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Storia degli Esseni
A pag. 119. Di tale affetto di conversar con donna erasi spogliato Mosè già molto innanzi, quasi infin da quel tempo che incominciò a ricevere lo Spirito Divino, per esser sempre apparecchiato ad ascoltare gli oracoli della voce divina. Circostanza taciuta assolutamente nel Testo mosaico, nè vi ha frase che l’autorizzi. I soli a parlarne, a giovarsene eziandio per ispiegare non pochi passi del Pentateuco sono i Dottori. Donde tolse Filone questa circostanza? Io non so imaginare altra fonte che quella d’una tradizione nazionale anteriore alla emigrazione degli Ebrei in Egitto. Avesse anco attinto Filone nel centro Palestinese, rimarrebbe tuttavia verissimo che i Dottori talmudici nulla dissero che non corresse per le bocche ad ognuno, parecchi secoli innanzi; e che non pochi dettati i quali sembrano appartenere al patrimonio letterario dell’epoca loro, hanno radici in un’antichità che non eravamo usi sospettare. Alla pagina istessa Mosè è dichiarato, bello e forte di corpo. Ed anco di questo, solo la tradizione è maestra che appunto in Mosè trova il prototipo di tutti i Profeti siccome quello che era forte ricco e sapiente.
A pag. 120. In quei giorni ch’egli (Moisè) nel monte dimorò, imparava tutti i misteri del Sacerdozio. E questo è purissimo farisaismo, che vuole la Legge e i misteri della Legge imparati da Moisè nei giorni ch’ei stette sul monte.
A pag. 137. Esse dunque (le Donne) avevano dedicati a Dio spontaneamente gli specchi avanti i quali erano avvezze ad abbellire la faccia come primizie dell’onestà del matrimonio. Che dal Testo apparisca essere veramente specchi cotesti, e dalle donne offerti, può darsi, ma l’intenzione e il pregio di tale offerta quali si descrivono qui da Filone, non si leggono che nei Dottori i quali vi veggono come Filone il simbolo e lo Stromento dell’amor coniugale onde tanto crebbe il popolo di Dio in Egitto.
A pag. 161. Insegnando (nel sabato) il principe (Moisè) a guisa di Dottore ammaestrando e dimostrando a ciascuno l’officio suo il quale uso dura anche al dì d’oggi presso i Giudei. Nessun vestigio nella Bibbia di questa pratica; sibbene nella tradizione la quale fa risalire a Mosè la istituzione di cui si tratta e l’insegnamento al popolo nei Sabati e nelle Feste dei Riti odierni.
A pag. 162. Stando Moisè sospeso nè sapendo con qual maniera di morte che a lui si convenisse, dovesse punirlo. Il Testo dice semplicemente che non sapeva qual pena dovesse infliggergli. Ella è solo la tradizione che ponendo in Mosè la certezza della pena di morte, gli fa sol dubitare in qual maniera dovesse essere eseguita. Le parole di Filone consuonano quindi perfettamente colla tradizione, meglio assai che col Testo il quale tollera che si supponga in Mosè il dubbio piuttosto, se fosse o no reo di morte. Ma la mèsse che noi andiamo a raccogliere del raffronto fra dottrine e dottrine è di gran lunga maggiore e più importante.
A pag. 3. Filone fa notare come Mosè fu il settimo per ordine dal primo il quale venuto da straniere contrade diede principio al popolo ebraico. Qui tutto è farisaico 1º L’importanza conceduta ai Numeri. 2º La Santità del numero Sette. 3º L’osservazione medesima per ciò che riguarda Mosè è non meno esplicita nei Dottori, i quali adducono qual prova della stima in cui questo numero è tenuto, la elezione di Mosè settimo nella serie dei Patriarchi.
A pag. 20. Filone trova nella visione del pruno che arde senza consumarsi un senso allegorico «il fuoco che non consumava la materia, dimostrava che coloro non dovevano morire i quali dalla violenza dei nemici erano calcati.» Questa interpetrazione è proposta e autorizzata dai Dottori.
A pag. 22. Dirai primieramente loro, che Io sono colui che è, acciocchè imparino la differenza tra colui che è, e quello che non è; nè verun nome potersi convenevolmente dire di me del quale solo è l’Essere. E se egli avvenisse che per essere essi d’ingegno tardo, volessero sapere come io mi chiamo, mostra loro non solamente me esser Dio, ma Dio ancora di tre personaggi ec. Qui si noti:
1º Filone dà perfettamente ragione alla più antica sentenza che vide nei due nomi più augusti di Dio —Ehie—Avajà– il concetto dell’Essere; e vince colla sua luce il falso bagliore di interpretazioni quali sono quelle proposte dal Prof. Luzzatto vuote di ogni merito, tranne quello, di essere da lui derivate.
2º L’Essere, qual nome di Dio e superiore a quello stesso quadrilettere, consuona mirabilmente con quanto insegnano i Teosofi ebrei (Kabbalisti) i quali veggono nell’Ehie o Essere, la denominazione di una Sefirà o Emanazione superiore a quella che reca il secondo di questi nomi.
3º Tanto conferma Filone aggiungendo che ove per ingegno tardo volessero saper come Io mi chiamo mostra ec., dove si allude manifestamente al quadrilettere usato dal Testo in quella circostanza e chiamato Dio d’Abramo ec.
A pag. 28. Dieci afflizioni caddero sopra il paese, acciocchè quelli che avevano commesso ogni scelleraggine con perfetto numero di flagelli fossero battuti. Qui non solamente torna in campo il valore dei numeri, non solo il numero dieci è il prediletto dai Dottori e dalla Bibbia eziandio, ma ciò ch’è più, la teosofia recondita degli Ebrei trova nei dieci flagelli d’Egitto, l’espressione, la imagine delle dieci emanazioni impure, specie di Antischemi ch’essi oppongono alle divine emanazioni.
A pag. 29. Cotali (flagelli) però in tre ordini furono divisi. Ogni Israelita legge nei vespri pasquali l’antica sentenza di R. Iehuda che divide i dieci flagelli in tre serie, Dezah, Adas, Beahab. Questa gratuita partizione diventa così, più vecchia di circa due secoli.
A pag 54. La vitale virtù della palma non come le altre piante e riposta nelle radici ma nel sommo messa, come ii cuore nel mezzo dei Rami la quale intorno intorno è custodita, come un Re dalle sue genti. Osservazioni dei Dottori a proposito della Palma festiva i quali aggiungono volere essa per questo significare l’unità d’aspirazione d’Isdrael verso l’Altissimo. Quanto alla Palma, ecco come si esprime il Sharon Turner I, 122, nota: «Vi è una tribù di piante chiamate monocotiledone dove dall’avere un solo lobo per seme, appartiene a questo, l’ordine naturale delle Palme.»
A pag. 82. È sensibile in Filone una interpretazione farisaica di un locuzione di Balaam. Questi aveva detto per Israele «popolo che qual lione si alza, nè riposa finchè abbia divorato la preda. I Dottori spiritualizzando il verso lo applicarono alle preghiere, alla Confessione di Dio che l’Israelita ripete, nel levarsi e nel coricarsi. Si oda ora Filone: nè ciò fatto anderà a riposare, ma vigilando canterà versi che significheranno la sua vittoria.» Ecco altri tre secoli di antichità alle più umili o neglette tradizioni farisaiche.
A pag. 104. Il Testo Biblico vieta le opere nel giorno di Sabato. Una esegesi razionalistica potrebbe non vedervi, che le opere le quali affaticano il corpo, non atti che si compiono quasi per trastullo, quale sarebbe cogliere un frutto, strappare una fronda ec. Filone però non è tra questi. Concede ancora il settimo giorno agli alberi e a tutte le piante qualche alleggiamento, perciocchè in tal dì è vietato levarne le frondi e le foglie e raccorre alcun frutto.
A pag. 120. Filone traduce il Micdas di Mosè (Tempio) per città sacra. Donde ciò? Una delle tradizioni farisaiche nella Misna vuole appunto che tutta la città di Gerusalemme sia detta Micdas e ne abbia a certi effetti le prerogative.
A pag. 122. Il numero Cinquanta santissimo. Eccolo dunque col sette e col dieci, terzo tra i più venerati numeri nella teosofia tradizionale: degno pure è di nota l’epiteto di santissimo. Infatti il numero cinquanta appartiene alla emanazione Bina che ha per distintivo la santità Kodes, come altre, la verità (Emet), la carità (Hesed) e via discorrendo.
A pag. 124. Il giacinto rassembra nel colore l’Aere. E questo è il Tehelet del Pentateuco e appunto come Filone dissero i Dottori, il Tehelet somiglia all’Aere. Pare dunque che a questa doppia autorità dobbiamo starcene, piuttosto che a problematiche analogie tratte dall’Etiopico come vorrebbe un Filologo scrittore del giornale Ebraico. Maghid. Anno 7º 13 e 14.
A pag. 127. In tali figure (dei Cherubini sovrapposti all’arca) crederò che dimostrino le due antichissime ed incomprensibili potenze di colui che è la vera essenza, una delle quali crea, l’altra governa; per quella vien chiamato Dio, con cui tutto l’universale fabbricò ed adornò ma per la regale è chiamato Signore. Testo preziosissimo perchè informato senza meno delle idee teosofiche farisaiche. Basti dire (senza grandi sviluppi che il luogo non consente) che della sacra decade o dieci Emanazioni divine, la sapienza ch’è la vera essenza, come dice Filone, e appunto per ciò chiamata Ies, Essenza, si parte nei suoi due attributi, o in un figlio ed una figlia come si esprime il linguaggio simbolico di essa teosofia, e questi figli appunto sono in quella scienza stessa rappresentati dai due Cherubini che poggiavano sul arca del Patto. Or quali idee esprimono essi? Tali osiam dirlo, che concordano mirabilmente con quanto Filone va significando. Il primo portato o figlio, è appunto la potenza creatrice che l’universo fabbricò ed adornò il Demiurgo dei Platonici e come Creatore è pur anco Rivelatore e fonte dei prodigii, conciossiachè egli abbia dato le leggi al mondo; anzi che per esse leggi lo governi; ed è rappresentato dal nome tetragramma di Avoja, il secondo attributo o figlia, è alla lettera la potenza regale, come dice Filone il Regno, Malhut, e come il nome lo significa, presiede al governo del mondo. Per questo officio lo chiama Filone Signore e appunto per ciò ha per suo distintivo in quella Teosofia il Nome d’Adonai o Adon, e per far più mirabile l’analogia, il nome persino onde nel Testo Greco si vale Filone il greco titolo di Kirie Signore, e appunto nel suo senso greco di Signore, conciossiachè sia cotesto uno dei residui della lingua greca di cui si giovò lo stile familiare e la teosofia dei Farisei.
A pag. 130. Aveva (il sommo Pontefice) una piastra d’oro a guisa di corona scolpita di quattro lettere, di quel nome il quale è lecito d’udire e nominare nel sacrificio, solamente a quelli che gli orecchi e la lingua hanno colla sapienza purificato. Da cui tolse Filone questo divieto di profferire il nome quadrilettere se non nel Tempio? Non certo nella Bibbia che di ciò non favella; sibbene nella tradizione farisaica che appunto dispone doversi nel Tempio invocare Dio col nome suo quale si scrive, e fuor del tempio con quel di Signore e che per l’autorità di Filone si palesa veridica e più antica di parecchi secoli.
A pag. 131. Ciò che segue è d’importanza ancor maggiore. «Tal nome dicono i Teologi essere di 4 lettere forse perchè significa i primi numeri, uno, due, tre, quattro, perciocchè nel quaternario tutto si contiene, e punto, e linea, e superficie, e solidità.» Si noti in primo luogo come Filone non sia tanto qui originale spositore, ma si faccia bensì interprete di ciò che dicono i teologi. Non sembra con queste parole mostrarci a dito la sorgente a cui attinse? Che sarà se troveremo pure gli insegnamenti conformi? In fatti i Teologi ebrei veggono nelle quattro lettere del nome divino, nè più nè meno di ciò che vi trova Filone, o per dir meglio, ciò che vi trovano i Teologi a cui accenna. Queste lettere sono la Iod, la E, la Vau e la E. Ora per la prima intendono la emanazione Sapienza detta ora, Uno (ed in ciò consuona coll’Uno, o Buono di Plotino e dei Neoplatonici) ora, punto, (Nekudda;) per la seconda, vogliono significare la emanazione Bina o intendimento, chiamata per la stessa simbologia matematica ora due ora linea (Kau;) per la terza accennano alla sesta emanazione il Logo, Daat o Bellezza, Tifheret, che è detto il terzo patriarca, Israel a cui è promessa larghezza senza confini (Nahala Beli Mesarim) la quarta lettera, raffigura il Regno ultima emanazione, (Malhut) chiamata Guf… Corpo Solido, Profondità (Omek) ed anche quarto sostegno del trono, reghel rebihi. Aggiungiamo per i dotti, che qui in Filone come nelle prime evoluzioni del domma cristiano le due triadi principali della serie emanativa, Corona, Sapienza, Intendimento da un lato, e Sapienza, Logo e Regno dall’altro, si compenetrarono e confusero in guisa da sostenere talvolta l’officio gli uni degli altri.
A pag. 136. Parimente nel Razionale, il quale alla regione (Logos) ogni cosa disponente, si rassomiglia, perciocchè faceva mestieri che il sacerdote che all’universal Padre porta preghi, adoperasse per avvocato il perfettissimo suo figliuolo, ad ottenere degli errori perdono. Il razionale è come ognuno sa un quadrato di porpora giacinto ec., che il sommo pontefice recava sul petto. Questo come tutte le altre parti del culto ha un senso simbolico, teosofico nella scienza recondita e nel suo gran codice il Zohar. Qual è questo senso nel razionale? Non so se m’illuda, ma parmi l’identità e non solo l’analogia d’idee, evidentissima. L’emanazione Tifheret, o Logos è per i Teosofi la ragione (Daat, Logos) il figlio, e per aggiunta perfettissimo (Ben, Tam, Tamim.) Chi direbbe che ciò appunto significa il Razionale per i Teosofi? Eppure nulla di più dimostrato per chi legga nel Zohar, vol 2, pag. 230 e nel Meore Or. Di fronte a questa splendida conformità non insisteremo sull’officio di Difensore e per dirla nel linguaggio cristiano e che probabilmente Filone adoperò, di Paracleto attribuito a esso figlio, Ragione. Diremo solo che neppur esso manca per completare la rassomiglianza fra il Logos o Ragione di Filone e il figlio o Ragione dei Teosofi Ebrei. Notiamo ancora di fuga che il nome di Razionale derivò, a quanto pare, a questa veste dall’epitetto Mispat di giustizia che porta nel Pentateuco.
A pag. 145. Nè potendo fare di non credere all’oracolo, come mezzano e arbitro del divino concetto. Fraseologia incomprensibile se non si raffronti allo stile ed ai simboli teosofici dei Farisei, pei quali l’oracolo o l’eco, è lo Spirito Santo il Regno, chiamato appunto Mezzano (Sirsur, emzahi, Malah) Interprete, Turcimanno (Torgheman) del divino concetto, cioè dell’Idea del Logo, della Ragione.
A pag. 157. Più oltre passando ed il tutto bestemiando, niente addietro lasciò. Bestemmiare il tutto è frase che vuole spiegazione. Se la traduzione del greco è esatta, non è possibile astenersi dal vedere in questo tutto o Pan, uno dei nomi più legittimi di parecchie tralle emanazioni farisaiche col tutto.
Ibid. La legge del Sacrilegio interpretata dai Dottori esige che il bestemmiatore si faccia ad esecrare il nome dl Dio, col nome di Dio stesso, Dio invocando contro Dio medesimo; e come dice il Talmud (Iacchè Iosà et Iosè) forma che altra non fu mai non so se più mostruosa o paradossale. Ma tanto più concludente se si troverà in Filone. Si oda lo stesso, a pag. 157… la sfrenata bocca obbedendo ec., sogliono senza dubbio bene spesso, o uomo, qualche mostruosa sceleraggine commettere. Or dimmi saravvi chi esecrerà Dio? Quale altro Dio a questa esecrazione chiamerà? Non chiamerà egli stesso contro lui stesso? Queste parole non han bisogno comento. Offrono un eloquentissimo indizio di quella fratellanza d’idee che noi asserimmo tra Filone e i Farisei.
A pag. 158. Quando Moisè dice «Ognuno che avrà maledetto il suo Dio porterà il suo peccato.» Filone intende pegli Dei dei Gentili, aggiungendo, acciocchè nessun discepolo di Mosè si avvezzi a stimar poco il nome di Dio che sempre stimò. Giuseppe Flavio consente in quella intelligenza del Testo Mosaico col nostro Filone; ma finchè non fossero che questi due scrittori, un dubbio naturalissimo potrebbe sorgere non forse volessero per siffatta guisa amicarsi la opinione dei Pagani, e fare da essi estimare la legislazione mosaica. Ciò che ne interdice di così giudicare ella è l’autorità del Zohar, doppiamente preziosa, vuoi perchè chiarisce ingenua e spontanea la interpretazione dei due scrittori greci con essi consentendo, vuoi perchè ne porge un nuovo anello onde connettere costoro, e specialmente Filone, colla teologia acroamatica e coi principii che ispirarono al zohar la stessa interdizione di Giuseppe e Filone. Vedi mie note critiche al Pentateuco nell’opera mia Ebraica Em lamicra, Levitico Cap. 24.
A pag. 159. La tradizione trova mal fatto chiamare il proprio genitore per nome, sia egli presente o lontano, e quando pure si qualifichi con qualsiasi titolo onorifico. Non è egli in sommo grado parlante trovare la stessa inibizione in Filone? «Perciocchè (egli dice) neppure il nome dei mortali genitori, quelli che osservano la pietà ardiscono nominare, ma lasciando per riverenza i nomi propri, dei naturali si servono, chiamandoli Padre e Madre.
A pag. 160. Chiama vera filosofia, alla quale l’Ebreo attende il giorno del Sabato, quella che in sè questi soli tre capi contiene, opinioni, detti, ed opere. È degno di nota, da una parte come la tradizione esiga il riposo sabbatico, non solo nelle opere ma eziandio nei detti e nel pensiero, astenendosi da parole o cogitazioni che non siano di preghiere o di studio; e dall’altro come il culto perfetto secondo i Teosofi ebrei consista appunto nella consacrazione dei pensieri, dei detti, delle opere, al servizio divino Mahasabà, Dibbur, Maasè.
A pag. 170. La legge di successione registrata nel Libro dei Numeri, tace del Padre, come erede del proprio figlio. Si oda Filone… perciocchè pazzia sarebbe credere che lo Zio come fratello del Padre fosse erede del figliuolo ed il proprio padre non fosse erede del figliuolo; ma perchè la legge di natura comanda che i figliuoli succedano nei beni dei padri e non i padri in quei dei figliuoli, di questi non parlò come di cosa di tristo augurio e contrario all’amore paterno. Accennò nondimeno tacitamente che quel benefizio che ai zij permette doversi ai Padri ancora esser conceduto: Triplice conformità coi Talmudisti. 1º Nel riconoscere nel Padre il diritto di successione al figlio, nonostante il silenzio del Testo. 2º Nel valore conceduto alla causa di questo silenzio; cioè come cosa di tristo augurio; ragione che il Talmud stesso invocava nel trattato Batrà, Cap. 3º. – ; 3º nel convenire che fa Filone, avere Mosè tacitamente accennato questo diritto del Padre; sistema d’interpretazione in uso presso i Farisei i quali dal proibito incesto colla nipote, traggono per illazione de minori ad majus quella della figlia stessa e dalla parola Scèero che si legge nel Testo Mosaico concludono doversi attendere anzi tutto al diritto del padre, verace parente e carnale come Scèero appunto significa.
Noi abbiamo fin qui indagato nella intima natura di questi raffronti, il pensiero comune tra la tradizione farisaica e Filone; e crediamo avere il risultato risposto pienamente alla nostra aspettazione. Rimarrebbe però a desiderarsi che oltre queste concordanze di fatto che offre Filone colla tradizione, ci ponesse egli stesso sulla via per risalire alla origine della tradizione e qualche cosa dicesse che accennasse appunto avere egli da questa fonte attinto che noi presumiamo. Ognun vede la grande importanza di questo deposto di Filone, se pur vi fosse. Avventurosamente egli esiste ed è nei termini seguenti ai quali vuolsi gran peso concedere. «Ma io la invidia di costoro trapassando desidero esprimere di un tal uomo quello che mi hanno insegnato i Sacri libri che egli lasciò… e che io ho appreso da alcuni vecchi della nostra gente i quali sempre all’antica lettura, alcuna cosa solevano aggiungere, onde maggiormente la vita di lui ho potuto conoscere.» Questa preziosissima confessione pone il suggello a quanto fu da noi intieramente dimostrato per via di raffronti e la sorgente tradizionale non poteva essere meglio dimostrata a dito, di ciò che si fa in queste parole.
(Vita di Mosè in principio.)
25
Revue des Deux-Mondes, V, 745.
26
Questo studio rigorosissimo di purità sino al punto di preterire doveri sì sacrosanti ci può far comprendere il valore di certe parole del Fondatore del Cristianesimo. Lasciate i morti seppellire i loro morti. Chi non odierà il Padre, la Madre, il fratello per amor mio non sarà degno di seguirmi. Donna, questi sono mia Madre e questi i miei fratelli. Non è nostro officio sindacare di queste sentenze il valore morale; sibbene il critico. Ora noi fondatamente asseveriamo non d’altronde derivare se non da quel concetto che di se medesimo mirava a far prevalere e che altrove abbiam già veduto informare le sue parole; quello cioè di Tempio vivo e vero ed erede delle prerogative tutte del Tempio reale allora esistente. Quindi per naturale illazione tutti i doveri che cessavano alle soglie del Tempio non potevano più avere niun diritto alla sua osservanza nè a quello dei seguaci. Vediamo infatti non per altro motivo giustificarsi da Gesù le infrazioni del sabato e delle leggi dietetiche se non dicendo esservi allora presente. Qualcheduno maggiore del Tempio. Notabilissimo poi è che il Zoar dà la qualità di Tempio al Dottore Cabbalista (Vol 3º Sez. Zau); nuovo indizio delle origini essenico-cabbalistiche del Cristianesimo.
27
Risulta dal Testo sacro per duplice motivo e in duplice senso, chiamarsi il Nazireo con questo nome, nel senso di separazione e nel senso di corona. Ciò prova come la nomenclatura biblica sia polisensa, e come bene si appongano i dottori, cercando, oltre la indicazione biblica, altro senso nel nome di quei personaggi. Non meno questo fatto resulta evidente nei nomi apposti ai figli di Giacobbe; per esempio, Giuseppe, ove anche il senso di ritrarre, cessare l’onta dell’orbamento, è accennato dal Testo stesso, allato dell’altro più appariscente di aggiungere, aumentare; e di altri non meno, come avvertimmo nelle nostre note al Pentateuco in lingua ebraica (Em lammicrà, Genesi, cap. I). Questa multiformità di sensi può darci la chiave di alcune anomalie, non ancora perfettamente risolute; qual è, a mo’ d’esempio, la poca convenienza che si nota tra certi nomi biblici nella loro attual giacitura, e la etimologia che ne assegna la stessa Scrittura; così Cain mal consuona col Canisti, da cui si vuole derivato; Noè con Jenahamenu, Samuel con Seiltiv, ed altri, che nel nostro sistema avrebbero avuta altra significazione, eziandio taciuta dal Testo. Si spiegherebbe ancora come siano rimaste in credito certe derivazioni pugnanti colla esplicita dichiarazione del Testo, qual è, ad esempio, la origine del nome Mosè, secondo la Scrittura, dal verbo ebraico Masa e secondo Filone (Vita di Mosè) dal nome egiziano d’acqua, mos. Non è improbabile l’ipotesi che i primi cristiani siansi detti Nazareni, nel senso di Nazirei, piuttosto che in quello di originarj della città di Nazaret, etimologia poco ammissibile, e per avventura immaginata quando l’antica origine dell’Essenato, cominciò a venir meno nella memoria degli uomini.
28
Chi sa che l’atto di Geremia nel propinare il vino ai Recabiti non sia una di quelle solite parodie onde i profeti solevano contraffare le prevaricazioni del popolo per fargliene rimprovero. Avremmo quindi l’iniziazione e il magistero profetico nei Recabiti eziandio, ai quali era dato il vino come antidoto, siccome ai suoi coetanei rimprovera Amos; e intenderemmo meglio le promesse fatte ai Recabiti da Geremia che suonano così magnifiche. È strana dopo le cose dette fin qui l’opinione di coloro che si ostinano a vedere nell’uso generoso del vino una preparazione necessaria e consueta all’officio di profezia tra il popolo nostro.