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La Casa Sulla Chiusa
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La Casa Sulla Chiusa

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Erano le prime ore del pomeriggio, il sole alto nel cielo riscaldava l’aria ma non si percepiva l’afa. L’umidità nell’aria era minima, nonostante la vicinanza al corso d’acqua. Urs sfoggiava il suo solito bel sorriso. Invitandoci ad accomodarci, si scusò dicendo che si sarebbe assentato alcuni minuti per preparare l’aperitivo. Dall’interno della casa, attraverso la piccola finestra lasciata parzialmente aperta, proveniva il suono sordo del coltello che Doris armeggiava mentre tagliava cubetti di formaggio e pane biscottato intriso di olio e spezie. Il coltello sembrava urtare un piano di lavoro realizzato in pietra viva, ad intervalli tanto regolari da essere confondibili con quelli prodotti da una macchina piuttosto che da un braccio umano. Mia moglie ed io ci guardavamo restando in silenzio, provando un senso di profondo assopimento, di rilassamento. Solo due ore di permanenza sul posto ci avevano già fatto perdere completamente il legame con la realtà di vita cittadina che sembrava quasi non appartenerci più.

«Ma può davvero esistere tutto questo? Sto forse vivendo un sogno?», esclamò Sonia a bassa voce, forse per non farsi sentire dai proprietari che, comunque, non avrebbero compreso le nostre parole.

«E’ un’incredibile realtà che credevo ormai perduta nei tempi e dispiega proprio qui davanti ai nostri occhi con ricchezza di particolari. Non vi è nulla da aggiungere. Godiamoci tutto questo, amore. Tutto e solo per noi», risposi stringendo le sue mani tra le mie.

Urs ricomparve tenendo in mano due bottiglie, una di vino bianco e l’altra, già aperta in precedenza, contenente un vino piuttosto denso, di un colore rosso molto intenso. Ci spiegò che si trattava di un liquore di more prodotto nella sua tenuta, dalla gradazione alcolica molto forte. Era solitamente utilizzato per “tagliare” altri vini o per preparare dei cocktail, aperitivi o dolci. Raramente veniva bevuto così com’era, anche per via del sapore leggermente acre. Versato circa un centimetro di questo liquore nei bicchieri, riempì il resto del calice con il vino bianco, formando un miscuglio dal colore molto simile al vino rosato. Il sapore pungente ma molto gradevole conservava quasi inalterata la gradazione alcolica del liquore, solo minimamente ammorbidita da quella notevolmente più contenuta nel vino bianco. Doris uscì dalla casa portando in trionfo un vassoio colmo degli stuzzichini di formaggio e pane preparati qualche minuto prima. Dopo gli auguri di rito, cominciammo ad assaporare il tutto, lasciandoci completamente trasportare dai sapori, dagli odori, dal canto delicato e discreto degli uccelli, dal fruscio prodotto dallo strofinio delle foglie degli alberi sospinte dai soffi di un venticello che cominciava a farsi apprezzare, temperando l’aria. Qualche piccola nuvola bianca macchiava il cielo fino a quel momento azzurro, smorzandone una monocromaticità totalmente privata di confini. Discutemmo di molte cose, della nostra vita di città, del nostro lavoro. Urs e Doris ci raccontarono parte del loro passato, illustrandoci i percorsi e le scelte che li avevano condotti lì in quel paradiso. I loro stati d’animo ci arrivavano direttamente al cuore, accompagnati a destinazione dalle loro parole. Amavano quel posto, si sentivano parte di esso. E la luce che brillava nei loro occhi, i loro sorrisi e l’allegria che mostravano in ogni situazione ce lo confermavano ad ogni istante, anche nei giorni che seguirono. Vivevano una vita vera, una vita piena nella sua semplicità. Mai scorderò un’immagine che mi si è incisa a fuoco nella mente mentre guardavo Urs. Teneva il calice mezzo pieno tra le mani, con lo stelo poggiato sul tavolo. Il suo sguardo, perso verso l’orizzonte, regalava un leggero sorriso prodotto dai pensieri che in quel momento gli passavano per la mente. Pensieri sicuramente di delicata importanza, sgomberi da problemi di ogni sorta. Nel bicchiere il sole disegnava macchie di luci e ombre animate dall’ondeggiare del vino sospinto dai movimenti della mano. Urs portava il bicchiere alla bocca senza nemmeno guardarlo, totalmente assorto nei suoi disegni, quasi estraniato. All’opposto Doris parlava senza sosta, solo minimamente interrotta da una sigaretta che aspirava con regolarità.

Alla fine li salutammo ringraziandoli, per poi ritirarci in casa a riposare un po’ in attesa dell’arrivo della frescura serale. Dopo una sola giornata avevamo già raccolto così tante emozioni da riviverle anche di notte nei nostri sogni.

CAPITOLO 3

L’amicizia è uno dei doni del cielo all’umanità “Le montagne non si incontrano, ma gli uomini sì”.[Samburu, Kenya]

Tra amici cadono le barriere che di solito chiudono gli individui nel loro piccolo recinto. Non ci sono segreti tra amici: “Se ci si ama, non si nasconde la nudità”.[Mongo, RD. Congo]

L’oscurità totale della notte lasciava spazio alle tenui luci di una timida alba. Le prime chiazze di una luce priva di sorgente, formate solo dal chiarore che risaliva le colline, a fatica si facevano spazio passando tra le folte chiome degli alberi. Come un lenzuolo, un sottile e uniforme strato di bassa nebbia ricopriva il campo di grano lievemente inumidito dalla rugiada del mattino. Si era creata un’atmosfera tipica dei paesaggi nord europei, quelli che si vedono spesso sulle cartoline e sui libri di fotografia. La chiusa era deserta e il flusso d’acqua attraversante le bocche di scarico era ridotto al minimo. Un leggero venticello manteneva l’aria fresca in quella mattina, sollevando pian piano la nebbia fino a farla scomparire. Le tenere spighe di grano dorato, così riscoperte, erano illuminate dai raggi del sole ormai alto e libero in cielo. Erano solo le sette del mattino ma si percepiva il ritardo che la luce del sole aveva rispetto a quello che vedevo nelle mie mattine milanesi. Un coniglietto selvatico saltellava in modo irregolare sul sentiero, di fronte alla porta di casa. Probabilmente, pensai, era alla ricerca di cibo. Dal frigorifero presi una piccola carota e la posai fuori dalla porta, a terra sullo spiazzo prospiciente la stradina. Lo feci con cautela, perché non si spaventasse e scappasse via. Mi fissava con i suoi piccoli occhi, neri e tondi, il corpo impietrito, pronto a scattare via in fuga se necessario. La mia presenza lo inquietava, era evidente. Tuttavia non se ne andava. Posata la carota, lentamente, indietreggiai senza distogliere il mio sguardo dal suo. Quando fui sufficientemente lontano, invece di prendere la carota scappò via in gran volata. Lì per lì pensai fosse stato disturbato da qualcosa di diverso, forse un rumore che io non avevo percepito o forse un animale che si muoveva nel campo. Rimasi solo a guardare la carota posata a terra, quindi mi girai e tornai in casa, raccontando l’accaduto a Sonia. Incredula si affacciò alla finestra, e vista la carota abbandonata scoppiò in una sonora risata.

Facemmo colazione in tutta tranquillità, riservandoci tutto il tempo necessario, discutendo su quello che avremmo fatto durante la giornata: perlustrazione della zona in bicicletta, macchina fotografica alla mano, restando a pranzare fuori al sacco in mezzo a uno dei tanti campi variopinti oppure in qualche area di ristoro nei villaggi vicini. Avremmo eventualmente chiesto indicazioni ai pescatori lungo la via. Usciti sul sentiero, mentre chiudevo la porta di casa, notai che la carota era sparita. In un primo momento ne rimasi stizzito, ma subito dopo mi lasciai andare in un sorriso. Non potevo di certo aspettarmi dei ringraziamenti dal coniglietto per avergli donato una carota. Abituato alla sua libertà, è anche sicuramente poco avvezzo a qualsiasi forma di rapporto. A volte non ringraziano nemmeno gli uomini, come potevo pensare che un animale selvatico riuscisse a farlo? Eppure, pensai, è tornato e ha accettato con fiducia il mio dono. Ripensai ai suoi occhi e all’intensità di quell’immobile sguardo, capii che quello era il suo semplice ma sincero modo per dirmi grazie. Gli uomini, spesso, girano di spalle e se ne vanno.

Prese le nostre biciclette partimmo ad energiche pedalate, percorrendo i sentieri più o meno sassosi e tortuosi, fiancheggiando il torrente e riudendone il canto incessante, salutando ricambiati, a voce o con sorrisi, le persone che ci guardavano dai ponti delle chiatte che superavamo in velocità. I pescatori ci osservavano con sospetto, forse disturbati dal nostro chiassoso passaggio che, in qualche modo, annientava la loro soporifera attesa. Superavamo ponti secolari che mostravano la roccia viva scolpita dal tempo, con gli spigoli smussati dalle piogge e dai venti. Forte ma intangibile ci arrivava il profumo dei materiali provenienti dal passato. Era impossibile scorgere automobili o anche solo percepirne il rumore dei motori, tanto lontani eravamo dalle principali arterie stradali. Nel nostro tragitto abbiamo superato parecchie chiuse, tra loro tutte molto simili. Dopo aver percorso una ventina di chilometri, sentivamo la necessità di fare una piccola sosta. Decidemmo quindi di raggiungere la chiusa successiva per chiedere quanto distasse il primo paesino o villaggio nella direzione percorsa dal nostro sentiero. Arrivammo alla chiusa che distava altri cinque chilometri dal punto dove c’eravamo in precedenza fermati per recuperare il fiato. Come ci aspettavamo, c’era la casa del suo custode. Nelle sue dimensioni, nei colori e nella forma, era molto simile a quella in cui soggiornavamo noi. Tuttavia il giardino era molto più ampio e curato, ricco di roseti variopinti. Le piante, già abbondantemente fiorite, dipingevano macchie di colore che da terra si allungavano fino a due metri d’altezza. Sfumavano dal bianco candido al rosso fuoco, passando per due diverse tonalità di giallo, quasi arancio, e di rosa. Le mura della casa, così come i pergolati, erano interamente ricoperte di glicine. I suoi fiori a grappoli di un bel colore lilla intenso e nel pieno della fioritura, spuntavano da un letto di foglie verde pastello, donando alla casa un senso di assoluta freschezza. I davanzali delle piccole finestre erano adornati con vasi di gerani, anch’essi multicolore. I fiori, ancora parzialmente chiusi, attendevano il tempo giusto per mostrarsi in tutta la loro bellezza. Sul lato opposto della casa, proprio là dove terminava il roseto, si scorgeva un orto. Forse era solo la piccola parte di un terreno molto più grande, nascosto ai nostri occhi dalla casa. Un bambino faceva la spola tra l’interno e l’esterno della casa, portando a due mani un annaffiatoio con il quale bagnava i gerani. L’aria fresca intorno a noi era impregnata da profumi, un miscuglio di fragranze tra le quali si distinguevano con facilità la menta e la salvia.

Con minimo accenno della voce, per non disturbare eccessivamente, attirai l’attenzione del ragazzino che, sentendosi chiamare da un estraneo, rimase un poco attonito. Non sembrava tanto intenzionato a parlare con noi, tant’è che ci mandò un chiaro cenno di aspettare e corse in casa per poi uscirne accompagnato dalla madre. Attraversato l’uscio, totalmente incurante della nostra presenza, tornò ai suoi gerani mentre la madre si avvicinava a noi. Era una bella donna dai capelli neri, piuttosto alta e snella ma non magra. Tuttavia mentre si avvicinava a noi, cominciavano a intravedersi i lineamenti e i segni lasciati dal tempo sul suo viso. Non doveva essere tanto giovane ma di certo era ben curata nell’aspetto. Forse le fatiche fisiche avevano precocemente lasciato le loro firme indelebili sul suo corpo. Non potevo saperlo né tantomeno in quel momento m’interessava, quindi smisi di pensare e mi preparai al dialogo con lei mentre un timido sorriso compariva sul suo volto.

«Buongiorno! Cercate qualcuno?», esclamò, mantenendo sulle labbra quell’interrogativo, in attesa di una nostra risposta.

«Buongiorno a lei signora. La prego di scusarci se le abbiamo recato del disturbo. Saprebbe indicarci quanto dista da qui il prossimo villaggio e quale direzione dobbiamo prendere? Conviene proseguire lungo il sentiero oppure dobbiamo deviare? Vede, siamo alla ricerca di un posto per fermarci a riposare un po’, per mangiare e comprare qualche bibita fresca. Non ci dispiacerebbe poter fare anche una passeggiata se possibile, per vedere qualche cosa. Abbiamo attraversato un villaggio che dista ormai circa dieci chilometri, non vorremmo tornare subito indietro percorrendo tanta strada a vuoto», replicai rassicurandola.

«Si ce ne sono alcuni, certamente. Vedo però che siete in bicicletta e sembrate anche piuttosto stanchi. Raggiungere il prossimo villaggio potrebbe provarvi ulteriormente e arrivereste davvero sfiniti al villaggio. E poi, non dovreste anche tornare indietro? Da dove provenite?», chiese. Aveva tutte le ragioni del mondo.

«Soggiorniamo a Gissey, arriviamo dalla chiusa 34s signora», esclamai fiero, quasi mi sentissi un esperto padrone del posto in cui posavo i miei piedi in quel momento.

«Ah, capisco! E’ la casa di Urs e Doris. Brave persone davvero», replicò. «Secondo me ne avete già percorsi tanti di chilometri, vi consiglierei di non proseguire oltre, almeno per oggi. Comunque la decisione spetta a voi. Mi sembra di percepire il dolore che sentite nelle vostre gambe e sui vostri fondoschiena!», continuò, sempre guidata da una fonte di divertimento contagioso che portò subito anche noi due a ridere di gusto mentre confermavamo la sua assunzione producendo una comica smorfia di dolore sulle nostre facce.

«Sentite ragazzi, le bibite fresche le abbiamo anche noi, l’unica differenza è che non sono in vendita quindi dovreste accettare la nostra ospitalità», disse divertita, «Se vi fa piacere unirvi a noi, siete i benvenuti. Non mordiamo, potete stare tranquilli!», disse infine con viso rassicurante e sincero.

«Ci sembra brutto approfittare di tanta gentilezza, signora…»

«Giselle, mi chiamo Giselle!», m’interruppe tendendoci la mano per presentarsi e attendendo che noi facessimo altrettanto.

Ci presentammo e dopo aver ringraziato fino alla noia, la seguimmo. Ci fece accomodare a uno splendido tavolo in pietra costruito sotto un porticato che completava il lato sulla destra della casa fino a raggiunger quasi il recinto del giardino della proprietà. Anche da quel punto si potevano scorgere la chiusa e il torrente poco distante, immersi nel verde dei campi e degli alberi. Nessuna collinetta, tuttavia, limitava la vista fino alla linea dell’orizzonte, permettendo all’occhio di spaziare, oltre i confini. Solo un movimento a sbalzi irregolari privava il terreno di quella piatta monotonia delle distese pianeggianti. Spingendo l’occhio ad andare oltre la linea dell’orizzonte, si notavano coltivazioni. Erano visibili solo perché leggermente rialzate rispetto al suolo e mostravano delle tinte di verde più scuro. Si trattava di vitigni molto fertili, nei quali si produceva il buon vino di Borgogna.

«Attendetemi qui per qualche istante, vado a prendere Monsieur Jacques. E’ mio padre. Lui si definisce uno dei più grandi chiacchieroni di Francia o forse d’Europa. Io invece lo ritengo essere davvero un uomo molto saggio, imparerete a conoscerlo», disse divertita e con fierezza al tempo stesso.

Non ho mai saputo se in questo lei si sentisse simile al padre oppure no, la figlia “saggia” di un uomo saggio. Forse esprimeva una saggezza diversa da quella del padre. Il tempo mi avrebbe suggerito la risposta. Sonia ed io ci guardammo in viso, divertiti da tanta allegria ma anche sorpresi da quell’ospitalità così inaspettata. Tememmo vagamente l’imbarazzo di quella situazione, soprattutto nei confronti del saggio, o chiacchierone, Monsieur Jacques.

«Papà, oggi ci sono amici a tavola con noi!», avvisò Giselle subito dopo aver varcato l’uscio, in direzione di una stanza che non riuscivo a identificare.

Ho sempre ritenuto che amicizia e fiducia fossero tra loro strettamente legate, due doni che le persone ricevono e concedono solo con il passare del tempo. La semplice conoscenza non implica necessariamente l’amicizia e la fiducia. Non ci può essere istinto in un rapporto di amicizia perché non si può misurare la cosiddetta “sensazione di pelle”. L’amicizia deve essere provata, dimostrata e condivisa. Altrimenti si tratta solamente di un rapporto unilaterale. Mi riferisco a quella forma di amicizia che implica la complicità e che a volte crea anche attrito tra due persone, l’amicizia nella sua forma più vera. Associo poi la fiducia al carburante necessario per far sì che l’amicizia possa andare avanti, permettendole di nascere, di svilupparsi, di evolvere verso sentimenti ancora più importanti, più profondi. Senza questo carburante non si può procedere, tanto vale quindi scendere e continuare a piedi, ma da soli. Osservando il film dei miei anni ho visto e sentito storie di persone che hanno donato la vita per l’amicizia, amando l’amico ancor più di se stessi. Ho visto persone svuotarsi di tutto pur di condividere le cose con i propri amici e mi son chiesto se anch’io al posto loro fossi stato capace di fare altrettanto. Forse avrei perso la sfida con me stesso, non so, ma di certo non ho ancora avuto una vera occasione per mettermi alla prova. Ho anche sentito di storie tradite, forse perché quel sentimento di amicizia era vissuto in modo diverso dalle persone in gioco, forse a senso unico, o forse per qualcuno l’amicizia era molto più sinonimo di buona opportunità e, come tale, da sfruttare a piene mani. Tuttavia non mi meraviglia tutto ciò. La lotta per la sopravvivenza della specie è scritta nel DNA dell’animale, sia esso uomo o bestia. Si lotta per sopravvivere e per andare avanti, “morte tua è vita mia”. Poco importa, a volte, di chi ne paga le conseguenze. E’ un processo di selezione naturale, questo è stato nei millenni passati e questo non cesserà mai d’essere in quelli futuri. Ci nascondiamo dietro quest’alibi e non ci preoccupiamo più degli effetti che ne possono derivare. Ho sentito infine anche di storie di amicizia ricambiata, casi davvero rari e il più delle volte parte di favole; quando reali, esaltati e idealizzati al pari di racconti leggendari. Suscita meraviglia il fatto che, a fronte di una bella storia di amicizia, si tenda a romanzarci sopra, a farne dei film, a creare miti da esporre e utilizzare come riferimento, ogni volta che le cose non evolvono come ci si aspetta, dispiegandosi nella stesura di chilometriche poesie o prose poi destinate alla vendita. Miti, grandi esempi di vita da emulare, da seguire. Non dovrebbe essere questa la “normalità”? Se penso a una persona, la considero mia amica, intendo dire che questa persona è come me, al pari mio. Altrimenti utilizzo un altro termine per catalogarla, preferisco chiamarla “conoscente”. E la fiducia quindi, come si pone, dove entra in gioco, quale posto occupa? La fiducia che riponiamo in un amico vero e non solo supposto tale, può essere la stessa riposta in un semplice conoscente? A mio modo di vedere le cose e in seguito alle esperienze, la risposta non può essere altro che negativa.

L’amicizia e la complicità sono cose di vecchia data. Fin da quando l’uomo ha iniziato a camminare sulla Terra per vivere, o meglio per sopravvivere, ha avuto bisogno di un compagno al suo fianco. L’uomo preistorico per cacciare doveva essere sempre affiancato da un compagno o più simili per braccare e poi uccidere la sua preda. Aveva capito che da solo non avrebbe potuto abbattere la sua grossa preda, avrebbe al contrario rischiato di morire. Il legionario romano doveva affidarsi alle capacità dell’intero plotone per creare la “testuggine” e quindi difendersi dal nemico in battaglia. Persino in ambito letterario e artistico l’amicizia ha ispirato l’uomo nella creazione delle sue più grandi opere. L’uomo per sua natura non riesce a vivere da solo, ha bisogno del branco. Esistono alcune persone che preferiscono rimanere da sole, forse proprio per via della diffidenza che nutrono verso altri, oppure per necessità di realizzare un proprio isolamento alla ricerca spirituale di se stessi, senza esporsi ai condizionamenti esterni. Riporto qui un passo di Cicerone che, seppur datato, consegna ai nostri occhi un messaggio ancora molto moderno:

“L’amicizia non è altro che un’intesa sul Divino e sull’umano, congiunta a un profondo affetto. Eccetto la saggezza, forse è questo il dono più grande degli Dèi all’uomo. C’è chi preferisce la ricchezza, chi la salute, chi il potere, chi ancora le cariche pubbliche, molti anche il piacere.[…] C’è poi chi ripone il bene supremo nella virtù: cosa meravigliosa, non c’è dubbio, ma è proprio la virtù a generare e a preservare l’amicizia e senza virtù l’amicizia è assolutamente impossibile. […] L’amicizia non può esistere se non tra gli onesti. Infatti, è proprio dell’uomo onesto, che è lecito chiamare saggio, osservare che non vi sia niente di finto o simulato; infatti, è proprio degli animi nobili persino odiare apertamente piuttosto che celare il proprio pensiero dietro un falso aspetto. Inoltre non solo respinge le accuse fattegli da qualcuno, ma non è neppure sospettoso, pensando sempre che l’amico abbia commesso qualche errore. Conviene aggiungere, infine, la dolcezza di parola e di modi, condimento per nulla trascurabile dell’amicizia. […] Degno di amicizia è chi ha dentro di sé la ragione di essere amato. Specie rara! […] Di tutti i beni della vita umana, l’amicizia è l’unico sulla cui utilità gli uomini siano unanimemente d’accordo.[…] Tutti sanno che la vita non è vita senza amicizia, se almeno in parte si vuole vivere da uomini liberi. L’amicizia, infatti, si insinua, non so come, nella vita di tutti e non permette a nessuna esistenza di trascorrere senza di lei. Anzi, se un uomo fosse di indole tanto aspra e selvaggia da rifuggire da ogni contatto umano e da detestarlo, non potrebbe tuttavia fare a meno di cercare qualcuno cui vomitare addosso il veleno della sua acredine. Allora è vero quanto ripeteva, se non erro, Archita di Taranto: “Se un uomo salisse in cielo e contemplasse la natura dell’universo e la bellezza degli astri, la meraviglia di tale visione non gli darebbe la gioia più intensa, come dovrebbe, ma quasi un dispiacere, perché non avrebbe nessuno cui comunicarla”. Così la natura non ama affatto l’isolamento e cerca sempre di appoggiarsi, per così dire, a un sostegno, che è tanto più dolce quanto più caro è l’amico.[…] In realtà, i rapporti di amicizia sono vari e complessi e si presentano molti motivi di sospetto e di attrito; saperli ora evitare, ora attenuare, ora sopportare è indice di saggezza. Un motivo di risentimento in particolare non va inasprito, per poter conservare nell’amicizia vantaggi e lealtà: bisogna avvertire e rimproverare spesso gli amici e, con spirito amichevole, bisogna accettare da loro gli stessi rimproveri se sono ispirati dall’affetto. Se, dunque, è indice di vera amicizia ammonire ed essere ammoniti – e ammonire con sincerità, ma senza durezza, e accettare i rimproveri con pazienza, ma senza rancore -, allora dobbiamo ammettere che la peste più esiziale dell’amicizia è l’adulazione, la lusinga e il servilismo. Dagli tutti i nomi che vuoi: sarà sempre un vizio da condannare, un vizio di chi è falso e bugiardo, di chi è sempre pronto a dire qualsiasi cosa per compiacere, ma la verità mai”.

L’amicizia è innanzitutto una comunicazione tra due persone che condividono passioni, situazioni comuni, che nel bene e nel male si sopportano a vicenda durante il lungo percorso della vita. Uso il termine “sopportarsi” perché tra persone vi sono sempre delle divergenze che possono far riflettere e crescere allo stesso tempo, ma anche provocare l’allontanamento, a volte anche definitivo, nei casi più gravi nei quali svanisce la fiducia, suscitando l’incomprensione degli uni verso gli altri. Purtroppo ci si rende conto dell’importanza degli amici solamente quando questi c’ignorano, quando si percepisce il loro allontanamento dalla nostra vita. In altre parole ci brucia la mancanza di un’amicizia quando ci si rende conto di averla perduta per sempre. A poco servono le scuse. Possono ricreare il dialogo, permettono forse di riallacciare i rapporti fisici, ma non riportano indietro la fiducia perduta. Come le ferite causate dalla lama di un pugnale, se pur rimarginate con il tempo, restano visibili per tutta la vita. L’amicizia è un bene prezioso che va alimentato giorno per giorno, è in continua evoluzione tanto che grazie a esso non ci rendiamo nemmeno conto dello scorrere del tempo. Plauto diceva: “Dove sono gli amici, là sono le ricchezze”, e per essere tale l’amicizia deve essere vissuta, costruita e non contemplata al pari di un monumento o di una generica meraviglia naturale. Non si può essere spettatori di un’amicizia, bisogna indossare i panni dell’attore e onorare la propria parte sulla scena, fino alla conclusione dell’atto, fino a quando non cala il sipario. Bisogna farlo sempre in prima persona, mettendosi in gioco, forse a volte sbagliando o rischiando di essere traditi. Si può rimanere estasiati alla visione di un’aurora boreale, ma non di certo indifferenti di fronte all’immagine di due cuccioli di cane e gatto che reciprocamente si coccolano, mentre giocano inconsapevoli della loro diversità e del loro futuro “avverso/avversario”. A volte cerchiamo le persone perché sappiamo che con loro la giornata sembra essere più serena, ogni evento più lieto. Non ci rendiamo conto forse che essi sono dei potenziali amici. Così, d’improvviso lo diventano e basta, senza nessun tornaconto, per noi e per loro. Secondo le leggi dell’Economia il “donare” è cosa buona solo se gli corrisponde sempre un “ricevere”. Nella vera amicizia disinteressata vi è invece un continuo donare e il modo in cui si fa vale di più di ciò che si dà.

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