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Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino
Guido Pagliarino
Il mostro a tre braccia
e
I satanassi di Torino
Due racconti lunghi
Guido Pagliarino
Il mostro a tre braccia e I satanassi di Torino
Due racconti lunghi
3a Edizione
Distribuzione Tektime
Copyright © Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono all'autore
Racconto "Il mostro a tre braccia" Copyright © 1994 Guido Pagliarino
Racconto "I satanassi di Torino" Copyright © 1995 Guido Pagliarino
1a Edizione cartacea, Copyright © 2009-2011, 0111 Edizio
Dal 2012 di nuovo Copyright © di Guido Pagliarino: tutti i diritti sono tornati all'autore
2a Edizione, solo in e-book in tutti i formati, Copyright © 2015 Guido Pagliarino
Le copertine di tutte le edizioni e le relative immagini sono state realizzate elettronicamente da Guido Pagliarino
Gli avvenimenti, i personaggi, i nomi di persone, enti, ditte e società e di loro prodotti e servizi che appaiono in questi racconti sono immaginari e ogni eventuale riferimento alla realtà presente o passata è casuale e involontario
Indice
Prefazione dell'autore a lla terza edizione
Il mostro a tre braccia, racconto lungo
I satanassi di Torino, raccont o lung o
PREFAZIONE DELL’AUTORE A LLA TERZA EDIZIONE
Avevo scritto questi due racconti lunghi nel 1994 e nel 1995, di poco anteriormente al sorgere della moda del giallo e poliziesco italiani, lavori basati sulle figure di Vittorio D’Aiazzo, commissario e poi vice questore, e di Ranieri Velli, suo aiutante e amico, personaggi che, l'uno o entrambi, ritornano in altre mie opere: è uscito da pochissimo, per i tipi dell'Editrice Genesi, l'ultimo romanzo sul personaggio D’Aiazzo, il prequel "L'ira dei vilipesi".
Sempre, in questi lavori ho prestato in primo luogo attenzione alle psicologie e agli ambienti, questi tutti del passato più o meno recente con qualche nostalgia per quella Torino della mia adolescenza e giovinezza che più non esiste. Ne erano e sono destinatari i lettori di narrativa in generale che, pur non disdegnando opere che trattino di delitti, non abbiano gusti alla paprika; non ci si aspetti dunque racconti alla Raymond Chandler o James Ellroy o, restando in Europa, alla Manuel Vazquez Montalban; ma neppure, d'altro canto, si attendano indagini arzigogolate, ben poco verosimili, come quelle ideate da Agatha Christie.
L’azione del paio di racconti inclusi in questo libro si svolge in un periodo ancora pre-cibernetico, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 dello scorso secolo, in una Torino dove, nell’area di Porta Palazzo e dintorni, centrale al primo lavoro, non abitavano ancora, come oggi, quasi soltanto extracomunitari, ma anziani piemontesi in pensione, originari della zona, e giovani famiglie dell’immigrazione meridionale; una città in cui arterie principali quali corso Vittorio Emanuele II e corso Regina Margherita vedevano, quasi, più mezzi di trasporto pubblici che privati. Fra questi ultimi, nelle vie e nei contro viali giravano molte biciclette, alcune a motore, mentre già si vedevano le prime auto 600 e 500, normalmente comperate a rate, con chili di cambiali, da qualche impiegato avanti nella carriera o occupato alla regina FIAT, signora ben più di oggi di Torino e cintura. Qua e là, poi, rombavano le automobili di maggior prezzo, acquistate da esponenti dell’alta e media borghesia, come la FIAT 1400 e l’ALFA ROMEO 1900 – questa usata pure dalla Polizia: la cosiddetta pantera – o come la fantasmagorica, per giovani figli di ricchi, LANCIA Aurelia Sport 1200, quella del film “Il sorpasso”, auto diretta concorrente dell’ALFA Giulietta spider 1300. Con le automobili e le biciclette circolavano vespe e lambrette assieme a qualche motocicletta di piccola cilindrata. Era quella un’epoca in cui non c’erano ancora il personal computer e il telefonino, tutte le famiglie avevano la radio ma pochissime la televisione, in bianco e nero, canale RAI unico: però senza pubblicità, a parte il simpatico e oggidì quasi leggendario “Carosello”. Una Torino, insomma, in cui un investigatore poteva ancora operare quasi come i suoi colleghi dei gialli e polizieschi classici europei anni ’20-50.
Nel primo racconto, "D'Aiazzo e il mostro a tre braccia", viene picchiato a morte da ignoti un antiquario e restauratore torinese, Tarcisio Benvenuto, uomo dal fisico deforme che, alla nascita, era stato abbandonato dall’ignota madre ed esposto alla carità delle suore d’un istituto religioso torinese. Dal nulla, lavorando senza posa era divenuto proprietario d’un negozio all’ingrosso e al dettaglio in zona Porta Palazzo. Le suore sue educatrici lo ricordano come persona di bontà quasi angelica e così pure è per altri come la giovanissima sua magazziniera Mariangela che, anzi, parrebbe esserne stata innamorata nonostante l’aspetto mostruoso di lui. Proprio l'incontrario affermano Giulia, avvenente e disinibita sua ex dipendente, adesso prostituta, e un altro dei suoi magazzinieri, Alfonso, e così pure è per alcuni piccoli commercianti clienti del Benvenuto: secondo tutti loro, egli era stato un individuo furioso e vendicativo. Il commissario, dopo aver cercato e sottoposto a interrogatorio più d’un sospettato - siamo solo, insolitamente, a poco più dei due terzi del racconto - scopre l’omicida; il resto della narrazione è dedicato al perché e al come, che il poliziotto espone al suo aiutante e, con lui, al lettore. Viceversa, nel secondo racconto, "D'Aiazzo e i satanassi", le indagini, relative a un’uccisione e a una violenza carnale proseguono fin quasi al termine: Steso a terra sul proprio sangue è ritrovato per strada, da una camionetta della Polizia, il cadavere d’un attempato piccolo industriale, il commendator Paolo Verdi, il cui giovane figlio Carlo, dottore in psicologia, è in prigione in attesa di giudizio, accusato di violenza carnale a Giuseppina Corsati, dattilografa del padre poco più che adolescente; ma egli dichiara al commissario D’Aiazzo d’essere privo di colpa. In carcere è fatto oggetto di brutalizzazioni da parte di altri detenuti, forse a causa del distorto senso di “giustizia” per il quale i violentatori vengono vessati da compagni di detenzione, o forse per mandato esterno di qualcuno affinché Carlo s’intimorisca e si lasci condannare senza difendersi. Di certo la deflorazione di Giuseppina c’è stata, ne presenta i segni, però non potrebbe, forse, la famiglia di lei aver architettato la violenza per averne un risarcimento finanziario? Sicuro è che gli uomini Corsati non sono figure specchiate, anzi sono i bulli del proprio quartiere e in particolare il padre, già sottufficiale delle Brigate Nere a fianco dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale, è un bruto assoluto: che sia stato proprio lui a violentare Giuseppina, lei consenziente? O forse uno dei suoi figli maschi? Carlo chiede al commissario d’accertarlo. Intervengono nella storia il poco intelligente Carlone, che aveva avuto in passato nascosti legami con papà Verdi, e un filosofo libero docente all’Università di Torino ed ex ufficiale nella Repubblica di Salò, presso il cui fratello, che ben diversamente era stato membro del Comitato di Liberazione Nazionale, lavora quale cameriera Luciana Corsati, madre di Giuseppina. Dal profondo della vicenda affiorano anche parlamentari tutt’altro che adamantini e, a un certo punto, ne emana una sulfurea esalazione infernale che il commissario ventilerà riuscendo, o quasi, a fare giustizia.
Guido Pagliarino
Guido Pagliarino
IL MOSTRO A TRE BRACCIA
Racconto lungo
I
Vittorio D'Aiazzo se n'era arrivato in Questura radioso.
Era il 20 maggio del 1959, nostro ultimo giorno alla Squadra Mobile di Genova. Da tempo non vedevo il commissario così raggiante. Da quando sua moglie era fuggita con un altro, sul volto dell'amico non c'era stata che tristezza; ma finalmente avrebbe lasciato la città e l'appartamento che gli rammentavano ogni giorno "la traditrice", della quale era ancora cotto come un pollo arrosto: nessun dubbio che la sua richiesta di trasferimento a Torino avesse avuto il fine di distrarsene.
Anch’io stavo per partire, con lui. M'aveva chiesto tempo prima se volessi seguirlo e avevo senz’altro presentato domanda: la città di destinazione era la mia. Per me, Ranieri Velli detto Ran, vice brigadiere e, nel poco tempo libero, poeta, era stata un'offerta da cogliere senz'altro, per la nostra buona amicizia e perché erano ancor vivi i miei genitori, ormai non più in piena salute, e avrei potuto aiutarli. Figlio unico, mio padre e mia madre erano i miei soli legami familiari: tutti gli altri parenti erano morti durante la guerra, chi al fronte, chi sotto le bombe, chi durante la lotta di Liberazione. Li avevo delusi, i miei: con molti sacrifici avevano sperato di farmi ingegnere e occuparmi in quella stessa FIAT in cui erano stati operai; ma io odiavo la matematica. Dopo studi incompiuti al liceo scientifico, ero entrato in Polizia, che allora si chiamava ancora ufficialmente Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Anche parte del pubblico diceva di noi le guardie, non gli agenti: "Badi, sa? che chiamo le guardie!" M’ero trovato quasi immediatamente agli ordini di Vittorio. Credo fosse diventato mio amico anche perché gli avevo salvato la pelle durante un servizio di scorta; ma forse, più ancora, per il grande amore che portava come me alla poesia: un’amicizia che avevo ricambiato immediatamente, avendolo sentito uomo di grande cuore; e certo per amicizia aveva voluto che lo seguissi a Torino; anzi, avevo pensato che avesse chiesto proprio quella destinazione perché sapeva essere la mia città e conosceva la solitudine dei miei genitori; peraltro sapevo che non gl'importava particolarmente della sede di destinazione, purché fosse capoluogo e non si trattasse di Napoli, la sua città, anche se l'amava moltissimo: avevo saputo da altri della Questura che, nel 1943, Vittorio era stato uno dei patrioti combattenti durante quelle Quattro Giornate di Napoli in cui la città s'era rivoltata contro l'occupante tedesco riuscendo a liberarsi da sola prima dell'arrivo degli Alleati. Lui aveva però sempre evitato di tornarvi, a causa di passati contrasti con un famigliare originati, diceva, "da abbietti motivi d'eredità"; ma una volta s'era lasciato sfuggire che lo sapeva coinvolto in traffici non chiari. Avevo supposto che non volesse prestar servizio a Napoli per non trovarsi in imbarazzo e forse, un giorno, dover addirittura arrestare quel parente. Vittorio aveva allora quarant’anni. Si presentava come uomo piccolino e muscoloso, con una gran testa di capelli ricci neri. Eravamo assai diversi: io, biondo per chi sa quale antico antenato celtico, ero alto quasi un metro e novanta; insieme facevamo il classico il. Anche le nostre idee erano molto differenti, lui cattolico praticante e io, come mio padre, repubblicano storico ateo.
Erano tempi, quelli, che non conoscevano le fotocopiatrici e normalmente ignoravano i computer, ancora rozze enormi macchine di poca memoria a disposizione di assicurazioni, eserciti, alcune grosse imprese; tempi in cui non si sapeva niente del DNA e la nostra Scientifica continuava ad affidarsi alla tradizionale chimica e alle impronte digitali. Gli investigatori scarpinavano, chiedevano notizie alle ancor numerose portinaie e ai vicini di casa, confidavano in un poco di fortuna. Accanto a una criminalità già efferata sopravvivevano tanti piccoli delinquenti normalmente disarmati. La maggior parte degli omicidi era di tipo passionale. Tempo della mia gioventù: avevo appena ventisei anni, in quel 1959.
Occupavo una scrivania nell'atrio dell’ufficio di Vittorio: quella mattina, non appena m’aveva visto, m’aveva sorriso ampio e, secondo la sua abitudine di ricorrere talvolta al suo napoletano, m’aveva saettato: "T'aggio a dicere 'na bellissima cosa: nun se parte cchiù!"
Era felice di restare? Possibile che lo conoscessi così male?!
M’era scoppiato a ridere in faccia: "T'aggio pulcinellato! Si parte, si parte!" e m’aveva mollato un'affettuosa manata sulla spalla, da lasciarmi il livido.
Era questo lo spirito umoristico del mio caro amico, una pasta d'uomo: una pasta dolce.
Giunto a Torino, avevo lasciato i bagagli dai miei, nell'alloggio che affittavano in via Giulio, nel centro storico, in una casa non molto distante dalla Questura, vecchia e con bruttissime scale; ma l'appartamento era confortevole perché la mamma l'aveva di molto curato; dall'interno, non lo si sarebbe immaginato in un palazzo ormai quasi cadente. Unico lusso per quei tempi, un frigorifero invece della ghiacciaia; naturalmente un FIAT, a prezzo scontato per dipendenti ed ex dipendenti.
Non volendo importunare i genitori, avevo deciso che avrei cercato alloggio in una delle stanze per sottufficiali scapoli d'una vicina caserma di corso Valdocco, presso il cui spaccio mia madre, come parente d'un poliziotto, già faceva, a minor costo che nei negozi, la spesa. Lo stesso pomeriggio del mio arrivo avevo chiesto udienza; m'avevano risposto che, al momento, non c'erano posti liberi se non in camerata, pur essendo previsto il trasferimento d'un brigadiere; e m'avevano registrato, per primo, in lista d'attesa. Intanto, i miei s’erano detti felicissimi di ospitarmi, anche per tutta la vita.
L'amico D'Aiazzo, che già a quel fine era stato tempo prima a Torino, aveva affittato un appartamentino in via Cernaia, a due passi dalla Questura di corso Vinzaglio.
Il 21 era considerato interamente giorno di viaggio; avevamo preso dunque servizio la mattina seguente il nostro arrivo.
II
Era passata una settimana ed era circa mezzogiorno:
"Ran, tu che sei di qui conosci la zona di Porta Palazzo, no?" m'aveva chiesto D'Aiazzo, dopo aver risposto all'interfono del nostro ufficio.
"Sì, commissario": in quel tempo, e ancora per qualche mese, nonostante l'amicizia gli davo del lei, anche se in privato lo chiamavo Vittorio.
"Benissimo. Le volanti son tutte occupate. Perciò ti prendi due uomini in divisa e con la nostra auto di servizio corri in via" – aveva scandito – "Cot-to-len-go. La conosci via Cottolengo, no? Ditta Mostro le Antichità. Ha telefonato 'na femmina che stanno, let-te-ral-men-te! ammazzandosi di botte. Il pranzo te lo fai dopo."
Avevamo inserito la sirena della nostra Alfa Romeo 1900 senza contrassegni e l’avevamo tenuta fin all'ultimo, sperando che il suo urlo in avvicinamento intimorisse i violenti e li facesse desistere prima d'un possibile epilogo tragico.
Il negozio, un ampio oscuro magazzino al dettaglio e all'ingrosso di mobili e soprammobili usati, era prossimo alla piazzetta del Balon1, il mercatino delle pulci di Torino.
"Polizia!" Prestavo servizio in borghese, ma essendo i due colleghi in divisa non avevo mostrato il tesserino. Un uomo sanguinante, il viso tumefatto, giaceva a terra supino, privo di conoscenza e forse moribondo. Qualcosa si agitava stranamente sotto la sua camicia. Avevo guardato con stupore quel movimento sul suo petto e avevo pensato che gli fosse uscito il cuore e continuasse a battere esposto sotto l'indumento anche se, come presto avrei realizzato, era un'idea assurda. A semicerchio attorno al morente stavano ferme, come indifferenti, quattro persone.
"Cosa fate?! Le belle statuine? Chi è costui? e voi chi siete?"
"Il padrone; e noi siamo i magazzinieri", aveva risposto una ragazza per tutti.
"L'avete già chiamata, l'ambulanza?"
"N...no", aveva balbettato.
"Lei chi è?"
"Mariangela."
"Potrei denunciarvi per omissione di soccorso, lo sapete?!" Avevo chiesto a uno dei miei di chiamare un'autoambulanza per telefono, quindi avevo identificato i quattro. Si trattava d’un uomo grande e grosso sulla trentina, un certo Alfonso, torinese, dal viso lungo pallidissimo e denti cavallini, che portava la fede nuziale, e di tre signorine sui diciassette, diciott'anni, tutte del sud, della prima immigrazione, e tutte molto belle, Mariangela, Jolanda e Annunziata, bionde ma, come denunciavano le loro sopracciglia e gli occhi neri, certamente tinte.
Era giunta l'ambulanza, che aveva condotto il ferito al vicino Ospedale Istituto della Carità Cristiana. Avevo mandato un mio uomo assieme alla vittima, nel caso avesse ripreso conoscenza e pronunciato qualcosa a proposito dell’aggressione: inutilmente, come avrei saputo.
Avevo ordinato ai magazzinieri di narrarmi i fatti. M’avevano risposto sovrapponendo le voci; perciò li avevo interrogati singolarmente. Era stata Mariangela a telefonarci; come m'aveva testimoniato per prima, un omone, mai visto prima, aveva fatto irruzione improvvisamente dalla strada, urlando rosso in viso: "Dov'è il mostro da baraccone? Vieni fuori, porco!" A gran passi era arrivato all'ufficio del titolare, Tarcisio Benvenuto, in quel momento seduto alla scrivania a fare conti. Qui aveva cominciato senz'altre parole a prenderlo a pugni. Il proprietario, riuscendo a schermirsi con le braccia, aveva potuto alzarsi dalla sedia e scappare fin quasi all'uscita del negozio, sotto una tempesta di calci nel sedere, ma prima che potesse fuggire nella via l'altro l'aveva afferrato con la destra per il bavero e, tenendolo schiacciato contro il mobile della cassa, gli aveva mollato col pugno sinistro una grandinata di colpi sul viso e sulla testa fin quando la vittima non era crollata sul pavimento. Poi l'omaccio era senz'altro uscito, esclamando con accento piemontese: "Così per l'avvenire impara, 'sta merda!"
Gli altri magazzinieri avevano confermato la versione.
"Vi risulta che il Benvenuto avesse nemici?"
"Credo che ne avesse un mucchio", aveva risposto per tutti Alfonso. Jolanda e Annunziata avevano approvato col capo. Mariangela, invece, m’aveva guardato dritto negli occhi, dischiudendo leggermente la bocca, come per pronunciare qualcosa; ma aveva taciuto.
Proprio a lei avevo chiesto: "Avete qualche idea sul perché dell’epiteto mostro da baraccone?"
"Perché... lo è, poveretto."
"Poveretto?!" avevano fatto in coro gli altri tre, guardando Mariangela con disapprovazione. Poi la sola Annunziata aveva detto: "Ha il fisico giusto per il suo carattere."
"Cosa intende dire?" m'ero incuriosito.
"Intendo dire che ha un braccio in più, sul petto, che a intravederlo sotto i vestiti pare attaccato alla spalla destra, anche se non l'ha mai mostrato: al massimo, qualche volta, sono spuntate le sole dita, a far capolino tra i bottoni della camicia, dico in certi momenti in cui era più arrabbiato e non riusciva a frenarsi.
"Inoltre", era intervenuta Jolanda, dalla parte destra ha una doppia fila di denti; e una suora che una volta venne qui ci disse che ha pure un pezzo di cervello in più. Certo è che, a volte, l'abbiamo sorpreso a farsi domande e a rispondersi da solo a bassa voce. Poi... c'è anche un'altra cosa... che non oso dire."
"Un'altra cosa?"
"Sì", aveva precisato Alfonso, "pare che tra le gambe... ne abbia due!" ed era scoppiato a ridere.
"Chi ve l'ha detto? Sempre la suora?!" avevo domandato fra il contegnoso e il divertito.
"No", aveva risposto Annunziata, "ce l’aveva detto Giulia."
"Sarebbe?"
"Una collega ch'è stata licenziata giorni fa: pare che il padrone le avesse fatto proposte... insomma, pare... che la volesse nei due modi assieme, oh!"
"Veramente", s’era intromesso Alfonso, "che lui volesse farsela nei due modi assieme lei non l'ha detto, però il fatto che sapesse dei due cosi fra le gambe fa pensare che Tarcisio glieli avesse almeno fatti vedere"; e aveva riso più forte di prima.
Avevo chiesto di descrivermi l'aggressore. Tutti erano stati concordi: si trattava d'un uomo molto alto sulla cinquantina, occhi cisposi castani, senza sopracciglia e completamente calvo, grandi orecchi a sventola, grasso e grosso, collo corto possente, braccia da scaricatore e spalle larghe, schiena ricurva. Portava una cicatrice violacea orizzontale sulla fronte che l'attraversava quasi completamente e aveva il naso schiacciato dei pugili. La bocca era piccola, quasi senza labbra.
"…e indossava delle scarpe che saranno state della misura cinquanta", aveva completato Mariangela.
"Anche lui, come mostro, non sta male", avevo scherzato con un breve sorriso. Poi m’ero fatto dare cognome e indirizzo della commessa licenziata e m’ero copiato dalle schede contabili le generalità di fornitori e clienti: dati incompleti perché, come avevo saputo da Alfonso, molte delle vendite al dettaglio, quelle dei soprammobili, erano verso ignoti passanti e la maggior parte degli acquisti veniva da privati, pagata in contanti senza che ne restasse traccia2.
Era ormai l'una. Annunciando che forse sarei ripassato e che, comunque, loro sarebbero stati convocati per la testimonianza formale, avevo lasciato che i magazzinieri chiudessero il negozio e m’ero avviato verso la casa dei miei.
Dopo qualche centinaio di metri, mentre imboccavo via della Consolata, m’aveva raggiunto la voce di Alfonso: "Brigadiere!". M'aveva seguito, aveva soggiunto non appena vicino, per darmi una notizia all'insaputa di Mariangela: "Pare che quella criña3 se la faccia col padrone. Si vede, aveva ghignato, "che le piace farsi fare in due modi nello stesso tempo! È per quello che sta dalla sua parte. Comunque... non so, sarà forse un'idea sbagliata, ma... e se fosse stato un parente di Mariangela a fraccare di botte il padrone?"
"M’avete detto che l'uomo aveva accento piemontese, mentre Mariangela è meridionale. Se fosse un suo parente..."
"…potrebbero essersi imparentati qui, con uno dei nostri", aveva suggerito, calcando sulla parola nostri come a intendere che di ben migliore stirpe si trattava, ed esprimendo una smorfia disgustata.
"Va beh, controlleremo."
"…ma mi raccomando..."
"Non diremo nulla alle sue colleghe, stia tranquilla."
C’eravamo stretti la mano: la sua era viscida.
III
Tornato in ufficio dopo una svelta pastasciutta dai miei, avevo stilato il rapporto per Vittorio.
L'amico non c’era. Verso l'una e mezza se n'era andato alla stazione di Porta Nuova per attendervi un treno che doveva condurgli da Napoli un'ancella, com'aveva pronunciato scherzoso. Si trattava, aveva precisato, d'un'orfana diciannovenne appena alfabeta, Carmen, che gli era stata indirizzata da padre e madre, "dopo debita scuola domestica per mesi due da parte di mammà", perché gli conducesse, su oneri sostenibili, la casa, impedendo così che, vivendo solo, continuasse a sciuparsi stomaco e fegato nelle trattorie.
L'amico era arrivato in Questura verso le cinque del pomeriggio e con viso del tutto soddisfatto m’aveva detto: "Aggio mangiato bene, antichi sapori di casa mia! T'aggio a invitare, Ran"; ma quando aveva saputo della vicenda del mostro, s’era abbuiato: "Al lavoro! Senti qua: questa sera, verso l'ora di cena, te ne vai a casa di 'sta Mariangela, inaspettato ospite, e mentre tutti sono a tavola vedi se c'è qualcuno di loro con le caratteristiche dell'aggressore, ascolti, e... insomma, m'hai capito. Ma cerca di non sputtanare 'a guagliona davanti ai suoi, se vedi che è tutto regolare. Quando torni, mi riferisci."
Mariangela e famiglia, tali Ranfi, vivevano in periferia, in una casa recente con citofono. Erano le 19 appena passate: "Sono il vice brigadiere Velli", avevo gridato spontaneamente, in quanto la voce maschile che aveva risposto m’era giunta appena udibile.
L'uomo aveva replicato con insofferenza: "...ma cos'hai da gridare tanto?!" e aveva aggiunto un insulto volgare.
"Pubblica Sicurezza!" m'ero adirato.
"Cosa?!" La voce, questa volta, era allarmata.
Ricordando che non avevo un mandato, m’ero contenuto e avevo replicato con calma: "Sono il vice brigadiere Velli. Mi facciano salire: devo parlare con la signorina Mariangela. È per l'aggressione."
"Ah... sì: primo piano, scala B come Bologna."
Stavo per entrare quando un uomo sulla cinquantina se n'era uscito dal palazzo lesto guardando per terra. Era grosso, calvo, alto e aveva un accenno di gobba. Un lampo e l’avevo bloccato, mostrando il tesserino: "Documenti!" Forse avevano tardato ad aprirmi per consentirgli d'uscire?