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Scherzi Delle Fiabe
Scherzi Delle Fiabe

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Scherzi Delle Fiabe

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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Alfredo voleva dirmi qualcosa, ma non gli uscivano le parole. E interruppe il suo sforzo quando il motorino della penna si rimise in moto. Riprendemmo a leggere ciò che man mano prendeva forma sul foglio bianco.

“Che bella la scuola! La giovinezza, l’avventura, il coraggio e l’amore. Ne vedrò delle belle, come quando il povero signor Gaspare era giovane. E sicuramente non avrò più di che annoiarmi.”

“Sono contento che ti piaccia. Però devi prometterci che non manifesterai la tua esistenza a nessun altro, per nessun motivo”.

Presi il suo silenzio e la sua immobilità come un segno di assenso.

Gli trovai presto una degna custodia, anch’essa dei tempi passati, e Alfredo prese a utilizzarla portandola sempre con sé. Gli effetti non tardarono a farsi vedere. Il voto in lettere gli salì di due punti, con grande soddisfazione soprattutto della mamma, che era rimasta all’oscuro del nostro segreto. Ma poi, alla fine del secondo trimestre, era già ridisceso pericolosamente vicino alla soglia dell’insufficienza. Quando vidi il voto in italiano, che pure era tra i migliori della sua pagella, saltai su tutte le furie (tra lo stupore di mia moglie, convinta che ormai mi fossi anch’io abituato ai brutti voti di Alfredo). Gli chiesi quale penna utilizzasse per i temi di italiano, e lui mi assicurò che tutto quello che scriveva usciva sempre e solo da quella penna.

Mi feci consegnare la penna con la sua custodia e mi chiusi a chiave nel mio studio, da solo. Probabilmente si trattava di un’altra crisi di carenza di inchiostro. Avrebbe dovuto essere usata solo per i compiti di italiano, magari solo per quelli in classe: ed invece quello stupido di mio figlio, per farmi contento, la usava per scrivere qualunque cosa, anche per i libri contabili. Forse occorreva una penna più bella, pensai: per chi viene da una stilografica può essere offensiva una penna da due soldi. O forse qualche suo compagno gliela aveva sostituita, o per sbaglio o volutamente, magari perché Alfredo si era lasciato sfuggire il suo segreto.

Non ci fu verso di ristabilire un contatto con quel “coso”. Mia moglie disse che quella sera ero uscito di senno, a chiudermi in una stanza a parlare con una penna. Ma io mi sentivo tradito. Non solo avevo evitato di spiaccicarlo come uno scarafaggio: gli avevo anche dato nuova linfa vitale e un nuovo alloggio, anche se in effetti non era proprio il massimo. E poi ci contavo perché, una volta andato in pensione, pensavo di fare un po’ come il vecchio signor Gaspare: un giorno una lettera alla sorella; un giorno una al nipote; magari qualche poesia.

Qualche tempo dopo trovai un foglio scritto tra le mie carte. La grafia era quella di Alfredo, ma non lo stile né la firma: “Il suo piccolo geniale amico di penna”. Esprimeva la sua gratitudine per quello che avevo fatto per lui. Giurava che né lui né, per quanto poteva saperne, Alfredo avevano svelato ad alcuno quello che tuttora era rimasto rigorosamente un nostro esclusivo segreto. Ma alla fine aggiungeva che non ne poteva più di tanta inattività, o meglio di attività e pensieri così lontani dalla poesia e dal sentimento del vecchio signor Gaspare. Sale da gioco; libri di contabilità; assordanti pseudo-musiche e rumori di motori: tutto ciò lo stava riducendo a una larva. Aveva anche dovuto sopportare di essere portato all’orecchio, alla maniera dei salumai, e di essere stato utilizzato per aggiustare un vecchio mangianastri malconcio.

“Meglio che me ne vada, finché riesco a provare ancora un minimo di sentimento e poesia. Non me ne voglia. C’è una compagna di classe di Alfredo che è innamorata, e l’ho già aiutata a scrivere dei bigliettini appassionati. Quando è sovrappensiero disegna fiorellini e montagne con alberi e foreste: anche in questo non sono male, sebbene non sia certo la mia specialità. Penso che mi trasferirò da lei.”

Questo episodio ha profondamente segnato la mia esistenza. Tanto che mia moglie ha insistito perché mi facessi vedere da un medico. Alla fine mi hanno convinto che, per non rischiare l'esaurimento, era meglio che andassi in pensione.

Da quando sono pensionato il mio contributo all’azienda è diventato quasi nullo. Mio figlio mi consente solo di dedicarmi alla manutenzione e alla pulizia dei piccoli oggetti, in particolare quelli in metallo. In ciò sono ancora imbattibile.

Non ho più avuto l’ambizione di insegnare ad Alfredo l’arte e la poesia del robivecchi, perché il mio piccolo geniale amico di penna mi ha aperto gli occhi e mi ha convinto che mio figlio non vale poi granché. Ma poi mi sono un po’ ricreduto, perché Alfredo si è prima fidanzato e poi sposato con una sua ex compagna di classe, non bellissima ma molto graziosa. Un tipo di quelli che per passare il tempo disegnano prati fioriti, montagne rigogliose e rifugi innevati. E’ molto brava in questo, e non solo. Alfredo dice che all’inizio le scriveva bellissime lettere, bigliettini e poesie d’amore, e così l’ha conquistata. Beh, vuol dire che anche Alfredo, per saper apprezzare queste cose, un po’ di sentimento e di buon gusto ce lo deve avere. E perciò il mio piccolo genio non aveva poi completamente ragione.

A mia moglie invece non posso proprio dare torto se mi trova sempre più esaurito (forse dovrebbe dire “pazzo”). L’altro giorno, a casa di Alfredo, mi ha di nuovo sorpreso mentre gli smontavo tutte le penne e parlavo da solo (o alle penne, che per lei è ancora peggio).

OSVALDO IL PESCATORE

Incontrai il mio amico Osvaldo al bar.

"E allora, Osvaldo, come è andata poi l'altro giorno la tua pesca?", gli chiesi. L'ultima volta che l'avevo visto, forse dieci giorni prima, era stato al porto mentre usciva per andare a pescare con la sua piccola barca, e gli avevo augurato buona fortuna.

"Bene, bene, grazie. All'inizio no, non ha abboccato niente di niente per parecchio tempo: tanto che pensavo che incontrarti mi avesse portato sfortuna. Ma poi … !"

"Poi?"

"Beh, come al solito ero andato al largo e avevo spento il motore; avevo fissato un capo della lenza al piccolo argano dell'àncora, e l'altro capo del filo pescava in mare. Non accadde niente per parecchio tempo, e mi stavo quasi appisolando: allora, come faccio in questi casi, ho sistemato sulla lenza i miei campanellini che mi avvertono se qualcosa abbocca. Ma dopo un po', sarà stato per la brezza o il dondolio anomalo delle onde, intuii che la barca era in movimento, quasi che fosse mossa da vele; e tu sai bene che di vele non ne ha.

La lenza era così tesa che mi stupii che non si fosse spezzata. Era proprio quel filo a muovere la barca: dovevo aver preso qualcosa di grosso, molto grosso. Pensai addirittura che l'amo si fosse impigliato in un sottomarino. Credo che non sarei riuscito a fare nulla se non avessi usato l'argano - non per niente mi sono attrezzato a pescare in quel modo - e comunque feci molta fatica a tirarlo a bordo, e in ogni momento temevo che il filo si spezzasse. Ma alla fine eccolo uscire dall'acqua, prima la testa e poi tutto il resto: era un pescione almeno lungo così."

Osvaldo, per farmi vedere le dimensioni della preda, dovette alzarsi e spostarsi per poter aprire le braccia in tutta la loro lunghezza.

"Ma dai, esagerato: secondo me ti sei addormentato e te lo sei sognato", gli dissi.

"No, no, te l'assicuro. Ma la cosa strabiliante, più che la dimensione del pesce, è che a un certo punto ho sentito una voce: eppure ero da solo la in mezzo al mare.

" Ti prego, toglimi questo coso di bocca e ributtami vivo in acqua. Vedrai che ti saprò ricompensare a dovere."

Puoi immaginarti come ci sono rimasto: un pesce che parla. Non mi era mai successa una cosa simile!"

"Neanche a me è mai successo", obbiettai io, sempre più incredulo.

"E quando gli ho detto, sorpreso:

"Ma come, tu sai parlare?", lui mi ha risposto:

"Naturalmente sì, e parlo correntemente cinque lingue di voi uomini. Ma adesso ti prego, rimettimi in acqua."

Mi stavo quasi impietosendo, alla vista di quel pesce che annaspava e si dimenava disperato; ma esitavo.

"Ma io ti avrei trasformato in una cena succulenta per almeno dieci persone. Se ti lascio andare, invece …"

"Come puoi dire che la mia carne sia buona? E comunque, se mi lasci andare, ti prometto che ti procurerò tanto di quel pesce prelibato che non dieci, ma venti persone potrai invitare alla tua tavola. Basta che sistemi delle belle ceste ai bordi della tua barca, ed io in poco tempo te le riempirò. Oggi e per un mese intero a venire."

Mi aveva quasi convinto. Feci per avvicinarmi a lui per liberarlo dall'amo; tuttavia esitai ancora.

"Ti voglio fare una bella foto per mostrarla come trofeo ai miei amici. Se ti libero nessuno crederà mai che io abbia pescato un pesce così grosso", gli dissi.

"Che problema vuoi che abbia a farmi fare una foto in tua compagnia. Basta che adesso mi butti un po' in acqua …"

Ed io lo feci, lasciandolo per un po' in acqua sempre attaccato all'amo. Poi andai a prendermi la mia macchina fotografica digitale e me la collocai in posizione per un autoscatto. Tirai di nuovo su l'enorme pesce, andai a scattare e tornai al mio posto, imbracciando il pesce e attendendo il flash della macchina.

"Bene: se adesso mi lasci andare, vado a prenderti i pesci che ti ho promesso", mi disse lui.

"Generoso lo sono sì, ma mica scemo. Chi mi garantisce che tu non scapperai appena ti libero dall'amo, senza mantenere la tua promessa? Anche perché di pesci che parlano, promettono e mantengono, in fede mia credo che non ce ne sia alcuna traccia nella storia del mondo."

E così dicendo lo liberai sì dall'amo, ma non prima di averlo legato per la coda ad un altro filo altrettanto robusto. E lo legai così stretto, per paura che si potesse divincolare aiutandosi con le sue squame scivolose, che forse ne soffrì ora più per questa stretta che non per l'amo che aveva in bocca in precedenza.

"Malfidato che non sei altro. Ma vedrai che ti pentirai amaramente di questa mancanza di fiducia: perché se tu mi avessi liberato completamente, ti avrei reso l'uomo più ricco della nazione. Non hai forse capito che sono un pesce magico? O pensi che qualunque pesce possa parlare?"

"Sì, puoi ben dire che sono malfidato; ma se nella vita avessi sempre dato credito a chi faceva promesse straordinarie come le tue, a quest'ora non sarei certo qui tranquillo a pescare, ma povero a elemosinare da qualche parte. E comunque sono stato di parola ed ho esaudito la tua richiesta, dato che tu volevi che ti liberassi dall'amo e ti lasciassi in acqua; ora tocca a te essere di parola. Tra un attimo metterò le ceste ai bordi della barca: e tu riempile."

Ma nonostante le mi precauzioni quello, una volta in mare, con un guizzo si liberò subito della stretta alla coda. Me l'ha fatta, pensai, salutando tra me e me l'idea di tornare a casa con abbondante pesce. Ma mi sbagliavo.

"Ti ho ben detto che sono un pesce magico. Ma quello che non ti ho detto è che volendo potrei tranquillamente restare fuori dall'acqua quanto voglio, e persino camminare e correre."

E per dimostrarmelo saltò di nuovo sulla mia barca, quasi ballandomi intorno come a sfidarmi di prenderlo. Ma dopo un po', visto che non raccoglievo la provocazione (ormai era chiaro che era davvero magico, e che aveva voluto solo mettermi alla prova), si ributtò in acqua.

"Però sono un pesce di parola, e manterrò quanto promesso."

E infatti in pochi minuti aveva riempito le mie tre ceste, tutte quelle che avevo a bordo, l'una di soli molluschi e crostacei, l'altra di pesci grandi e l'altra di pesci piccoli; alcuni portandoceli con la bocca, e altri che ci saltavano dentro da soli, come per magia. Tanto che poi sono dovuto passare al mercato del pesce, a cercare qualcuno che mi comprasse quello che avanzava alle mie necessità."

"Addirittura!", gli feci io.

"Già", mi rispose. "Però a pensarci bene credo che una parte del merito per tutto questo pescato sia stata anche tua. Mi hai augurato buona fortuna, e me ne hai portata davvero tanta, forse come non ne ho mai avuta. Lo so che se ti invito a pescare mi dici di no: ma che ne diresti allora di venire a cena da me, stasera? Penso a tutto io: magari tu porta solo una buona bottiglia di vino, bianco, naturalmente."

"Perché no, Osvaldo. Ci sarò. Va bene per le sette e mezza?"

"Va bene. Allora adesso ti lascio, che devo fare un salto al mercato del pesce. A stasera, allora."

Osvaldo uscì. Io rimasi con calma a finirmi il mio caffè.

"E tu che cosa ne pensi di quello che ha raccontato il mio amico Osvaldo?", chiesi a Vincenzo, il barista, che in quel momento era impegnato a lavare alcune tazze. "Trovi che ci sia anche solo qualcosa di ragionevolmente credibile in tutto quello che ha detto?"

"Scusami, ma non sono stato a sentire cosa ha detto", mi rispose lui senza pensarci troppo.

"Frottole. Tutte frottole da pescatore", continuai io. "Mi chiedo perché mai i pescatori siano tutti così, almeno quelli che conosco: fantasiosi ed esagerati. Forse star fuori la notte, saltare i ritmi naturali del sonno e della luce gli fa questi scherzi. Chissà."

Gli pagai il mio caffè e feci per uscire.

"Ehi, aspetta. Stai dimenticando qualcosa qui sul banco. O forse l'ha lasciato qui il tuo amico. Come si chiama?"

"Osvaldo", gli risposi. Io non avevo niente con me. Controllai se fosse roba di Osvaldo. In effetti c'erano delle fatture del mercato ittico, e c'era su il suo nome come venditore. Poi c'era qualche altra cosa che non capivo cosa fosse, e … questa cos'era? Una foto. Fatta di sera, col flash. Aveva in braccio un pesce gigantesco, quasi più grande di lui. E, sembra strano a dirsi, questo grande pesce pareva proprio che sorridesse.

SALAFINO E LA CAFFETTIERA MAGICA

Giacomino era già pronto per la notte, sotto le coperte del suo letto, con indosso il suo pigiamino felpato.

"Papà, mi racconti una storia per favore?"

E il papà, come se fosse una cosa nuova e non la loro bella abitudine di tutte le sere, lo accontentò. Prese il suo grande libro delle favole e lo fece aprire ad una pagina a caso.

"Una storia? Va bene. E' uscita Salafino e la caffettiera magica, che mi pare non abbiamo mai letto. Che ne dici, la leggiamo?"

Giacomino fece cenno di sì col capo.

"Allora, vediamo. C'era una volta un ragazzino, mi pare che fosse napoletano, che camminando per strada inciampò in una vecchia caffettiera. Napoletana anche lei. Di quelle che fanno il caffè buono buono. Tu ancora non lo sai, perché sei piccolo ed il caffè forse non lo hai mai assaggiato, ma dicono che più è vecchia la caffettiera, più è buono il caffè. Allora questo ragazzino, che si chiamava Salafino, la raccolse, per vedere che cosa avesse che non andava. In effetti aveva il manico un po' rotto, ed era tutta un po' sbilenca, come si dice, cioè deforme, quasi che fosse stata calpestata da un camion. Ma lui era un ragazzino ingegnoso e pensò che, con un po' di pazienza, avrebbe potuto rimetterla a posto e rivenderla, oppure regalarla. E gira di qua, e tira di là, e forza il manico ed avvita meglio quell'altro pezzo, ad un tratto, come per magia ... Giacomino? Ci sei Giacomino? Ecco che ad un tratto, come per magia, Giacomino si è già addormentato. Va bene, allora sai che cosa facciamo? Questa storia la proseguiamo domani sera, perché sembra molto interessante, almeno a giudicare dall'illustrazione che c'è qui." (Nella pagina si vedeva il ragazzino avvolto da una specie di fumo che usciva dalla caffettiera).

Il papà lasciò il libro aperto sul letto di Giacomino, diede al figlio il bacio della buona notte e si ritirò anch'egli per dormire.

Forse non l'avrebbe fatto, se avesse saputo che razza di caratterino aveva quella caffettiera. Magica sarà stata pure magica, ma anche irascibile non poco. E altro che buona notte!

Ma è forse questo il modo di leggere una favola, interrompendola così dopo neanche la prima paginetta? Ascoltandola così distrattamente da non riuscire neanche a restare sveglio per sapere che cosa è successo? Adesso gli faccio vedere io quello che ho combinato. Anzi, stanotte, visto che mi hanno abbandonato qui da solo senza ritegno, la storia andrà come dico io. Altro che “sarò al tuo servizio, signor Salafino”, ed “esaudirò tre tuoi desideri”! Stanotte sarò io a togliermi lo sfizio di esaudire tre miei desideri. E il mio primo desiderio è, … vediamo … che io per questa notte diventi padrone assoluto di questa casa!”

Così borbottava quella caffettiera, e il papà di Giacomino forse non se ne accorse, o forse riuscì a sentirlo a stento con la coda dell'orecchio nel suo sonno leggero. Di certo però si accorse di quel forte odore di caffè che invase e riempì completamente le loro stanze, tanto da spingerlo a cercare di aprire le finestre. Ma tutte le finestre che provò ad aprire, per magia o meglio a dire per sortilegio, risultarono bloccate ed inamovibili.

Stanotte sarò io il padrone assoluto di questa casa!” proseguiva in sottofondo quella voce cupa ed assurda da caffettiera.

“Giacomino, Giacomino! Come stai? Stai bene?”

“Si papà, sto bene”, rispose Giacomino dalla sua stanza, inframezzando la sua risposta con dei colpi di tosse.

“Cerca di aprire la finestra, o magari di accendere la luce, se riesci”, gli disse il suo papà che nel frattempo aveva provato invano ad aprire la porta della camera di Giacomino. O meglio, la porta si apriva, ma poi dietro a questa ne compariva un'altra chiusa, e poi un'altra, ed un'altra ancora sempre chiusa.

Stanotte sarò io il padrone assoluto di questa casa!” continuava ossessiva la caffettiera.

Anche la luce elettrica non funzionava, né i telefoni, e pure la porta di casa era bloccata. Per fortuna l'odore di caffè era diventato meno fastidioso, o forse i due ci avevano fato l'abitudine, e dava loro meno fastidio.

“Giacomino, rimettiti pure a dormire. Magari è solo un brutto sogno, e domani mattina torneremo ad essere noi i padroni della nostra casa”.

Tornati nei loro letti, l'odore di caffè non cessò, anche se la caffettiera interruppe e cambiò la sua solfa.

E adesso passiamo al secondo desiderio. Io non diventerò più servo di nessuno. Anzi, saranno in molti ad essere miei schiavi, e a non poter fare a meno di me anche per diverse volte al giorno.” Desiderio sprecato, pensò ascoltandolo il papà di Giacomino, che di persone che non riuscivano a iniziare la giornata senza uno o più caffè ne conosceva personalmente in abbondanza.

E infine il mio terzo e ultimo desiderio: che della storia di Salafino e della caffettiera magica, così ingiusta nei miei confronti e che a dire il vero sembra scopiazzata da un'altra storia simile e molto più famosa, da domani nessuno ricordi più nulla, ma proprio nulla. Insomma, che non ne rimanga traccia alcuna in tutto l'universo”.

Poi la strana voce tacque, il silenzio tornò a far compagnia al buio e grazie a loro il sonno, un po' alla volta, riprese il sopravvento.

Il mattino dopo, al risveglio, tutti i condòmini si stupirono di quel buon profumo di caffè così intenso, domandandosi invano da dove provenisse.

Giacomino raccontò a suo papà di aver fatto dei brutti sogni; ed egli, constatando di aver egli stesso dormito male, ne attribuì la colpa a ciò che avevano mangiato per cena.

Poi la giornata trascorse normalmente. Alla sera, quando fu il momento di addormentarsi leggendo una storia dal loro grosso libro, il papà di Giacomino si chiese:

“Avevamo lasciato a metà una storiella da ieri sera, forse?”

Ma il grosso libro, che avrebbe dovuto rimanere aperto dove la lettura si era interrotta, era aperto all'inizio di una nuova storia.

“Qui c'è: la storia del coniglio salterino. Ci leggiamo questa? Strano: eppure mi sembrava di ricordare qualcosa su una vecchia caffettiera.” Guardò nelle pagine vicine, e anche nell'indice, ma di una vecchia caffettiera non si parlava da nessuna parte. E certo non fece caso neanche al fatto che, verso la metà del libro, alcuni numeri di pagina risultavano saltati; ma poteva essere benissimo un errore di stampa.

E fu così che anche il terzo desiderio della caffettiera si avverò: in tutto l'universo non rimase traccia di quella storia. Quei pochi che la conoscevano se la dimenticarono, e nessuno se la ricordò più – tranne ovviamente io che la sto scrivendo, e voi pochi fortunati che ne state leggendo!

STORIA DI UN MANICHINO

“Ciao Gustavo. Gustavo!”

Gustavo, nella sua bottega di falegname artigiano, se ne stava concentrato in un angolo, seduto, con la sua tipica scoppoletta di traverso sulla pelata rosa. Era impegnatissimo attorno alla sua nuova creazione, un gruppo di santi in contemplazione della Madonna in cielo: o almeno così sembrava.

“Sveglia! Neanche il profumo dei funghi porcini riesce più a distrarti. E anche il tuo mitico fiuto per il buon vino ha fatto cilecca, stavolta.”

“Niente affatto.” Gustavo, quello vero, si affacciò con la pelata scoperta dalla porta del retrobottega. “Ho sentito i funghi appena sei entrato.”

“Che scherzi sono mai questi? Chi si sta dedicando alla tue sculture, e chi volevi imbrogliare? Una donna, scommetto.”

“E’ un manichino”, disse il visitatore dopo una breve pausa per osservare con maggiore attenzione. “Un maledetto manichino di legno. E magari è opera tua.”

“Sono io stesso, non vedi? Ha i miei stessi interessi, le mie stesse misure. Gli manca solo lo spirito, l’anima, la capacità di esprimersi e di muoversi. Anzi, per muoversi si muove bene quanto me, anche se non da solo.” Lo prese per un braccio e gli fece dare un saggio della sua mobilità e abilità. Prima un saluto militare; poi un saluto romano ed uno con pugno chiuso. Poi proseguì inaspettatamente con un espressivo repertorio di gesti napoletani.

“Non ha nemmeno quel mio problemino alla caviglia destra.”

Si trattava di uno di quei manichini snodati che usano i pittori per aiutarsi nel raffigurare le persone. Era a grandezza naturale.

“Adesso gli farò una compagna fedele, così almeno in questo sarà meglio di me. Poi ci manca solo l’intervento divino, l’alito vitale.”

Già. Quando arriva l’alito vitale? Perché alcune cose sono vive ed altre no? E cosa le fa vivere?

Queste domande non hanno risposte semplici, sempre che ne abbiano una. Però io so che alcuni oggetti sono capaci di suscitare, nelle persone che li guardano, tali e tante emozioni - in altre parole dei flussi vitali - per cui si può dire che siano un poco vivi essi stessi. Questo sosteneva il mio primo maestro nonché autore, Gustavo, il cui nome e cognome potete leggere qui incisi sul mio braccio destro. Questo lui intendeva per arte. E non per vantarmi, ma Gustavo era a detta di tutti un artista, più che un falegname.

Non lo potrete certo giudicare da un manichino come me, per quanto mi abbia costruito con tanta attenzione, studiando e provando tutte le mie articolazioni e i miei meccanismi; e sebbene mi abbia levigato e rifinito con cura perché fossi la sua immagine “corporea” ed “immortale” allo stesso tempo. Voleva che qualcosa di sé, ma di infimamente inferiore a sé, rimanesse dopo la sua morte, e dedicasse la sua umile esistenza all’arte, così come lui voleva dedicargliela.

No, l’artista non si riconosce da un manichino snodato, come oggigiorno ne fanno tanti in serie; né dagli astrusi contorcimenti mentali che può escogitare sui temi dell’arte e della vita. L’ho riconosciuto dal volto di tutti coloro che, entrando nel suo laboratorio, hanno ammirato le sue Crocifissioni, le sue Pietà e tante altre sculture sacre. L’ho riconosciuto dal suo disinteresse per il denaro, la fama e tante altre cose che interessano i più. L’ho riconosciuto dalla sua preoccupazione che ogni pezzo della sua vita, e quindi principalmente le sue opere, fossero collocate “al posto giusto”, quello per cui erano nate e per cui erano state pensate dalla Mente dell’Universo.

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