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L’anello dei draghi
L’anello dei draghi

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L’anello dei draghi

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Desiderò per quella che sembrava la centesima volta che vi fosse qualcun altro lì al suo posto e che prendesse in mano la situazione. Vars avrebbe dovuto essere re ora, ma non era lì a comandare. Rodry e suo padre erano entrambi morti, morti proprio nel momento in cui tutti avevano più bisogno delle loro capacità di guerra. Erin era fuori in città, a dare il massimo nel luogo dove poteva essere più utile. Nonostante Lenore ne capisse il senso e sapesse che con così poche truppe, colpire e correre in città era meglio che aspettare al castello, desiderava che sua sorella fosse lì accanto a lei.

Si ritrovò persino a desiderare che vi fosse Finnal, anche se Lenore non sapeva cosa pensare di suo marito. Era l’uomo buono che a volte sembrava o era crudele come lo dipingevano gli altri? Nel racconto di un bardo, questo sarebbe stato il momento in cui sarebbe arrivato di corsa per assumere il comando di tutto e dimostrare a Lenore quanto la amasse. Invece, non c’era nessuna traccia di lui. Forse era fuori a fare la sua parte nella difesa della città?

Ancora più di Finnal, però, Lenore si ritrovò a desiderare che vi fosse Devin. Era intelligente e gentile, e ogni volta che pensava a lui si sentiva… si sentiva al sicuro. Forse se fosse stato lì, avrebbe usato un qualche trucco che aveva appreso dal Maestro Grey, qualche strategia per tenere tutti al sicuro. Ancor più di quella di suo marito, Lenore si sorprese a desiderare la sua presenza. Forse era un bene che lui non fosse lì, però. Forse stava meglio in giro per il mondo, a intraprendere qualsiasi strano compito lo stregone gli avesse assegnato. Forse lì sarebbe stato più al sicuro. Sicuramente più al sicuro di quanto Lenore fosse al castello.

Stava ancora riflettendo su questo, quando sua madre entrò a grandi falcate nella stanza. Fu proprio il suo passo lungo ad attirare la sua attenzione per primo; da così tanti giorni, la Regina Aethe aveva camminato come una sagoma gobba e rotta. Ora, nonostante indossasse ancora il nero da lutto, camminava verso il centro della sala con l’autorità di un generale.

“Chi è al comando qui dentro?” chiese e tutti gli occhi guardarono Lenore.

“Penso… penso di esservi io, Madre,” rispose Lenore.

Sua madre le mise una mano sulla spalla. “Allora non dovresti farlo da sola. Tu,” si rivolse a un nobile e lo indicò. “Perché te ne stai lì impalato? Trova qualcosa di utile da fare, anche se si tratta solo di tagliare quegli striscioni per fare delle bende.”

Ovviamente aveva compreso ciò che Lenore aveva in mente per loro, anche se non era stata presente a quella discussione.

“Ma gli striscioni,” disse l’uomo. “Portano lo stemma reale.”

“Credi che a mio marito interessassero di più gli striscioni o le persone?” scattò in risposta Aethe. “Sono la moglie di un re e la matrigna di un altro. Se un uomo muore dissanguato perché non abbiamo abbastanza bende, ti riterrò responsabile.”

Il nobile si affrettò a svolgere il suo compito, mentre Lenore non riusciva a distogliere lo sguardo da sua madre.

“Sono ore che cerco di convincerli a farlo,” disse Lenore.

“Sì, beh, loro sono più abituati a vedere me che faccio la dura,” replicò la regina Aethe e guardò sua figlia negli occhi. “Come sono stata dura con te riguardo a Finnal. Una madre dovrebbe essere presente per sua figlia e non solo quando fa quello che reputa giusto.”

Dopo il modo in cui le aveva parlato l’ultima volta, quando non l’aveva ascoltata e le aveva schiaffato in faccia il suo lutto, come se le difficoltà di Lenore non avessero importanza alcuna di fronte a esso, questa era l’ultima cosa che la principessa si aspettava di sentirle dire.

“Grazie,” affermò, coprendo la mano della madre con la sua.

“Non devi ringraziarmi per essermi comportata come dovrebbe fare una madre,” disse. “Avevi ragione quando mi hai detto che c’era dell’altro al mondo oltre al mio dolore.”

“Mi dispiace,” replicò Lenore. “Sono stata dura a dirlo. Anche a me manca molto, Papà.”

“Lo so,” ribatté la Regina Aethe. “Ma avevi ragione. Ci sono cose più grandi. Il suo regno, il nostro regno, è in pericolo ed io non resterò a guardare. Farò tutto il necessario per proteggerlo, e uguale farai tu. Qualsiasi cosa sia necessaria.”

CAPITOLO TERZO

Erin era inginocchiata in cima a un muro pronta a scattare, mentre guardava con repulsione tre soldati di Re Ravin passare lì sotto. Nell’oscurità del primo mattino, non potevano vederla e, probabilmente, era meglio così. Erin non si era mai preoccupata molto del suo aspetto; portava da sempre i capelli scuri tagliati corti, per evitare che le oscurassero la vista, e quando possibile indossava tuniche e brache invece che abiti femminili. Adesso, però, sembrava un mostro.

Non era solo per il sangue che copriva la sua armatura o per le ammaccature dove i nemici avevano affondato i colpi. Si era anche ricoperta l’armatura e il volto di polvere, per confondersi meglio nel buio. Oltre a ciò, però, si trattava anche di tutto quello che provava. Odd poteva passare tutto il suo tempo a cercare di insegnarle a combattere con serenità, ma in quel momento tutto ciò che Erin poteva sentire era rabbia verso gli uomini che avevano invaso la sua casa.

Saltò giù dal muro, gridando quell’ira mentre guidava la sua lancia, facendola precipitare nel primo soldato di quel trio. Altro sangue si unì alla patina che già le tingeva l’armatura, schizzando mentre impalava il suo nemico. Colpì forte il terreno e rotolò a tornare in piedi, abbandonando per il momento la lancia a favore di un lungo coltello che afferrò stretto con una mano.

I due soldati rimasti si stavano già girando verso di lei ma, presi dallo shock dell’attacco, erano lenti; Erin era già vicina al secondo e cominciò a pugnalarlo con entrambe le lame corte, troppo vicina perché lui potesse brandire la spada.

Tenne l’uomo morente tra lei e il terzo, usandolo come scudo per bloccare il colpo di un’ascia. Lasciò cadere il suo nemico già morto, trascinandogli dietro l’ascia del suo compagno, e notò che quest’ultimo uomo aveva avvolto l’arma intorno al polso con un pezzo di corda per non farla cadere nel mezzo della battaglia. Significava che era piegato ed esposto mentre Erin scattava all’attacco, affondandogli il suo coltello nella parte laterale del collo.

Quanti erano ora? Al calare della sera, Erin aveva cercato di tenere il conto del numero e aveva persino provato a fare un gioco con gli uomini che la seguivano. Adesso, però, aveva perso il conto; erano semplicemente troppi perché potesse tenerlo.

La situazione era molto lontana dai giochi cavallereschi che aveva a volte praticato da piccola insieme a Rodry; era molto lontana persino dal tipo di violenza rapida e virtuosa che aveva compiuto con Sir Til e Sir Fenir nel villaggio assediato dai Taciturni di Ravin. Questa era cruda, di casa in casa, dove doveva colpire e correre, uccidere e svanire di nuovo nell’ombra.

Erin andò a recuperare la sua lancia, mise un piede sulla schiena del primo soldato e tirò fino a liberarla con un brutto rumore umido. Stava pulendo giusto il grosso del sangue, quando sentì il rumore dei passi che si avvicinavano e vide quelle che dovevano essere altre venti truppe di Ravin che avanzavano rapide dietro alla luce di una lampada.

“Dannazione,” imprecò e si mise a correre. Dietro di lei, i passi accelerarono per raggiungerla e se la diede a gambe, svoltando a destra e a sinistra e sperando di conoscere le strade di Royalsport bene come pensava. Sì, quella era la Strada dei Vasai e quello era il vicolo dove in giorni migliori gettavano la loro argilla di scarto. Erin sapeva dove si trovava.

Questo non la metteva affatto più al sicuro. Un dardo da balestra sfrecciò oltre alla sua spalla, facendola procedere a zigzag mentre correva, determinata a essere un bersaglio difficile per qualsiasi nemico. Saltò sopra una pila di casse e udì delle persone attraversarle alle sue spalle; fece dunque uno sprint per seminarle.

Era stanca, però, e non solo per la corsa. Una dozzina di piccole ferite l’avevano ormai segnata nei combattimenti notturni. Era stata sveglia per più ore di quante potesse ricordare, e poi c’era quella violenza infinita e paralizzante, con uomini che morivano intorno a lei a ogni passo, sia della fazione nemica che amica.

Tuttavia, la furia della battaglia la spingeva a procedere, facendola svoltare ancora, in un cortile che puzzava come se fosse dietro una conceria; il fetore le aggredì le narici con ancora più forza del sangue. Non c’era un’ovvia via d’uscita dal cortile, quindi si girò a guardare i soldati che avanzavano, muovendosi più lenti ora che avevano capito che non aveva vie d’uscita.

“Ora!” gridò Erin.

Gli uomini uscirono allo scoperto sui tetti, tenevano in mano archi e balestre, lance e persino pietre in questa fase. Iniziarono lo sbarramento, sparando giù all’accerchiamento nemico, mentre alcuni di loro procedevano alle spalle avversarie, pronti a inibire ogni tentativo di fuga. Cercando di liberarsi, uno degli uomini si precipitò verso Erin, con la spada alzata. Erin riuscì a malapena a farsi da parte e gli affondò la lancia nelle budella, mentre lui falliva il suo colpo.

I suoi uomini balzarono giù allora, in seguito alla loro prima scarica di violenza con spade, mazze e asce. Attaccarono i soldati del Regno del Sud, uccidendoli uno dopo l’altro, ma non a costo zero. Erin vide uno dei nobili servitori che l’aveva seguita essere trafitto da una spada corta, vide la testa di una guardia spaccata in due dall’impatto di una mazza ferrata. Ogni volta che vedeva cadere uno dei suoi uomini, Erin sussultava, sentendo il colpo come fosse stato inflitto alla sua stessa carne. Tuttavia, sapeva che quello era il prezzo del comando; non poteva tenere al sicuro tutte le persone al suo seguito. Tutto ciò che poteva fare, era sperare che ciascuna delle loro vite portasse alla morte di quanti più nemici possibili.

La lotta nel cortile fu rapida e brutale; i soldati di Re Ravin morirono in meno di un minuto. Erin e i suoi uomini non rimasero comunque nei paraggi, perché ne sarebbero arrivati altri. Ne sarebbero arrivati sempre degli altri. Al contrario, sottrassero tutte le armi possibili ai morti e si rimisero in partenza per le strade, rimanendo nelle vie secondarie e contando sul fatto che conoscevano la città meglio dei loro nemici.

“Quanti ancora?” chiese un uomo dietro a Erin. Poteva sentire la stanchezza nella sua voce e la provava anche lei, ma sapeva di non poterla mostrare.

“Quanti ne occorre per cacciarli dalla nostra città,” rispose lei. “Noi continuiamo a procedere. Non ci fermiamo. La vita di tutti dipende da questo.” Era sicura che suo fratello, suo padre o persino Lenore, avrebbero fatto un discorso d’incitamento in quel preciso momento; tutto ciò che Erin poteva fare era dare l’esempio. “Tendete una corda.”

L’uomo borbottò ma annuì; si diresse verso uno degli edifici più vicini al corso d’acqua successivo e lanciò una corda dall’altra parte, tirandola fino ad assicurarsi che avesse preso un camino di là. Gli uomini di Erin legarono l’estremità più vicina al tetto sul quale si trovavano, ma fu lei a percorrerla, agile come un’acrobata. Sotto di lei, il fiume solitamente placido, che scorreva tra il quartiere più povero e quello dei teatri, ruggiva come lo stesso Slate. In alto, Erin poteva vedere la sagoma del Maestro Grey, che manteneva ancora il suo incantesimo.

“So che questo rallenta il nemico, mago, ma non rende le cose facili neanche a noi,” mormorò mentre atterrava leggera sul tetto opposto. Lì, vide che il groviglio della corda si era quasi districato; un altro secondo o due, o qualche chilo in più, e sarebbe scivolata in acqua. La legò più stretta, assicurandosi che i suoi uomini potessero seguirla. Si affrettarono sulla sua scia, infilando una seconda corda sopra la prima, in modo da poterla attraversare più facilmente.

“Pare che il nemico abbia avuto la nostra stessa idea,” disse uno di loro mentre attraversava. “Sono sicuro di aver visto la luce di una lampada sopra al fiume.”

“Dove?” domandò Erin e si arrampicò sul lato di un edificio, fino a quando vide un punto in cui sembrava che le luci fossero troppo vicine al fiume. Corse in quella direzione, affrettandosi per i vicoli con gli uomini sulla sua scia.

Rallentò man mano che si avvicinava, muovendosi nell’oscurità. Lì, trovò un ponte di corda tra due edifici e vide un uomo che lo stava attraversando. Sembrava un messaggero, ma a Erin non importava cosa stesse facendo, bastava il fatto che era coinvolto nel tentativo di uccidere la gente della sua città. Afferrò la testa della sua lancia e colpì una delle corde, tagliandola in un colpo solo.

L’uomo sembrò percepire che qualcosa stava andando storto. Si voltò e tornò indietro verso la riva lontana, ma Erin stava già tagliando una seconda corda. Vide la sagoma del messaggero precipitare nell’acqua sottostante e si voltò verso i suoi uomini.

“Non possiamo permetterlo,” disse. “Ma possiamo usarlo a nostro vantaggio. Ci avvicineremo di nascosto e taglieremo i ponti con gli uomini sopra. Uccidendo così quelli che stanno attraversando. Se hanno degli ordini per gli altri gruppi nella città, noi li useremo per metterli in trappola. Qualsiasi cosa facciano, troveremo il modo di farla pagare loro con la vita.”

“E cosa delle nostre vite?” domandò un altro dei suoi uomini.

“Vuoi la verità?” chiese Erin. “Le nostre vite non hanno importanza in questo momento. Pensate a tutti gli abitanti di questa città, a tutti quelli che moriranno o verranno ridotti a poco meglio che schiavi, se il Regno del Sud prenderà Royalsport. La loro unica speranza è che noi continuiamo a muoverci, che continuiamo a uccidere quanti più uomini di Ravin possiamo.”

Forse sarebbe stata fortunata, avrebbe sorpreso Re Ravin con poche truppe intorno a lui e sarebbe dunque stata in grado di ucciderlo. Con lo scemare della notte, però, sembrava sempre meno probabile. No, non era più nemmeno notte. Sopra di sé, Erin poteva vedere una sottile scheggia di luce all’orizzonte, rossa come il sangue che si era riversato nelle strade della città. Normalmente, avrebbe accolto l’alba con piacere, ma ora la malediceva. Il buio era il loro amico e la loro protezione; la luce era l’ultima cosa di cui avevano bisogno.

Presto, Erin comprese di dover rientrare al castello; odiava l’idea di lasciare Lenore e la loro madre da sole così a lungo. Per ora, però, doveva continuare a combattere, anche se il numero dell’esercito del Regno del Sud sembrava infinito in confronto alla loro piccola forza frantumata.

“Non abbiamo ancora finito,” promise Erin ai suoi soldati. “Andiamo.”

Con la lancia in mano, si immerse nelle prime luci dell’alba, alla ricerca del prossimo gruppo di nemici da uccidere.

CAPITOLO QUARTO

Odd inflisse un taglio a un soldato che gli si era avvicinato, cronometrando il colpo in modo da deviare quello del nemico e incidergli al contempo la gola. Udì un rumore accanto a sé, si girò e parò un altro attacco, sferrando un calcio per far cadere l’uomo all’indietro; poi, ne colpì un terzo per costringerlo a uscire dalla traiettoria del Maestro di Spada Wendros, incapace di completare l’affondo che stava allineando.

“Attento,” disse Odd. “Quello ti aveva quasi preso.”

“Sapevo che ci avresti pensato tu,” rispose il maestro di spada, disarmando abilmente un soldato in arrivo e poi conficcandogli la sua sottile lama nel petto.

Intorno a loro, le pedane per l’addestramento della Casa delle Armi erano inondate di violenza, mentre i fabbri e i maestri combattevano gli uni accanto agli altri, contro i soldati di Re Ravin che si avvicinavano loro per cercare di ottenere il controllo delle armerie. Odd vide uomini lottare con martelli e lame, usando sia i loro arnesi da lavoro che le cose che avevano fabbricato con essi.

Lì, sulla pedana per l’addestramento dove Odd e il Maestro di Spada Wendros combattevano a schiena a schiena, gli uomini si arrampicavano sulle ringhiere di legno che circondavano lo spazio, avanzando a coppia o da soli per attaccare con qualsiasi cosa venissero in possesso, dalle spade alle alabarde, dalle lance alle asce d’armi. Odd deviò una spada d’armi a sinistra, colpì un nemico con il pomolo della sua spada lunga per stordirlo e poi lo decapitò con un colpo di rovescio. Uno si avvicinò dall’altro lato e Wendros alzò la lama mentre si dirigeva verso Odd, lasciando aperta la strada al finto monaco perché abbattesse il soldato in arrivo.

“Sei molto bravo,” osservò Wendros, muovendosi con apparente disinvoltura per evitare il colpo di un’ascia e uccidendo l’uomo che gli si era avvicinato facendo sfrecciare la sua lama. “Dalle voci, avevo creduto che saresti stato più selvaggio.”

Odd grugnì in risposta, immergendosi nello spazio in cui combatteva adesso, con calma e precisione al posto della furia, tanto che la sua lama sfrecciò una volta e poi di nuovo, per colpire altri due avversari.

“È davvero questo il momento di fare questa conversazione?” chiese, mentre la fitta di una lama che gli incideva il braccio lo riportava in sé. Scattò in risposta, avvertendo l’impatto della sua spada contro la carne, ma non ebbe il tempo di fermarsi a vedere i risultati.

“Questo è successo perché ruoti un po’ troppo il polso quando passi dalla parata al contrattacco,” spiegò il Maestro di Spada Wendros. Come per avallare la sua tesi, deviò una lama e poi spinse la sua stessa spada nel palato di un uomo.

“Se vorrò una lezione di spada, te lo chiederò,” disse Odd. Evitò un altro colpo, uccise l’ennesimo uomo e continuò ad andare avanti.

C’era qualcosa di meccanico nella violenza in questa fase, così che invece di pensare a finta e contrattacco, tattica e distanza, c’erano solo il movimento e l’uccisione, passando da un avversario all’altro.

Nonostante ciò, il Maestro Wendros faceva sembrare tutto facile. Si muoveva fluido e con un tempismo perfetto; non sembrava mai avere fretta, ma era sempre presente quando serviva. Deviava i colpi e lasciava che lo superassero; colpiva con una letalità quasi disinvolta, mentre lasciava una scia di cadaveri ai suoi piedi. Solo lo zoppicare della gamba ferita gli faceva perdere l’equilibrio, rallentandolo e facendo singhiozzare un poco il suo lavoro di piedi.

Anche mentre Odd colpiva un altro avversario, non poté fare a meno di chiedersi quanto il maestro di spada dovesse essere stato bravo come spadaccino nel fiore dei suoi anni. Odd era sempre stato considerato uno dei più pericolosi tra i Cavalieri dello Sperone, ma il maestro di spada era qualcosa di diverso. Era davvero incredibile che Odd non l’avesse cercato per combatterci.

Odd affondò più in profondità nella meditazione della violenza, sperimentando ogni momento in modo così vivido che sembrava riempire i suoi sensi. Tutti i colori del luogo erano adesso più luminosi, i suoni della battaglia più chiari, ognuno con il proprio messaggio, cosicché scoprì di poter cogliere il flusso e il riflusso della lotta intorno a lui proprio da questo. C’erano pochi piccoli duelli intorno a loro, con partecipanti caduti e vittoriosi; Odd non sapeva quali. Riusciva a percepire il respiro degli uomini che si avvicinavano loro, a cogliere ogni dettaglio di una spada che puntava il suo cranio anche mentre la evitava, uccidendo l’uomo con un colpo verso l’alto.

In un istante, non c’erano più nemici da combattere. Lo spazio intorno alla pedana per l’addestramento era vuoto di nemici, lo spazio all’interno conteneva solo i loro cadaveri, l’odore della morte riempiva tutto. Sopra, attraverso ampie finestre ad arco, Odd pensò di vedere un sottile frammento di alba fare capolino con una tonalità di rosso.

“Non avrei mai pensato che saremmo vissuti abbastanza a lungo da vederla,” disse, rivolgendo lo sguardo al maestro Wendros. L’uomo sedeva su una delle ringhiere della pedana per l’addestramento e bendava una ferita sul suo torso con una striscia di stoffa. Odd non aveva visto quel colpo fare centro e non aveva creduto che qualcosa potesse passare attraverso la precisa rete delle sue difese.

“Una volta, questo non mi avrebbe neanche toccato,” affermò il maestro di spada, con un tono irritato. Odd poteva crederci.

“Avrei voluto combattere con te allora,” disse Odd.

Il maestro di spada si accigliò. “Non l’avrei fatto,” rispose. “Ho sentito parlare dell’uomo che eri. Non avremmo combattuto, se non fino alla morte.”

Odd chinò il capo, perché non poteva negare la verità di quelle parole. Un tempo, il suo orgoglio non gli avrebbe permesso di tollerare l’esistenza di un altro uomo con quelle abilità senza metterlo alla prova e la sua rabbia da battaglia non avrebbe permesso che si trattasse di altro che sangue.

“Non sono più l’uomo che ero,” replicò Odd, ed era più una speranza che un fatto.

“Chi di noi lo è?” ribatté Wendros. “Sono onorato di combattere al tuo fianco adesso, però.”

Questo colse Odd un po’ di sorpresa. Erin sembrava contenta di essere sua allieva, ma non sapeva fino in fondo chi era e cosa aveva fatto. Il Maestro di Spada Wendros era abbastanza in su con l’età da saperlo, ma non si era allontanato da lui come avrebbe fatto la maggior parte dei Cavalieri dello Sperone.

“Quindi,” disse Wendros. “Abbiamo un piano in tutto questo?”

“Aiutiamo dove possiamo,” rispose Odd. “Ci sono troppi nemici e noi siamo troppo pochi. La Principessa Erin sta guidando degli uomini; colpiscono e fuggono per le strade. Mi ha mandato qui per cercare di recuperare uomini e armi per la battaglia.”

Ma ormai gli uomini rimasti erano ben pochi. Se le stanze per l’addestramento erano state sgomberate dagli invasori, c’era solo una manciata di maestri d’armi e fabbri rimasti in piedi e la maggior parte di essi era ferita.

“Andate,” ordinò loro Odd. “Siete rimasti troppo pochi per mantenere il controllo di questa Casa. Unitevi alla lotta per le strade. Uccidete i nemici e proseguite. Andate.”

Uscirono, ovviamente contenti di avere qualcuno che sembrava sapere cosa stava facendo e dava loro dei comandi.

“Forse dovremmo unirci a loro,” propose Wendros e saltò giù da dov’era appollaiato sulla ringhiera, barcollando leggermente sulla sua gamba malandata.

“Ben presto,” rispose Odd. “Quando sarai pronto.”

“Non provare a compatirmi,” ribatté il maestro di spada, “o combatteremo per davvero.”

Nonostante ciò, si fecero strada attraverso la Casa delle Armi molto più lentamente degli altri, scendendo negli spazi dove si trovavano le fucine e avanzando verso l’uscita. Le fucine giacevano silenziose adesso, solo un debole bagliore proveniente da esse si aggiungeva alla crescente luce dell’alba.

“Pensi che possiamo vincere?” chiese Wendros.

Odd alzò le spalle. “A volte si tratta solo di quanto a lungo e quanto bene si combatte.”

Si stavano ancora dirigendo verso l’uscita quando altri uomini di Ravin iniziarono ad accedere alla Casa delle Armi. Una coppia entrò per prima e Odd la abbatté senza difficoltà, ma seguirono altri e altri ancora dietro di loro. Si riversarono nella Casa delle Armi, quasi troppi per poterli contare. Certamente troppi perché loro due potessero combatterli. Nonostante ciò, Odd strinse la spada sul palmo.

“Pensi di caricare di nuovo?” domandò Wendros.

“No,” rispose Odd. “Combattiamo e ci ritiriamo, usando le fucine come copertura.”

Era un buon piano e iniziarono a indietreggiare insieme, verso una via d’uscita. Il nemico avanzò lento all’inizio, come se nessuno volesse essere il primo a raggiungerli. Poi un uomo si fece avanti, caricando, e Odd lo abbatté.

Gli uomini si riversarono dentro dopo di lui, raggiungendo Odd e Wendros da ogni lato. Adesso non c’era tempo per l’eleganza, né per l’abilità. C’era tempo solo per tagliare e affondare, dando terreno passo dopo passo. Finora poteva andare, perché le fucine li proteggevano mentre combattevano a fianco a fianco, ma un solo sguardo indietro disse a Odd che presto si sarebbe ripresentato il problema che lui ed Erin avevano affrontato sul ponte. Al di là delle fucine, oltre l’uscita verso cui si stavano dirigendo, lo spazio si apriva e i loro nemici avrebbero potuto circondarli. Solo che, questa volta, Odd dubitava fortemente che ci sarebbe stato un esercito che sarebbe venuto a salvarli.

“È un problema,” disse il Maestro di Spada Wendros, ovviamente avendo notato la stessa cosa. La sua spada volteggiò per deviare la lama nemica e ucciderne il proprietario. “Ma è un problema con una soluzione, almeno.”

“Quale soluzione?” chiese Odd, abbattendo un altro uomo, poi un altro ancora.

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