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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo
Copyright © 2020 Guido Pagliarino - All rights reserved to Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono a Guido Pagliarino - E-book distribuito da Tektime S.r.l.s. Unipersonale, Via Armando Fioretti, 17, 05030 Montefranco (TR) - Italia - P.IVA/Código fiscal: 01585300559 - Registro mercantil de TERNI, N. REA: TR – 108746
Guido Pagliarino
IL METRO DELL’AMORE TOSSICO
romanzo
con l’appendice del racconto
IL FU D’AIAZZO
Guido Pagliarino
Il metro dell'amore tossico
romanzo
con l’appendice del racconto
Il fu D’Aiazzo
Opera distribuita da Tektime
© Copyright 2020 Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono all’autore
Edizioni precedenti del romanzo:
1a Edizione, sotto il titolo “Il Poeta e il Committente, romanzo”, libro cartaceo, © Copyright 2007-2014 Boopen Editore, fuori catalogo dall'anno 2014 e dallo stesso anno © Copyright di Guido Pagliarino
2a Edizione, riveduta e variata, pubblicata solo in ebook di tutti i formati sotto il titolo “Il metro dell’amore tossico (Il Poeta e il Committente), romanzo”, © Copyright 2015 Guido Pagliarino, Smashwords Edition
L’immagine di copertina è realizzata elettronicamente dall’autore
I personaggi, le vicende, i nomi di persone, enti e ditte e le loro sedi che compaiono nel romanzo e nel racconto sono immaginari, eventuali riferimenti alla realtà passata e presente sono casuali e assolutamente involontari
Guido Pagliarino
Il Metro dell'Amore Tossico
Romanzo
( © 1992 )
Capitolo I
Era il 1° luglio 1969, un martedì. Rincasando nel tardo pomeriggio, avevo ritirato una grossa busta dalla buca delle lettere. Sul momento avevo solamente osservato ch'era giunta via aerea da un'ignota Alfio Valente Cultural Foundation - New York. Non avevo dato particolare importanza a quel plico, senza affrettarmi ero salito in casa, un modesto appartamento all'ultimo piano d'un vecchio palazzo del centro storico, m'ero messo in libertà e, finalmente, sedutomi alla scrivania della cameretta che mi serviva da studio, avevo aperto la busta. Ne avevo avuto un'esaltante sorpresa: m'era stato assegnato il Brooklyn Alfio Valente Poetry Award per la mia opera poetica tradotta e pubblicata negli Stati Uniti: un premio in denaro, ben 5.000 dollari, pingue cifra a quei tempi; le spese di soggiorno erano pagate. Quei signori americani dovevano nutrire gran fiducia nei servizi postali, visto che non mi avevano avvertito per raccomandata internazionale. Mi chiedevano, a firma del presidente Albert Valente, che avevo immaginato parente e avrei saputo figlio del defunto intestatario della fondazione, di confermare telefonicamente l'accettazione del premio e la mia presenza alla cerimonia di consegna. Avevo considerato, dopo aver dato uno sguardo all'orologio e aver tolto 6 ore alle 17 e 38 minuti che segnava, che per il diverso fuso orario a New York era ancor mattina. Avevo chiamato il centralino dell'unica società telefonica italiana di quei tempi, la statale SIP1 , perché mi collegasse alla fondazione: quanto a celerità di chiamate intercontinentali, erano tempi da mammut quelli, l'utente doveva ricorrere a una delle centraliniste SIP e aspettare ch'ella, dopo molti minuti d'attesa come minimo, finalmente lo collegasse al lontano numero grazie a un circuito di comunicazione operato a mano.
Avevo riagganciato e, restando in attesa che l'apparecchio squillasse avvertendomi ch'ero in linea, m’ero crogiolato nell'idea dell'inatteso guadagno che stava per raggiungermi, davvero provvidenziale perché l'arte poetica, come nella sua natura, non mi rendeva quasi nulla e vivevo grazie a discontinue collaborazioni a un quotidiano di Torino, La Gazzetta del Popolo, e all'incerta posizione di traduttore e di editor di una casa editrice, retribuito à forfait per ogni libro. Per la verità avevo anche steso un romanzo, potenzialmente ben più commerciale delle opere in versi, ed ero persino riuscito a pubblicarlo per i tipi della stessa editrice torinese per cui lavoravo, non senza il logorio di alquanti approcci al Khan dei Khan, come usavamo chiamare fra noi l'altezzoso e a volte bizzoso proprietario: ne avevo avuto tante lodi dalla critica, che non avevano gonfiato il mio portafogli, e nessun successo mercantile, trattandosi di "un lavoro di prosa poetica più che d'un romanzo raccontato" come l'editore, già esitante nel darlo alle stampe, m'aveva infine comunicato, calcando il tono sull'ultima parola. È bene ch'io anticipi inoltre, non solo trattandosi d'un caso legato alla mia misera condizione economica di quei tempi ma perché, come vedremo, si sarebbe rivelato drammatico per me e addirittura funesto per molti cittadini degli Stati Uniti e dell'Italia, che sei mesi prima di ricevere il premio Brooklyn Alfio Valente, nel desiderio di più denaro avevo colto l'improvvisa occasione offertami da un potente di comporgli e vendergli, per una rilevante somma, una ventina di sonetti in onore della sua benamata, poesie ch'egli aveva la dichiarata intenzione di spacciare per frutti del proprio talento con l'amorosa. Lo dico subito, provo ancor oggi amarezza per aver venduto la mia arte e, per un insieme di circostanze derivatene, pure dignità e libertà, anche se, come meglio narrerò a suo tempo, ne sarei stato punito moralmente e fisicamente.
Mentre attendevo d'esser collegato alla fondazione, l'allegria m'era scemata di colpo: rileggendo con più attenzione la lettera, avevo notato che la data della premiazione era prossima, nemmeno una ventina di giorni, e avevo realizzato subito dopo che il mio passaporto era scaduto. Un brivido lungo la schiena, testualmente, poi un accesso d'ira: Perché m'avevano avvisato all'ultimo momento?! Indirizzato però uno sguardo alla data di spedizione sulla busta, avevo capito che la fondazione non era colpevole del ritardo, la lettera era partita da New York oltre due settimane prima. Eh, sì, ma almeno di non aver spedito per assicurata lo sei, colpevole, le avevo comunque lanciato idealmente; e subito dopo me l'ero presa con l'ignoto malaccorto – delle poste? d'un aeroporto? – cui dovevo la successiva complicanza; per finire m'ero chiesto se avrei potuto ottenere in tempo il rinnovo del passaporto dalla Questura, malgrado tutto, e, considerato che era richiesto dai prudenti Stati Uniti anche un visto consolare preventivo, m'ero risposto: Quasi certamente no; ma ecco che m'era scoccata una speranza: ...ma sì, chiederò aiuto a Vittorio!
Vice questore, Vittorio D'Aiazzo serviva nella Questura di Torino, dove pur io avevo operato ai suoi ordini prima di congedarmi pochi anni prima. Era un carissimo amico, anzi il solo che avessi; e sapevo da lui che io pure, entrambi d'animo schivo, ero l'unico suo amico vero.
Figùrati un po', m'ero vieppiù confortato, se, vista l'importanza della cosa, non si prodigherà!
Già, ma come mai un individuo tranquillo come me, tutt'altro che portato a un mestiere armato, era entrato in Polizia? Una persona che s'era dedicata all'arte metrica e a frequentissime letture fin dalle medie, ispirata dalle traduzioni dell'Iliade del Monti e dell'Odissea del Pindemonte – medie-ginnasio a quei tempi –, un uomo desideroso di giungere alla laurea in lettere? Presto detto: il clima familiare degli anni '40 dello scorso secolo era ben diverso da quello odierno, era imprescindibile allora per un ragazzino il rispetto della volontà di padre e madre, e i miei genitori non m'avevano assolutamente permesso di rivolgermi agli ambíti studi classici e, con loro sacrificio grande ed enorme incomprensione, m'avevano indirizzato al liceo scientifico, nel miraggio di farmi ingegnere e occuparmi nella stessa industria automobilistica cittadina, la FIAT, dove lavoravano essi stessi come operai. Io odiavo la matematica, la fisica, la chimica e la mineralogia e avevo trascurato quegli studi – una sfilza d’insufficienze, tutti 4! tanto da dover ripetere il primo e il terzo anno del liceo, pur avendo tutti 8 in lettere italiane, latino, filosofia, storia, inglese. Quasi diciannovenne, verso la metà di quello stesso terz'anno ripetuto, era il 1952, non desiderando gravare oltre sui genitori che si stavano sacrificando inutilmente, avevo abbandonato la scuola ed ero entrato in Pubblica Sicurezza, come si chiamava allora la Polizia, svolgendovi prima il servizio militare e poi raffermandomi. Solo molti anni dopo, scacciando il timore di restare senza denaro m'ero finalmente dimesso, non trattenuto dall'essermi guadagnati il grado e il maggiore stipendio di vice brigadiere. Rimaneva quella, infatti, un'attività che, col suo pericolo e i suoi disordinati orari, ostacolava la mia passione per le lettere. Ero stato mosso dall'aver avuto un discreto successo. Fin dal dicembre 1957 avevo pubblicato il mio primo libro di liriche presso una grande editrice – svelerò poi l'arcano d'un evento così improbabile – con successo di critica e l'assegnazione alla silloge del celebre Premio Versilia, sezione opera prima, grazie al quale se n'erano vendute ben trecentoventicinque copie; cosa più importante, in seguito al premio avevo ottenuto, come giornalista pubblicista, collaborazioni letterarie alla torinese Gazzetta del Popolo e a un paio di noti settimanali, con accrescimento della mia notorietà. Le mie dimissioni mi avevano portato ulteriori frutti. Grazie al tempo pieno e alle più frequenti collaborazioni, erano stati dati alle stampe un poema e altre due raccolte di versi, queste composte nel corso degli anni precedenti, quello dopo il mio congedo, e i miei versi erano stati tradotti in inglese e francese e pubblicati nei paesi europei anglofoni e francofoni, negli Stati Uniti e in Canada. Senza lasciare il servizio, la vita di Ranieri Velli, la mia vita, probabilmente avrebbe continuato a svolgersi dall’una all'altra indagine al comando dell'amico, allora commissario, Vittorio D'Aiazzo, con poche pause di gioia letteraria, e non avrei raggiunto vera fama; per contro però, non mi sarei trovato negli ultimi mesi del 1969, come vedremo, fra i dolenti protagonisti d’un caso criminale internazionale, per il quale l'Italia avrebbe rischiato di cadere, ancora una volta, sotto un regime dittatoriale.
M'era squillato il telefono. Era la comunicazione con New York. Conoscevo bene la lingua inglese, grazie non solo alla scuola ma a un corso intensivo d'apprendimento a Londra, zeppo di termini giudiziari, cui ero stato indirizzato da Vittorio in uno scambio con sottufficiali di Scotland Yard. Non avevo avuto nessuna difficoltà a farmi comprendere dall'interlocutrice americana: avevo chiesto di parlare col signor Valente spiegando il motivo della chiamata; non era in sede e m'era stata passata una dirigente, le avevo confermato l'accettazione del premio e la mia presenza alla cerimonia di premiazione; e almeno questa era stata fatta.
Ora toccava al passaporto.
Capitolo II
"Oh, amicissimo! Come vanno le tue indagini sulla poesia?" m’aveva salutato espansivo il dottor D'Aiazzo nel suo forte accento napoletano, dopo ch’ero riuscito ad averlo in linea dal centralino della Questura.
"Un premio è giunto ed il poeta chiede", avevo risposto con un improvvisato endecasillabo scherzoso; e avevo precisato: "Ho vinto un importante premio a New York."
In tono compartecipe s'era felicitato, poi, intercalando qualche parola nel suo dialetto come talvolta faceva, e interpellandomi col diminutivo ch'egli stesso aveva a suo tempo coniato, mi aveva domandato: "Va bbuo', Ran, complimenti a parte, che mi chiede o' poeta?"
"Sarebbe per la data di premiazione prossima e per il mio passaporto scaduto."
"Non c'è problema. Fammelo avere qua con le marche e le foto e te lo faccio preparare a ràzzo, che non per nulla in italiano fa quasi rima col mio cognome D'Aiázzo, accenti a parte. Anzi no, fa' così: all'ora di cena mi porti il tutto a casa mia, ore 20 in punto! e così ci facciamo pure una bella spaghettata e due fettine di carne."
"Ottimo, grazie."
Proprio quella sera avevo sofferto la prima aggressione. Avevo pensato alla rapina d’un balordo e solo a un secondo tentativo d’ammazzarmi, non molti giorni prima del volo per New York, avrei inteso che qualcuno mi voleva morto: Uscendo di casa per recarmi a cena dall'amico, ancor prima che avessi potuto chiudere a chiave la porta m'ero trovato davanti un uomo, a una quattro metri da me sul pianerottolo, viso nascosto da un passamontagna e guanti alle mani, che mi s'era avventato immediatamente contro con un rasoio aperto in pugno e aveva provato ad assestarmi un fendente alla gola. Il colpo non m'aveva raggiunto perché io, con una mossa dell'arte marziale che avevo appreso in Pubblica Sicurezza, avevo bloccato a metà l'arco della lama e disarmato il braccio criminale facendo cadere il rasoio a terra; immediatamente dopo, avevo pestato per bene l'aggressore su testa, volto e tronco e l'avevo messo in fuga giù per le scale: ero giovane a quei tempi, agile e atletico e, cosa non trascurabile, molto alto, 1 metro e 90, mentre quell'individuo era di media statura per cui, mirando alla gola, aveva colpito da sotto in su non con piena forza. Non avevo ritenuto prudente inseguirlo. Avevo raccolto e messo in tasca il rasoio per portarlo a Vittorio, chiusa a chiave la porta di casa ed ero sceso evitando l'ascensore e prendendo per le scale guardingo. Come m'ero però aspettato, dell'individuo nessuna traccia.
Avevo raccontato sbrigativamente all'amico la mia disavventura, quindi gli avevo consegnato la lama dell'aggressore.
Aveva commentato: "Sono sempre più comuni le cosiddette rapine iniziate dall'esterno, forse avrebbe voluto suonare alla porta e poi entrare sotto minaccia di quel rasoio per derubarti, ma è stato sorpreso dalla tua imprevista uscita sul pianerottolo e, temendo che tu facessi baccano, ha perso la testa e ti s'è avventato contro, cercando di farti tacere col tranciarti la gorgia. Perché nemici mortali tu non ne hai, no?"
"Non credo proprio."
"Ergo dovrebbe essere stato un tentativo di rapina. Hai detto che aveva i guanti, perciò niente impronte se non le tue. Mascherato, dunque nessun dettaglio del volto, a parte gli occhi scoperti: ne hai osservato forma e colore? e dimmi: era alto, basso, magro, grosso? rasoio nel pugno destro o mancino? e ti ha detto qualcosa?"
"No, neanche una parola, rasoio nella destra, gli occhi non li ho notati nella frenesia della difesa, era alto sul metro e settantacinque circa, magro ma aveva spalle larghe ed è sicuramente prestante e forte perché se l'è filata lesto giù per le scale anche se l'avevo riempito di botte."
"È già qualcosina, ma difficilmente lo troveremo, immagino non sia tanto citrullo da essersi fatto medicare in ospedale, comunque dopo la tua denuncia potremo indagare presso i pronti soccorsi; molto intelligente però non dev'essere, perché se no, non t'avrebbe mollato sùbito un fendente col rischio di finir dentro per un fatto di sangue, t'avrebbe solo minacciato a una certa distanza chiedendoti di rientrare in silenzio o, semplicemente, sarebbe fuggito senza farti niente."
"Hm... sì."
"Ran, domani mattina mi vieni in Questura per la denuncia; però tu capisci che sarà un po’ difficile che lo troviamo, chillo cattamàro2 "
Dato che nulla m’era stato rubato, avevo deciso di tralasciare.
Capitolo III
L'amicizia con Vittorio D'Aiazzo era sbocciata a Genova, lui commissario alla Questura e mio superiore diretto, io agente e poi suo aiutante vice brigadiere promosso per meriti, avendo salvato la vita a un potente ministro, l'onorevole professor Nuto Marradi: In un giorno d'inizio febbraio del 1957 Vittorio, io e due miei colleghi eravamo stati comandati a protezione dell'uomo politico, dal momento del suo sbarco all'aeroporto della città della Lanterna, verso le 10 del mattino, al suo volo di ritorno nel pomeriggio. Un certo Aristide Maria Barani, già indisciplinato impiegato ministeriale e poi anarco-individualista alla macchia, aveva avuto l'infausta idea d'ammazzarlo proprio in quell'occasione; chi sa come e da chi avesse avuto notizia del suo arrivo. Noi avevamo atteso il Marradi nella zona aeroportuale dove, come programmato, l’aereo DC3 Alitalia su cui era imbarcato avrebbe arrestato i motori, e c'eravamo prontamente avvicinati all'aeroplano quand’era stato aperto il portello-scaletta di sbarco. Mentre il comandante aveva chiesto agli altri passeggeri di restare ai propri posti fin a nuovo invito, il ministro era sceso con i due agenti della sua scorta personale. A questo punto l'attentatore solitario, dissimulato da una tuta da inserviente, era sbucato di corsa da dietro un trattore per traino bagagli con in pugno la sovietica Tokarev TT-33 calibro 7,62, pistolona poco precisa ma piuttosto affidabile quanto agli eventuali inceppamenti, e gli s'era lanciato contro alla garibaldina urlandogli: "Lurido ladro farabutto!" Non essendo ancor prossimo all'obiettivo, gli aveva sparato un primo proiettile, andato a vuoto. Io, essendo di retroguardia nel nostro gruppetto e il più vicino allo sparatore – mi ricordo sempre la sequenza come se fosse stata un sogno – con un tiro della mia Beretta d'ordinanza M34 calibro 9, anch'essa imprecisa, per cui di certo aveva contribuito un bel po' di fortuna, avevo ferito l'uomo a una gamba rompendogliela e facendolo crollare a terra; poi alla svelta, con un calcio, gli avevo tolto l'arma di mano. Vittorio, al contrario di me, era in testa alla nostra squadra e il più vicino al ministro, a parte la sua scorta personale, per cui senza il mio intervento sarebbe stato non improbabilmente colpito da uno dei successivi colpi dell'anarchico.
Il farraginoso Aristide Maria Barani non sarebbe stato condannato al massimo della pena, nonostante la tentata strage, essendo stato ritenuto seminfermo di mente al momento di commettere il fatto, in quanto, durante il ricovero in ospedale per la ferita, era risultato sotto i postumi d’una sbornia: doveva aver bevuto per farsi coraggio e proprio l'alcol doveva averlo portato ad agire senza gran costrutto; quindi aveva fallito senza mio enorme merito.
Un mesetto dopo era arrivata da Roma la mia promozione a vice brigadiere, per diretto intervento del Marradi come sarebbe corsa voce nell'Ufficio Segreteria, Personale e Benessere della Questura. Va da sé ch'ero stato profondamente grato a quel ministro, rivelatosi capace di riconoscenza a differenza di tanti altri politici; ma non era stato ancor tutto: alcuni giorni dopo avevo ricevuto una lettera da un’importante casa editrice che m’invitava a spedire in lettura le mie poesie per eventuale pubblicazione. Quasi non credendo a tal improbabilissimo fatto – avevo persino pensato allo scherzo di qualcuno –, avevo comunque eseguito; e dopo nemmeno un paio di settimane m’era giunto il contratto di pubblicazione. Ero esploso di gioia. Ne avevo parlato entusiasta in ufficio col D’Aiazzo; e a questo punto avevo saputo dal commissario che il notorio proprietario di quell’editrice era il Marradi. La mia riconoscenza verso il ministro era salita al settimo cielo.
Tuttavia, Aristide Maria Barani non aveva sbagliato giudizio su quell’uomo: un decennio dopo il Marradi s'era realmente rivelato un "ladro farabutto" come il suo mancato assassino gli aveva urlato all’aeroporto: Nel 1967 era finito in uno scandalo politico clamoroso, scoperto dalla Magistratura, secondo i quotidiani politici d’opposizione grazie a manovre sotterranee di ambienti economici ch’egli aveva danneggiati. L’opposizione aveva pur ventilato che avesse potuto mestare più volte anche in precedenza, essendo stato un segretario di Stato di lungo corso che aveva partecipato, a capo dei più svariati dicasteri, a quasi tutti i Governi della Repubblica, da quelli di centro degli anni '50, al gabinetto di centrodestra del 1960 sostenuto dall’esterno dai neofascisti, ad alcuni di centro successivi e, a far capo dal 1963, a quelli di centrosinistra. Certo è ch'egli era divenuto sempre più potente nel corso degli anni. Quanto meno per le ultime malefatte, era stato messo in stato d'accusa dal Parlamento riunito in seduta comune, in base all'articolo 96 della Costituzione Italiana relativo ai reati commessi da membri del Governo: lui solo, anche se l'opposizione aveva manifestato il sospetto che i colpevoli fossero stati molti e "tutti di area governativa". Prima che Camera e Senato avessero concesso l'autorizzazione a procedere alla Magistratura, il Marradi aveva cercato di fuggire all’estero ma, nel tentativo, era morto in un incidente aereo, e questo aveva alimentato il grave sospetto che fosse stato assassinato da complici perché tacesse per sempre.
Nel 1968 l'Italia dell'egemonia democristiana e poi di quella democristiano-socialista aveva cominciato a venir gravemente contestata, erano iniziati scioperi a catena ed era sorto il cosiddetto Movimento Studentesco: per tutti i contestatori i governi di centrosinistra erano da considerarsi nient’altro che servi dei padroni; quanto ai partiti di centrodestra, liberali compresi, tutti semplicemente fascisti. La contestazione avrebbe innescato un formidabile cambiamento nei costumi della popolazione, che sino ad allora erano rimasti in sostanza quelli dei decenni precedenti basati sui valori forti della moralità cristiana persino, almeno di fondo, per gli atei dichiarati.
Era in tale cornice che si preparava l’avventura che stavo per affrontare affiancato dall'amico Vittorio, durante la quale sarebbe spuntato, fra altri, anche il nome del defunto ministro Nuto Marradi.
Capitolo IV
Il D'Aiazzo era uomo cinquantenne robusto ma non alto, attorno al metro e sessantacinque. Inalberava una capigliatura bruna e riccia ancor folta ma che, nel 1969, iniziava a cedere alla calvizie sul vertice della testa, configurandovi un principio di chierica. Forse per bilanciare, da qualche tempo s’era lasciato crescere la barba. Era un eroe della resistenza antinazista il mio amico Vittorio: nel 1943, giovanissimo vice commissario, era stato uno dei combattenti durante la prima insurrezione antitedesca d'Europa, le cosiddette Quattro giornate di Napoli3 , in cui la sua città s'era liberata da sola degli occupanti tedeschi, durante le quali erano rimasti uccisi molti poliziotti della Questura napoletana, fra cui il diretto aiutante in quel tempo del D’Aiazzo, un certo brigadiere Marino Bordin, di cui egli parlava con grande ammirazione. Nonostante l'esteriore allegrezza, Vittorio era persona fondamentalmente triste. Pochi mesi dopo il tentato assassinio del Marradi il mio amico, che s’era sposato nel maggio dell'anno precedente con una donna troppo giovane, una diciottenne figlia d'un collega conosciuta al ballo annuale delle debuttanti, era rimasto vittima d’un grave dispiacere coniugale. S'era tenuto dentro il suo dolore per molto finché, un giorno della primavera del 1958 in cui doveva essersi sentito particolarmente sconfortato perché vi cadeva il secondo anniversario del suo matrimonio, s'era confidato con me, "col mio poeta e amico preferito": Era accaduto l'anno prima che la sua giovanissima moglie avesse conosciuto un ricco importatore americano, ch'era a Genova per i propri commerci, e che fosse fuggita con lui a New York, ottenendo in America lo scioglimento del matrimonio e risposandosi poco dopo con l'amante, com’era stato comunicato a Vittorio per via epistolare dal legale della coppia, su incarico di lei. In Italia non c’era ancora il divorzio per cui Vittorio era rimasto coniugato con la "traditrice"; ma una volta l'amico m'aveva detto, ormai prestavamo entrambi servizio a Torino, che se pur ci fosse stato il divorzio, come cattolico praticante – aveva pronunciato in tono solenne l'ultima parola – non se la sarebbe sentita, di richiederlo. "Sennonché", aveva soggiunto, "malauguratamente" lui aveva "vocazione alla coppia." Insomma, nonostante il suo conclamato cattolicesimo, non era riuscito per molto a rimanersene solo, come avevo presto capito.
Quella sera a cena a casa sua, un appartamento in via Cernaia di fronte alla caserma dei Carabinieri omonima e non lontano dalla Questura di corso Vinzaglio, ci aveva servito e, come ormai d'abitudine, tra una portata e l'altra s’era seduta con noi a tavola una bruna ventinovenne, Carmen, formosetta simpatica e belloccia anche se illetterata e di non ampia mente, che sapevo esercitare per l'amico, oltre alle mansioni di governante, più intime funzioni. Nell'ormai lontano 1959, in occasione del primo invito a cena di Vittorio dopo il nostro trasferimento da Genova a Torino, lui me l'aveva presentata nella sola prima veste e lei, per quella volta, non s'era seduta con noi; ma dall'atteggiamento confidenziale che comunque mostrava, avevo sospettato. "La guagliona è della mia Napoli", s'era confidato già quella volta l'amico, anche se con un certo qual imbarazzo, mentre Carmen era in cucina a preparare il caffè: "È un'orfana senza ’na lira che m’hanno mandato papà e mammà come domestica: forse già te l’avevo detto quand’era arrivata" – avevo assentito –: "Francamente, ero stanco di pizzerie; e anche di essere... solo. Lei è giovanissima... sì, circa com’era mia moglie. Io ho già quarant’anni. Eppure, sai com'è, è finita così, che dopo un po'... siamo ormai... beh, hai capito. Il guaio è… che è ancora minorenne4 ; perciò tieni per te la sua età": non aveva potuto trattenere un sorriso imbarazzato; poi: “Va bene, lo so che faccio male, che come cattolico dovrei fare il casto e pure che sto forse approfittando un po' troppo di questa guagliona, anche se lei mi pare contenta assai del mio affetto e pure del mio... beh, hai capito a cosa mi riferisco. Non lo so, spero che comunque il Cielo abbia compassione e perdoni."