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La Casa Sulla Chiusa
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SAGGISTICA - NARRATIVA

LA CASA SULLA CHIUSA

Prima Edizione – Settembre 2012

© Copyright 2012 – Andrea Calò (@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it)

ISBN: 9788873042860

Andrea Calò

LA CASA SULLA CHIUSA

Û©

Immagini di vita interiore

Edizioni TEKTIME

Alla mia sorellina Elena,

che per l’assurda volontà della Vita

non ha ricevuto dalle mie mani una copia

di questo libro per poterlo leggere,

ma che abita così tanto nel mio cuore

da essere arrivata al punto di

poterlo scrivere.

[Elena Calò, 1 Maggio 1985 – 25 Settembre 2011]

Indice

  SAGGISTICA - NARRATIVA

  RINGRAZIAMENTI

  CAPITOLO 1

  CAPITOLO 2

  CAPITOLO 3

  CAPITOLO 4

  CAPITOLO 5

  CAPITOLO 6

  CAPITOLO 7

  CAPITOLO 8

  CAPITOLO 9

  CAPITOLO 10

  EPILOGO

  TEKTIME

RINGRAZIAMENTI

Scrivere un libro è come partire per un viaggio. Si fanno le valige, si parte da un punto preciso e si procede cercando di raggiungere il punto d’arrivo, la meta desiderata. Ma come a volte accade durante un viaggio, le insidie, gli errori, le paure e gli imprevisti sono lì pronti a sorprenderci, a frenarci, a volte al punto di farci desistere dal proseguire. Con l’aiuto delle persone che ci stanno accanto o a quelle incontrate lungo la strada, si riesce tuttavia a venirne fuori, a volte con facilità, altre volte con estrema pena; ma non ci si siede mai sull’errore, per non perdere l’investimento fatto. Durante questo viaggio ho avuto diverse persone al mio fianco, tutte mi hanno spronato e incoraggiato a continuare il cammino, a realizzare quel sogno che da tanti anni tenevo chiuso in un cassetto, permettendomi di aprirmi completamente ad esso, al mio progetto.

Grazie a mia moglie Sonia che più di tutti ha creduto in me, da sempre, per la paziente lettura delle bozze avvenuta sin dalle prime fasi di preparazione di questo testo. Se non fosse stato per lei, oggi questo libro non esisterebbe.

Grazie a mio cognato Enzo, per avermi accompagnato in piacevoli discussioni sugli argomenti trattati nel libro e per avermi donato una parte di un suo elaborato perché potesse entrare a far parte di questa trattazione: con la sua chiarezza di pensiero mi ha spesso guidato aiutandomi a sbrogliare la matassa.

Grazie ai miei genitori, che mi hanno donato la vita, mi hanno cresciuto e istruito, permettendo che tutto questo si trasformasse in realtà.

E infine, ma non da ultimo, grazie a te Elena, per aver istruito il mio cuore e guidato la mia mente durante tutto questo percorso: qui dentro c’è davvero una grossa parte di te.

CAPITOLO 1

Ogni spirito libero ha in sé sogni e follie.

[Anonimo]

Mi sono sempre chiesto quanti fili d’erba si potrebbero contare in un metro quadrato di terra. Una domanda semplice ma dalla risposta non banale. Troppe variabili da considerare: di quale campo è parte il pezzetto di terra, quale erba ci cresce, la varietà delle specie presenti, la tipologia della terra e così via. Sono solo alcune delle tante domande possibili. Pertanto, ho sempre schivato qualsiasi tentativo di approfondimento sull’argomento, convincendomi del fatto che, alla fine, non fosse poi così importante venirne a capo. Non potendo classificare in alcun modo la mia vita, ho archiviato il tutto sotto la voce “Conoscenze Sterili”. Bello sarebbe poter sapere tutto di tutto! Ma sarebbe anche pericoloso e, per quanto mi riguarda, mi troverei in balia completa dell’incertezza in ogni situazione della mia vita. Con troppe varianti a mia disposizione, ogni mia eventuale scelta troverebbe un suo opposto plausibile e valutabile, rallentando il mio processo decisionale e lasciandomi alla fine comunque nel dubbio di aver fatto la scelta giusta. Si spegnerebbe l’istinto a favore della ragione, non sempre riconosciuta come lo strumento più adatto al superamento di tutte le situazioni della vita e capace di condurci alle scelte corrette. Il significato di ciò che è giusto, poi, è del tutto relativo e legato alle persone, alle esperienze di queste, ai trascorsi storici. Ed è purtroppo forzato dalle mode dettate dalla comunità, dal sociale e dalle Religioni, senza distinzione alcuna. Si formano persone che si adattano a un “sistema”, quando invece dovrebbe essere l’esatto contrario. Vivrei la mia vita da piccolo uomo posto al centro di un recinto, e ad esso legato con tanti elastici. Potrei muovermi all’interno dello spazio a me assegnato ma non potrei mai andare oltre, trascinato costantemente verso il centro ad ogni mio tentativo di guardare o provare un’esperienza “oltre” il confine. E allora scelgo di dedicare i miei neuroni alle cose davvero importanti della vita. Quali sono le cose davvero importanti? Ecco un altro concetto totalmente relativo, legato com’è alle priorità personali, agli stimoli, alle sensazioni, alle emozioni di ciascuno di noi. Il cervello è facilmente intossicabile. Quando raggiunge il suo limite, è d’obbligo per noi fermarsi e guardarsi dentro, riscoprirsi e interrogarsi sul nostro presente senza curarsi troppo del passato che ci ha condotto a quel punto, per disegnare con serenità il nostro prossimo futuro. Cambiare rotta, se necessario, e darsi una bella ripulita. Non serve spingersi troppo in avanti con i pensieri e con i progetti, poiché troppi sono gli eventi che sfuggono al nostro controllo, che si prendono gioco di noi e che non sono minimamente predicibili nel momento in cui ci si guarda e ci si parla. Fanno parte della sfera dell’ignoto. Serve cambiare! Non mi riferisco solo a un superficiale ritocco cosmetico, parlo proprio di un’azione profonda, radicale e immediata, capace di scavare nelle viscere più profonde del nostro essere umano, là dove abita la parte più vera di noi, dove l’umano incontra il Divino in tutte le sue forme ed etichettature. Cancellare tutto e ricominciare da zero, è questa la sfida. Ma è tanto semplice quanto indovinare il numero esatto di fili d’erba contenuti in un metro quadrato di terra in un campo.

I cieli di Borgogna hanno una luce particolare e il loro colore avvolge e cattura, anche quando il tempo è brutto. Se ti fermi e ti sdrai a terra ad ammirarli volgendo lo sguardo verso l’alto, questi cieli ti cadono addosso e ti avvolgono, facendoti levitare. Non ne percepisci il limite, puoi perderti totalmente e lasciarti andare ai pensieri più disparati. E proprio là dove il cielo cede spazio alla vallata, si dispiega un mosaico di appezzamenti terrieri multicolore, che vanno dal giallo paglierino del grano maturo al verde intenso delle foglie alte dei vitigni. Qua e là s’innestano le macchie scure degli alberi ad alto fusto, ulteriormente rimarcati dalle ombre che essi stessi producono con il loro folto fogliame. Tutto questo è disegnato su un terreno morbido e ondeggiante alla vista, a tratti piatto e in altri gentilmente posato su graziose alture in cima alle quali spunta un immancabile castello. Ai piedi delle alture i piccoli paesini medioevali con le loro chiese, il cimitero annesso e i canali d’irrigazione completano il meraviglioso quadro bucolico. E’ l’immagine di un tempo che fa ormai parte di un passato lontano, tanto lontano da non poter essere compreso completamente e pienamente il più delle volte. Le strade strette e sterrate immerse nella campagna tracciano percorsi simili a disegni realizzati a mano libera. Formano una trama perfetta, capace di collegare ogni villaggio agli altri, come un’enorme ragnatela. Le case rurali tipicamente realizzate in pietra viva, come nodi di questa tela, segnano i punti di riferimento per i viandanti incuriositi dalla semplicità di una realtà di vita ancora presente in queste silenti campagne. Enormi nella loro maestosità, con la bellezza tipica delle costruzioni francesi del XX° Secolo, per la pietra che le compone, per i colori sempre vividi, per le ampie ante oscuranti e per le finestre in legno e ferro battuto, regolarmente rinfrescate con sorde vernici a smalto in tinte pastello. Molte di queste costruzioni ospitano rigogliose specie di edera, arrampicate fino alla sommità dei tipici tetti a punta sui quali spuntano regali lucernai. Immagino il panorama che si può osservare da lassù, come ultima immagine alla sera prima di addormentarsi o come primo dolce risveglio il mattino seguente. I rami capaci di seguire il profilo dei muri sfiorano a volte le finestre, si attorcigliano stretti intorno ai numerosi comignoli nella stagione calda per poi abbandonarli durante l’inverno, quando si accendono i camini. Dove l’edera non copre i muri, fresche macchie di muschio compatto completano la tinteggiatura naturale delle facciate esposte a nord, come fossero pezze di stoffa cruda cucite su un vecchio vestito sgualcito. In molte altre, una variopinta fioritura di rose, ciclamini, glicini e gelsomini si erge fiera da un letto composto di erba, papaveri rossi e folti ciuffi di lavanda. Le erbe spontanee, comunque curate e profumate, completano l’immagine di giardini semplici ma al contempo rilassanti e freschi. Cavalli e buoi sono lasciati liberi nei campi, restano ben lontani da pecore e capre che preferiscono invece raccogliersi in gruppo e trascorrere il tempo restando immobili sul posto, mangiando un ciuffo di erba fresca ogni tanto. Se ci si sofferma a guardarli attentamente, rispondono con sguardo lento e assonnato, gli occhi semichiusi e i movimenti minimi, annoiati, totalmente noncuranti dell’estranea presenza, senza avviso di alcun rischio o pericolo imminente. Di certo, la loro fine non è diversa da quella di altri tenuti chiusi in capanni e stretti recinti, ma indubbiamente la qualità della loro esistenza non può essere minimamente paragonata a quella dei loro simili reclusi. Per questo motivo, a detta di molti, la loro carne è più buona. Il tempo sembra rallentare così come i ritmi della vita e le emozioni. Tutto si distende, tutto si apre. La consapevolezza dei propri problemi si dissolve e ci si focalizza su ciò che è vacuo, quasi irreale in un mondo materiale. Mi fermo a guardare un campo spingendo l’occhio ai limiti del visibile, vedo la linea dell’orizzonte. Non riesco con i sensi ad andare oltre perché l’occhio non me lo consente, ma la mia mente supera il limite dipingendo di fronte a me l’impalpabile immagine della continuazione di questo paesaggio, in un istante. Mi sento tanto piccolo in mezzo a tanta vastità, ma oltremodo percepisco un senso di sicurezza e di appagamento interiore, sentimento che assai raramente ho provato prima nella mia vita.

Ho scelto la Borgogna per trascorrere qualche giorno di vacanza, per rilassarmi con mia moglie e dimenticare per un po’ il frastuono della vita di città. E’ tutto così diverso qui. In città ogni tanto mi assale il desiderio del distacco. I luoghi del quotidiano m’infastidiscono come un prurito dei più molesti, le persone non mi appagano più di tanto e mi assale un desiderio d’isolamento: quasi che l’unica riconciliazione possibile possa passare solo attraverso l’assenza dei rumori di città e dei suoi abitanti. Provo spesso, in questi momenti, a concentrarmi sul dettaglio piccolissimo di un paesaggio: l’inizio di una salita in montagna, la finestra di una casa che si affaccia su di un prato, una panchina sistemata accanto ad una fontana di campagna. Sento che lì il rumore si trasforma in suono, si combina e s’integra con il concerto universale, lo stesso in cui una voce umana può tornare a somigliare a un canto, senza spingere violentemente per il primato della onnipresenza. Quando cammino per le strade, nelle mie giornate dell’insofferenza, l’umanità mi appare una presenza proterva, per numero di esemplari e per agitazione. Colgo il loro affanno per arrivare non si sa dove come un segnale di disperazione, di quella cattiva, pronta a farsi largo anche con le unghie o con le armi. E allora non posso fare a meno di sentirmi nato e destinato altrove, che sia l’inizio di una salita in montagna, la finestra di una casa e il suo prato o una panchina sistemata accanto ad una fontana di campagna, poco importa: in ogni caso si tratta di un “altrove” dove la voce può tornare a risuonare come un canto, il mio.

La nostra meta era una piccola casa sul canale di Borgogna, circa alla metà della sua totale lunghezza, proprietà del custode di una delle tante chiuse ivi presenti, sita nel villaggio di Gissey sur Ouche e prospiciente il canale stesso. Cercavamo un po’ di pace, di rilassamento, d’isolamento dal caotico mondo di città, alla ricerca di noi stessi. Il paesaggio innanzi a noi si dispiegava in un concerto ci colori, di riflessi di sole disegnati nelle pozze d’acqua, ci catturava completamente. Sarebbe stato difficile ritornare alla vita di città, già ce ne rendevamo conto, ancor prima di aver assaggiato il posto. Il meglio però doveva ancora arrivare, presentandosi prepotentemente davanti ai nostri occhi, invadendoci il cuore e catturando per sempre la nostra attenzione. Gissey è un villaggio formato da un pugno di case per lo più costruite in pietra, in piena eco medioevale. Il municipio, una scuola, una chiesa e il suo cimitero adiacente erano gli unici edifici pubblici visibili dalla strada centrale. Un solo ristorante, piuttosto piccolo, offriva menù turistici a prezzo fisso solo in alcuni giorni della settimana, inclusi il sabato e la domenica, raramente la sera. Nessun negozio, nemmeno di generi alimentari. Anche qui si notavano gli animali in libertà nei campi, gli uccelli si libravano in cielo disegnando cerchi e archi ad ampio raggio, planando e risalendo come ballerini guidati dalle note perfette di un’aria classica.

Arrivati nei pressi del villaggio, voltammo su una stretta strada sterrata, cosparsa di sassi e ghiaia, così stretta che difficilmente due auto sarebbero potute transitare contemporaneamente in senso opposto. Costellata di buche larghe e profonde, qua e là riempite dall’acqua piovana non assorbita dal terreno, la stradina fiancheggiava il canale che si distendeva alla nostra sinistra e sul quale scorgevamo qualche piccola chiatta che procedeva in linea retta. Sulle chiatte la gente rideva allegramente, si guardava attorno disegnando sui volti sguardi carichi di folklore, i visi dalla pelle lucida e ben tesa, di un colore bianco latte macchiato di un rosa confetto e con le gote tendenti al rosso acceso. Gli uomini scattavano fotografie mentre spizzicavano stuzzichini e sorseggiavano avidamente del vino da lunghi calici in vetro. Forse erano già sopraffatti dalla potenza dell’alcol. Donne di mezza età sedevano rilassate, le gambe scomposte sulle panche, di legno scuro e metallo, che arredavano il ponte della barca. Oppure, ove presenti, su sedie sdraio con seduta in telo grezzo, color beige. I bambini appoggiati alle loro madri gustavano i loro gelati, il viso parzialmente nascosto dai loro variopinti berretti per proteggersi dal sole e nascondere l’imbarazzo agli sguardi dei curiosi compagni di viaggio. Davano l’impressione di assaporare la più assoluta libertà, o qualche cosa di molto simile, la spensieratezza, quasi fossero parte integrante dell’ambiente, in comunione con esso. I problemi della vita di tutti i giorni sembravano non sfiorarli nemmeno, come se in realtà non ci fossero proprio problemi da affrontare, come se ne fossero totalmente esenti. Oltre che in lingua francese si sentiva parlare anche in tedesco, in inglese e in spagnolo. Nessun italiano era presente, o quantomeno nessuno che stesse parlando in quel momento. Tuttavia, nessuno dei presenti mostrava lineamenti del viso tipicamente italiani. Passavano davvero molto vicino a noi e si potevano vedere bene, fino quasi a rilevarne i difetti della pelle. Noi osservavamo la barca galleggiare mentre trasportava l’allegra comitiva. Non emetteva rumori assordanti per via dei motori in azione. Dava l’impressione di scivolare sull’acqua, come sospinta dalla sola forza dell’aria. Dai finestrini della nostra auto, che avevamo opportunamente spento per ammirare e immortalare la scena, entravano il suono delle risate delle persone, i loro discorsi e la sinfonia del canto degli uccellini che popolavano lo spazio aperto alla destra della carreggiata. Su questo lato, un’immensa distesa verde ricopriva tutto il campo a noi visibile. Era come incorniciato da colline di un verde più scuro e intenso che sembravano essere state messe lì proprio per non svelare subito le bellezze che si dispiegavano dietro di esse.

«E’ tutto così incredibile qui!», disse Sonia con una voce carica di gioia e palpabile eccitazione, con gli occhi che brillavano di quella luce che non percepivo da qualche tempo con eguale intensità «Sembra un altro mondo! Sembra quasi che imboccando quella strada si sia oltrepassata la linea di confine che divide ciò che è reale da ciò che invece è mero frutto dei sogni. E’ indescrivibile, sono felice!», concluse.

«E’ tutto così vero ma è anche così incredibile al tempo stesso! I colori, i suoni, i profumi e le immagini. Tutto sembra avere un suo spazio, una posizione tanto precisa che, se modificata da un profano, farebbe percepire l’oggetto isolato come “fuori posto”. Tutto è parte del quadro che in questo momento stiamo osservando e sembra portare la firma del suo autore, di un’entità superiore ed esperta, non si percepisce modo alcuno per migliorare quanto agli occhi appare già perfetto fin dall’inizio. Sono felice anch’io!».

Girai la chiave per riaccendere l’auto e con un sorriso la invitai a proseguire verso la nostra meta ormai prossima, la casa sulla chiusa 34s. Mentre avanzavamo, gli alberi dietro di noi chiudevano il tunnel sulla strada come fossero i tendoni di un sipario teatrale alla conclusione dell’opera.

CAPITOLO 2

La gente dice: “È matto”.

Oppure: “Vive in un mondo di fantasia”.

O ancora: “Come può confidare in cose prive di logica?”.

Ma il guerriero continua ad ascoltare il vento

e a parlare con le stelle.

[Paulo Coelho - Manuale del guerriero della luce]

La casa era piccola, con i muri costruiti in pietra viva. Il tetto mostrava una notevole pendenza su entrambe le facciate della casa. Era necessaria per favorire lo scarico delle nevi durante il periodo invernale, evitando la formazione di pesanti lastre di ghiaccio pericolose per la struttura di travi di legno visibili anche all’interno delle stanze. I proprietari di casa e custodi della chiusa si chiamavano Urs e Doris, una coppia molto affiatata. Avevano diviso la casa in due parti, una più ampia a loro riservata, l’altra ceduta in affitto ai turisti come alloggio per le vacanze. Nella sua semplicità la casa aveva tutto quanto potesse servire: un salotto con angolo cottura, un cucinino ben attrezzato e magnificamente fornito delle necessarie stoviglie, pentolame e posate in quantità, un comodo divano, un bagno privato molto raccolto ma con ampia doccia. La zona notte soppalcata sfruttava la parte più alta della struttura. Vi si accedeva tramite una robusta scala interna. Era disponibile ogni sorta di elettrodomestico, utile o meno, c’erano una radio, la televisione satellitare, persino la connessione ad Internet senza fili. Tutto questo sembrava quasi fuori luogo in una contestualizzazione all’apparenza tanto semplice, rurale, naturale e minimalista. Non potevo non apprezzare tutte queste comodità ormai entrate prepotentemente a far parte della mia vita di uomo di città, feci comunque promessa a me stesso di limitarne l’uso al minimo indispensabile. Eravamo alla ricerca di tranquillità assoluta, del distacco dal superfluo, dell’immersione nella natura. Non volevamo di certo consumare del tempo prezioso ripetendo le azioni della caotica vita di tutti i giorni. All’esterno la casa non era circondata da fiori o piante tipiche dei giardini preziosi. Era al contrario tinteggiata da chiazze di colore delicato, donato da fiori e arbusti spontanei, dai papaveri rossi e altri eleganti fiori di un colore arancio intenso, dalle campanule bianche e viola arrampicate sui muri o cosparse sul terreno, così belle e fitte che ci si obbligava a porre attenzione per non calpestarle mentre si camminava. C’erano erbe e arbusti che io avrei sicuramente rimosso se nati nel giardino della mia casa in città, perché non adatti o non belli se guardati con uno sguardo superficiale. Questi fiori dalla forma unica mostravano venature e sfumature di colore sui soffici petali, vellutati al tatto. E il loro dinamismo, il modo in cui oscillavano consegnandosi all’aria per via del loro lungo stelo, li faceva sembrare ballerini istruiti da un grande maestro. Tutto questo ci affascinava, catturandoci in una sorta d’incantesimo, d’ipnosi. Perché ciò avveniva solo lì e in quel momento? Ne ho viste tante di campanule e di papaveri fioriti nella mia vita, perché non ho mai fatto caso a quanto fossero belli, delicati ed eleganti? Realizzai la mia profonda superficialità e in parte mi rattristai. Su un angolo della casa si sviluppava invece una stupenda rosa dal colore rosso intenso, aveva petali soffici come il velluto più pregiato e rilasciava un profumo che avvolgeva completamente, annientando i sensi. Avevamo a disposizione due biciclette, fondamentali per muoversi nei dintorni senza dover usare l’automobile.

Dopo aver condiviso con noi alcune informazioni sulla zona e i relativi luoghi d’interesse, Urs e Doris ci lasciarono sistemare, salutandoci con l’invito per un aperitivo di benvenuto da consumarsi nell’imminente pomeriggio. Il silenzio intorno a noi era palpabile, un silenzio quasi fastidioso, direttamente percepito dall’orecchio e al quale non eravamo abituati. Guardai mia moglie e la invitai ad ascoltare. Si sentiva l’immancabile cinguettio degli uccelli sempre numerosi e di diverse specie, lo scroscio delicato dell’acqua nella chiusa alle nostre spalle, mantenuto per tenere sotto controllo il livello del canale, il saluto ricambiato dei proprietari ai passanti con il sottofondo delle foglie degli alberi mosse dall’aria.

Sul canale si trovano molte chiuse, una per ogni salto di livello dell’acqua, generalmente di qualche metro. Per ogni chiusa esiste una casa, abitata da un custode che ha il compito di aprire e chiudere la chiusa al passaggio di ogni chiatta sul canale. Le operazioni di apertura e chiusura sono eseguite a tutt’oggi in modo manuale, con gli stessi movimenti sopravvissuti al trascorrere del tempo per arrivare fino ai giorni nostri. Una chiusa è formata da una vasca a tenuta stagna, lunga ma molto stretta rispetto alla larghezza del canale stesso, realizzata come scavo nel terreno con blocchi in pietra posti a rinforzo degli argini terrosi, altrimenti soggetti a erosione al contatto con l’acqua. Il livello dell’acqua all’interno della vasca è aumentato o diminuito per consentire alle chiatte di transitarvi e per essere alzate o abbassate, portandole al livello desiderato uguale a quello della parte di canale in risalita o discesa da raggiungere. I passeggeri sulle chiatte sembrano sempre molto attenti e osservatori durante l’esecuzione di queste manovre, quasi fossero loro stessi a doverle eseguirle di persona. Nonostante i tentativi del governo francese atti ad automatizzare questi sistemi, il canale e le persone che su di esso lavorano hanno sempre cercato, con successo, di mantenere questa manualità che è tutt’oggi molto apprezzata e ammirata dai turisti.

Urs e Doris ci chiamarono per l’aperitivo, invitandoci a unirci a loro al tavolo affacciato sulla chiusa. Da quel punto si godeva una vista stupenda, lo sguardo poteva liberamente distendersi sul canale, ubriacando con i suoi vivaci colori, sui riflessi carichi di dettagli degli alberi che dipingevano lo specchio d’acqua, sui fiori e sugli arbusti che popolavano le sponde. Famigliole di papere nuotavano in fila, a volte zigzagando, sul pelo libero dell’acqua. Non era raro vedere queste famigliole dirigersi verso i bordi del canale al transito delle chiatte, per poi attenderne il passaggio e riposizionarsi in coda a queste e continuare il percorso. Il canale ospita nel suo ventre molti grossi pesci, difficilmente osservabili dall’esterno per via della torbidezza dell’acqua colore verde militare. E’ un richiamo irrinunciabile per gruppi di pescatori che regolarmente si appostano sui sentieri lungo i bordi, esperti e ben attrezzati gli uni, semplici principianti muniti solo di canna e di retino gli altri, tutti con il comune intento di portare a casa un grosso pesce e gustarselo per cena da soli o con la famiglia, accompagnato da qualche saporita salsa francese, del buon vino e una baguette. Se ne vedevano davvero tanti, schierati in fila come soldati, alcuni più concentrati altri più rilassati, quasi assonnati. Lasciavano le loro auto parcheggiate non molto lontano dalle loro postazioni di pesca, ma con tutti i finestrini rigorosamente aperti. Di fronte alla chiusa alcune collinette segnavano un confine non invalicabile, essendo di modesta altezza. Non si vedevano case o costruzioni di alcun tipo, forma o diversa destinazione d’uso in tutta l’area che ci circondava. Qualche passo oltre la sponda del canale, opposta a quella sulla quale ci trovavamo, un torrente piuttosto agitato saturava l’aria con il suono prodotto della sua acqua scrosciante, leggermente deviata da grossi massi che vi si ritrovavano all’interno, sparsi qua e là. Le foglie che si distaccavano dai rami degli alberi posti sul bordo cadevano nell’acqua dopo aver ondeggiato per un po’, per esser poi condotte dalla corrente lungo la sua pendenza. I sassi circuiti con movimenti eleganti, curvi e sinuosi, rimanevano lì sorpresi, silenti e incapaci di arrestarne o anche solo rallentarne il viaggio. Che danza!

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