era poi perso tal tempo all'inizio, che non era ormai probabile una spedizione puntuale.

Purtroppo l'accordo, come temuto dal dottor Fringuella, prevedeva, anche solo per un lieve ritardo, il mancato ritiro della merce, nessun pagamento e il diritto a una grossa cifra a titolo di risarcimento; e s'era riusciti a spedire a tempo soltanto un piccolo acconto di merce. Invano il direttore amministrativo aveva cercato d’ottenere dilazioni: il materiale doveva servire per un film storico colossal, coproduzione italo americana, qualche miliardo di lire d'allora di spesa2 , attori provenienti da mezzo mondo, e non si poteva ritardare neppure d'un giorno l'inizio delle riprese. Stavano usando la solita cartapesta al posto della polvere per costruire montagne, avevano sentenziato al telefono contro il dottore; quanto all'acconto, era loro pieno diritto contrattuale di trattenerselo, a titolo di prima rata del risarcimento. Proprio un bell'accordo ghigliottina aveva firmato il cavaliere! Insomma, era stato un disastro; e pensare che, con una sola settimana in più, lavorando a pieno ritmo si sarebbe riusciti. Colpa del Pittò, senza dubbio, per la sua maledetta superstizione.

Cosa fare? Un bel niente; erano stati gli altri che avevano fatto, e immediatamente: una severissima lettera del loro avvocato che domandava, perentorio, il saldo della penale.

Il cavaliere aveva impulsivamente accusato il dottor Fringuella d'aver dato ordine di produrre senza il suo consenso: "...e adesso potrei chiedere io i danni a lei, per la merce trattenuta dal cliente e quella invenduta nei magazzini!"

"Lei è un imbecille!" gli aveva sparato in risposta, insultandolo per la prima e non ultima volta, l'inviperito direttore amministrativo, con la bocca a pochi centimetri da quella del principale e spruzzandogliela di saliva e fiele.

Intimidito, girati i tacchi, l’altro se l'era svignata, battendo come al solito le mani tra di loro, ma debolmente e solo sospirando: "Schifoso, schifoso..."; però, non appena l'imprenditore era svoltato nel vicino corridoio, il rumore dei suoi passi, improvvisamente, era stato coperto da un altro inequivocabile suono, il rintronare d'una formidabile, intrattenuta scoreggia e a questa era seguito, quasi altrettanto potente, un disperato: "Dottore delle palle!"

Il Fringuella era corso verso la voce, ma giunto al corridoio non aveva più trovato nessuno, talmente il cavaliere era stato lesto nell’eclissarsi.

Negli ultimissimi tempi il direttore aveva preso, o ripreso, a bere smodatamente, non solo a pranzo ma, come si capiva dall'alito al suo arrivo, fin dalla prima colazione. Era quindi divenuto, a poco a poco, nient’affatto utile alla ditta, per non dire dannoso; e aveva preso l'abitudine d'aggredire, a parole, non solo il Pittò ma pure l'erede. Bruno si chiedeva se l'uomo, sotto spirito alcolico, vedesse per caso riflessa su di lui parente l'immagine dello zio e lo colpisse per toccare indirettamente l'ormai spregiato principale. Forse sì, ma non era solo quel pensiero a muovere il dottore alla villania. Un giorno l'uomo s'era scoperto, scoccando contro il giovane, freddo, freddo e fissandolo negli occhi: "Son due mesi che i dipendenti non vengono pagati, me compreso. Perché suo padre non finanzia la nostra azienda? Non le pare che sarebbe doveroso?"

"…ma cosa dice?!" s'era allarmato Bruno.

"Dico, caro mio, che la vostra posizione è dovuta al Pittò, ed è ora che ricambiate."

"La nostra pos..."

"Sì, parlo turco? La vostra posizione. Lo sanno tutti che fu lo zio a finanziare a fondo perduto l'ufficio del dottor Seta" – Bruno era a bocca aperta – "e che fu lui a regalarvi l'alloggio dove abitate, per affetto verso la sua defunta mamma, che trattava come la figlia che non aveva potuto avere dalla moglie."

"La figlia, la moglie, la mamma... Si riferisce forse a mia madre?"

"Sì; perché, lei non ha avuto forse una mamma?" l'aveva dileggiato con un ghigno.

"…ma se il cavaliere ha conosciuto mia zia quando mia madre era già morta!"

Il Fringuella stava per replicare, ma il giovane: "Lo studio era già addirittura di mio nonno e così pure l'appartamento. È chiaro o no?"

Il dottore l'aveva fissato, storcendo di più la bocca in un peggiore sogghigno, come a dirgli: "A chi la racconti?"

Bruno s'era irrimediabilmente adirato: "La pianti di guardarmi in ‘sto modo, deficiente!"

L'altro allora, ad alta voce come lui, ma senza alzarsi dalla sedia dov'era stravaccato: "Bugiardo! Sono anzi convinto che, in questo momento, il Pittò stia nascondendo dei soldi presso suo padre, in attesa del fallimento."

"È pazzo?" e, preso lo schienale con le due mani, aveva rovesciato a terra il Fringuella. Poi, era corso a cercare lo zio. In verità, s'era subito dispiaciuto di quell'aggressione: in fondo, l'uomo era di certo brillo e non era più un ragazzo. Non poteva, però, tornare a scusarsi: sarebbe stato come far intendere al direttore ch'egli avesse avuto ragione in tutto. Il rimorso gli sarebbe rimasto.

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