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Arrigo il savio
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Arrigo il savio

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Arrigo Valenti non la intendeva così.

– Parole! – mormorò egli. – Ma nel fatto…

– Orvia, non voglio sentir altro! – gridò Cesare Gonzaga, che incominciava a perdere la pazienza. – Vedi, Arrigo, se tu non amassi, la qual cosa mi riconcilia un pochino con te, ti crederei diventato cattivo.

– Amo, sì! – disse il giovane, – e appunto perciò ti ho pregato di venire a Roma.

– Alla buon'ora! E in che modo potrei servirti io?

– Presentandomi in casa Manfredi.

– Oh! – disse lo zio, inarcando le ciglia. – E dovevo venir io a bella posta dall'India?

– Come per citarmi Isocrate, sicuro. Ecco qua, zio, lo stato delle cose. Il senatore Manfredi è molto sostenuto con me. Con tutte le mie relazioni, con tutti i miei denari, non mi riesce di penetrare in quella casa. Ci troviamo spesso insieme, ora in una conversazione, ora in una festa da ballo; ma niente mi serve; il banchiere senatore è sempre di ghiaccio con me, ed io non ho potuto ancora rompere quel ghiaccio. —

Cesare Gonzaga era stato a sentire attentamente il discorso di suo nipote. Appena questi ebbe finita la sua esposizione, il vecchio rimase un pochino sovra pensiero, masticando qualche frase, che stentava ad uscirgli di bocca.

– Parliamoci schietto; – diss'egli finalmente. – Saresti in qualche cosa venuto meno a certi principii?.. Andrea, se è sempre l'uomo che io ho conosciuto, su certe materie non ischerza.

– Zio, – rispose Arrigo con accento sicuro, – non ho mai fatto cosa di cui debba arrossire. Ho imparato da ragazzo a meditare sulle mie azioni, e se sono venuto al punto di non far mai se non quello che metteva conto a me, credi pure che ci sono riuscito senza offendere il diritto degli altri. Il Manfredi non mi ha in grazia. Perchè? Lo saprà lui; fors'anche non lo saprà. Ci sono qualche volta delle antipatie irragionevoli. A buon conto, egli non sa che io sia tuo nipote, nè io ho creduto prudente di dirglielo, amando meglio di aspettare, per ferire un gran colpo. Una sera, in casa Savelli, me presente, ricordando nomi ed uomini del passato, egli venne a parlare di te, e il suo gelo si squagliò come per incanto; ti citò come un esempio di alto carattere, come un modello di amico; insomma, ne disse tante, che lasciò tutti maravigliati, non solamente dei tuoi meriti, ma anche della sua eloquenza. In verità, non ne aveva mai sfoderata tanta in Senato.

– E allora, – osservò il Gonzaga, ridendo – ti è venuto in mente di chiamare a Roma quel fior di virtù? Guasti pur troppo la bella immagine che io m'ero formata dell'amor tuo. Bene! bene! La gioventù è sempre un pochino egoista. Già, per dirtela schietta, mio caro nipote, in parecchie cose ti vorrei vedere, per la tua età, meno uomo. È una mia idea, ed avremo tempo a discorrerne. Dimmi, invece, come e perchè ho da servirti io, presso il banchiere Manfredi? Di credito non ne hai bisogno, a quanto so. Vorresti forse entrare in qualche operazione bancaria con lui?

– Ha una figlia; – rispose Arrigo.

– Ah! Il fiore appena sbocciato; – disse lo zio Cesare, sospirando da capo. – E l'ami?

– La voglio.

– È un po' diverso, ma potrebb'essere, in certi casi, lo stesso. Ma, scusami, e quell'altra? Povera donna…

– Oh, Dio mio! Ce ne son tante, di queste povere donne!

– E perchè ce ne son tante, tu vorresti aggiungerne un'altra?

– Infine, – disse Arrigo, vedendo che lo zio si rabbruscava, – non credere che ella mi ami. Mi ha detto, anzi, che tutto ha da finire tra noi.

– Giuramelo! che cos'hai di più sacro?

– Per la memoria di mia madre; – rispose Arrigo.

Il vecchio si rasserenò, udendo l'invocazione, che non poteva essere bugiarda.

– Quand'è così; – riprese, – tanto meglio! In fondo, non mi mettevo io a predicare la costanza… nella illegalità? Bei consigli da vecchio! Or dunque, mio bell'Arrigo, sebbene mi dispiaccia un pochino di rifar la vita dei salotti e delle conversazioni, spendimi pure; sarò il tuo uomo. E dimmi, ci sono già vincoli, in aria?

– No, – disse Arrigo, che aveva capito a volo, – ma potrebbero venire. C'è un conte che mi dà noia.

– Sei amato?

– Credo.

– Ma bravo! E navighi così, tra questa e quella, tra la riva e gli scogli?

– Credi, buon zio, che sono assai più vicino alla riva.

– Ehm! – rispose il Gonzaga. – Se debbo giudicarne da poco fa, tu rasenti ancora troppo gli scogli. —

Arrigo diede in uno scoppio di risa. Passato il pericolo, anche un marinaio può ridere così.

– Caro zio! – esclamò egli, abbracciando il vecchio cortese. – Sei giovane, tu, pieno di fuoco. Ci scommetto che a te piacerebbe più lo scoglio, anche a rischio di dare in secco.

– In secco, no! – rispose lo zio Cesare. – Ma via, non mi far parlare… come il tuo conte di Castelbianco. —

Ridevano le due età, così lontane l'una dall'altra, che la voce del sangue aveva ravvicinate. Arrigo Valenti intravvedeva la vittoria e già gli pareva di metterle la mano nei capegli. Cesare Gonzaga era in fondo un po' triste, perchè aveva trovato il suo nipote troppo savio, troppo calcolatore, forse per eredità di esempi paterni; ma infine, ci aveva trovato anche qualche sentimento gentile, soave eredità di sua madre, che gli affari di banca e le vanità sociali non avevano intieramente soffocato. Del resto, egli era venuto, e con la sua autorità di zio sperava di richiamarlo sul retto sentiero. Arrigo, a buon conto, era ancor giovane, e amava la figliuola di Andrea Manfredi, del suo amico, del suo compagno di studi, del suo fratello d'armi, del suo…

Ma un'altra scampanellata all'uscio di casa interruppe la conversazione dei due personaggi, ed è giusto che interrompa anche il periodo al narratore.

Ritornava il signor Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, cavaliere compitissimo e disgraziato per giunta. In un'ora aveva dato sesto alle cose sue, e giungeva trafelato, quantunque fosse andato e tornato in carrozza.

– Sono allegri! – diss'egli, entrando nello studio e trovando zio e nipote ancora in atto di ridere.

– Ma sì; – rispose Arrigo. – E tu, Orazio, hai una cera da funerale. —

Orazio Ceprani tentennò malinconicamente la testa.

– Eh, credi, caro mio, – rispose egli, – che ottantamila lire non sono come un mucchio di soldi nella scodella di un cieco. Che liquidazione si prepara! Anche tu, scusami, non hai mica da stare allegro!

– Perchè? – chiese Arrigo, chiudendo gli occhi a mezzo e allungando le labbra, con quell'aria di cortese ironia che abbiamo già veduto, al suo primo apparire nello studio.

– Perchè il Verni è fuggito, a quanto dicono, e credo ti levi di tasca un ventimila lire.

– Una bella somma! – notò Cesare Gonzaga. – Una povera famiglia ci camperebbe dieci anni.

– Pazienza! – rispose Arrigo, sorridendo ancora, sorridendo sempre. – Il Verni, per tua norma, io lo avevo già calcolato tra i dubbi. Caro mio, non ci ha da esser niente di impreveduto nella vita di un uomo. Si studiano dapprima tutte le probabilità, favorevoli e contrarie, e poi si giuoca la posta. Così, vedi, Orazio, questa perdita io l'avevo preveduta. Ho venduto a lui, sapendo in anticipazione di perdere, per non aver l'aria di un taccagno. Il Verni frequentava la migliore società. Ora, ecco un uomo in mare. Me ne duole per lui; quanto alla perdita… —

In quel momento Happy era comparso sull'uscio per dire:

– Il signor cavaliere è servito.

– Sta bene, – ripigliò Arrigo Valenti. – Quanto alla perdita, essa non c'impedirà di fare una buona colazione, se il cuoco non è fuggito, o non ha perduta la testa. Zio, per farti strada! —

E passò avanti, il felice Arrigo, e gli altri due lo seguirono nella sala da pranzo.

IV

La contessa Giovanna Morati di Castelbianco, presso la quale andremo ad aspettare i nostri personaggi, con la certezza di conoscerne altri parecchi, fior di cavalieri e di dame, la contessa Giovanna, dico, era una bella donna sui trentadue. È una brutta cosa, lo so, contar gli anni alle donne; ma i narratori hanno dall'ufficio loro il triste obbligo di essere più noiosi dei presidenti di tribunale; i quali, almeno, procedendo all'interrogatorio di una bella testimone, possono incominciare, quando sono galanti, press'a poco così:

– Signora, quanti anni ha? Ventidue, non è vero? —

Dunque, la contessa Giovanna ne aveva già trentadue; età, dopo tutto, in cui la bellezza è giunta al suo pieno rigoglio, e può ancora aspettare una lieta maturità. Una bell'alba, sicuramente, ha i suoi pregi, e piacerebbe anche al re Saulle, che fu, come sapete, l'uomo più scontroso e bisbetico della storia. Ma un sole al meriggio, Dei immortali! Un sole al meriggio scotta. E la bellezza della contessa Giovanna era proprio così, per testimonianza di molti, che s'erano argomentati di godere accanto a lei d'un calor temperato; scottava senz'altro. Molto grave, tuttavia, sotto le mostre di una conversazione arguta e di una affabilità costante; più grave allora, quasi melanconica, e in certi momenti anche triste. Pareva che la sorte, concedendole la ricchezza e lo sfarzo di una condizione invidiata, le fosse stata avara di ciò ch'ella avrebbe desiderato assai più, come a dire una felicità più modesta e più ignota. E taceva, nondimeno, il suo intimo tormento; e si padroneggiava, obbligata com'era a ricevere, a sorridere, a dir parole garbate; ma in quell'ufficio di cortesia si indovinava lo sforzo, e quella sera più che mai.

Povera donna, mal maritata! Sentite i discorsi che le faceva, dopo tavola, il suo signore e padrone. Avevano pranzato un poco prima del solito, perchè ella avesse tempo a disporre ogni cosa per il suo tè. Era un tè semplice e semplicemente annunziato; ma diventava sempre, aiutando il numero dei convitati e le voglie della gioventù, un tè danzante. Si dice danzante, o danzato? Nè l'uno, nè l'altro, probabilmente; era invece un tè, che quando c'eravate tutti voi, insieme con tutti noi e con tutti loro, si tirava discretamente nell'ombra, e lasciava che da una parte si ballasse, dall'altra si giuocasse, e più in là si trovasse anche una succulenta imbandigione, la quale non so perchè non si chiamasse cena a dirittura. I tè, chiamati anche martedì, della contessa Giovanna, duravano dai primi di gennaio fino agli ultimi di febbraio, e godevano di una riputazione straordinaria; ma non ci si era ammessi molto facilmente, e il numero dei cavalieri non oltrepassava d'ordinario i cinquanta, tra vecchi amici di casa ed altri, che, avendo conosciuto i Castelbianco in qualche società e portato al palazzo della contessa due biglietti di visita, erano stati ricambiati da un biglietto di visita del conte. Le amiche e nemiche intime di Giovanna, quasi sarebbe inutile il dirlo, accorrevano tutte, e, sebbene non ci fosse la pretesa di un ballo, ci andavano in grand décolleté. Dico la cosa in francese, perchè non c'è in italiano, e se c'è, non mi piace trovarla.

I Castelbianco si erano alzati da tavola, e la contessa si muoveva per andare nelle sue camere ad abbigliarsi, mentre il conte aveva accennato all'idea di dare una corsa fuori di casa.

– È sperabile, – notò la signora, – che non farete stasera come l'altro martedì, e non andrete al vostro eterno circolo.

– Non andrò; – disse il conte, sospirando.

– Capisco, per voi è un sacrifizio rinunziarci; – replicò la signora.

– Che dite, mia dolce amica? Mi ci diverto, in casa, mi ci diverto un mondo. Ma quando mi ci sarò ben divertito, – continuò il conte, mutando il sospiro in un mezzo sbadiglio, – non saprò più che fare, nella mia beatitudine. Ah, Giovanna, perchè non siete voi… la moglie di un altro? Vi farei una corte spietata, e non senza qualche speranza.

– Vi ringrazio del buon concetto che avete di me.

– Si scherza. Ma, dopo tutto, essendo io l'aspirante… Vedete che il rischio non è tale da spaventarmi. Siete bella, Giovanna, avete una testa da imperatrice, e, per andare fino in fondo, il primo piedino dell'universo. Ma non siete più sola, badate!

– Che cos'è quest'altra stravaganza? – domandò la contessa, seccata da quei discorsi sciocchi, ma non potendo tuttavia trattenersi dal ridere.

– Eh, vorrei che lo aveste veduto, come l'ho veduto io questa mattina, in via Sallustiana. Un piedino, che pareva il vostro! Non andate in collera, mia dolce amica. Ammirandolo come ho fatto, non son venuto meno a nessuno dei miei doveri. Mi pareva tanto la stessa cosa, che a tutta prima ho pensato a voi, e mi son chiesto quale delle vostre amiche abitasse lassù.

– Bella! – esclamò la contessa. – Son forse andata a far visite?

– Capisco, ma che volete? Lì per lì, mi era parso che poteste esser voi. Per fortuna, se non ho veduto il viso, ho veduto una veste color marrone; e voi il marrone lo odiate.

– Esagerazione! Non mi piace tanto, ecco tutto; – rispose la contessa, scuotendo la sua bella testa da imperatrice. – E che cosa andavate voi a fare lassù?

– Volete saperlo? Andavo a trovare il mio amico Valenti; quel poveraccio che voi non potete soffrire.

– Altra esagerazione! – ribattè la signora. – Mi è indifferente, e voi, a furia di dire queste cose, finirete col fargli credere che qui si parla molto di lui.

– Giustissima, l'osservazione! – disse il conte. – A proposito, stasera vi presento suo zio, tornato dall'India, il signor Cesare Gonzaga, un bell'uomo, ancor giovane, coi suoi capegli grigi, che ha la debolezza di non voler essere chiamato marchese, essendolo: come un altro, non essendolo, avrebbe quella di farsi dare quel titolo. È un carissimo uomo, del resto, e metterà un po' di brio in questi vostri ricevimenti, che mi paiono, scusate, un tantino monotoni.

– Ci vengono tutti i vostri amici, e le mie amiche migliori; – osservò la contessa.

– Ah, sì, parliamone, delle vostre migliori amiche. La Savelli, che non è male, ma sta dura, intirizzita, come un idolo indiano. La Carini, che è carina, ma non ha preferenze che per i capegli bianchi; che posa! La Robusti, che non ha spalle, e vuol farlo sapere. La Gleisenthal, che è stravecchia e oramai dovrebbe smettere.

– Smetter che? Di venire a vedere un'amica? – ripigliò la contessa. – Del resto, le volete giovani e belle? C'è la Manfredi.

– Sicuro, una fanciulla. Ma che strana tenerezza vi ha presa, che volete dappertutto quel fiorellino appena sbocciato? A teatro con voi; in carrozza con voi; a casa, non se ne parla neanche. E al solito capiterà per la prima. Badate, Giovanna; una marchesa che amai, quando ero giovane, cioè, quando ero più giovane, mi diceva…

– Qualche storiaccia delle solite!

– Bene, vi farò grazia della storia, vi riferirò soltanto la morale: “Noi donne abbiamo il torto di non esser gelose delle ragazze; e queste, frattanto, si prendono la nostra bellezza, si vestono della nostra grazia, e ci rubano il posto.„

– A me, – disse Giovanna, – non ha da rubar nulla.

– E non parlo per voi, moralizzo in genere; – rispose il conte. – Ma io, ora, vi faccio perdere un tempo prezioso, e dimentico di avere anch'io qualche cosa da fare. A rivederci tra un'ora, mia dolce amica, e non vi adirate con la mia esperienza. Quando saremo vecchi, ci servirà. —

Vispo come un ramarro, saltellante come una cutrettola, il ritinto Alcibiade se ne andò a prendere una boccata d'aria, non senza l'intenzione di dare una scorsa al suo circolo. La contessa si ritirò nelle sue camere per abbigliarsi. Mai, come quella sera, Giovanna di Castelbianco aveva avuto così poca voglia di mettersi in abito di ricevimento. Piuttosto, ne aveva molta di piangere; e non poteva, pur troppo, perchè la cameriera doveva venire a vestirla, e una padrona di casa, giovane e bella, non ha da farsi vedere mai con gli occhi rossi dalla sua gente di servizio.

La contessa Giovanna era pur da compiangere. I suoi ricevimenti, le sue feste, l'avevano gradevolmente occupata da principio, mettendo un po' d'allegrezza nei primi anni di un matrimonio malaugurato. La donna è così lieta di brillare, che per un tratto dimentica perfino di non esser felice. Ma l'uso, ahimè, toglie il pregio alle cose; si acquista l'abito della società, e i balli e i lieti ritrovi non hanno più quell'attrattiva che li faceva tanto desiderare dapprima. Sebbene, diciamolo, in quella scuola ristretta e geniale del mondo, quanto meno si gode lo spettacolo superficiale, tanto più s'incomincia ad osservare molte cose non vedute, o troppo leggermente, in principio, e si paragona, e si giudica, non sempre a proprio vantaggio, in mezzo a tanti esempi di colpe fortunate, di gioie effimere, ma non meno gradite, e di ebbrezze profonde. Crediamo così volentieri alla felicità degli altri, quando non ce n'è ombra per noi! Allora una povera donna, piena di sentimento e turbata da vaghe sollecitudini che nessun rimorso è ancora venuto a condannare, incomincia, senza volerlo, a cercare per sè. La cosa non è neanche difficile, poichè è lei la cercata, è lei la desiderata, e le tentazioni, sotto la veste dell'ammirazione, dell'omaggio, della preghiera, volano a lei come uno sciame d'amorini.

Fra i molti che la circondano e le dicono tante cose, anche quando non dicono nulla, c'è il prode capitano, che ha deposte le armi, terror dei nemici, per segnare il suo nome nel taccuino dalla guardia di madreperla; c'è il brillante gentiluomo, che alterna maravigliosamente i trionfi di salotto coi meets, il turf e lo sport; c'è l'uomo illustre ed ammirato, che sa interrompere una pagina destinata ai posteri, per iscrivere un madrigale sull'angolo d'un ventaglio; c'è il cavaliere pensoso, e sopra tutti pericoloso, che, mostrando di non saper nulla di nulla, accenna di esser disposto a commettere ogni pazzia; c'è, infine, il buono e compiacente giovanotto, che ambisce gli uffici del servitore, non aspettando altra ricompensa che il titolo d'amico, e lascia intorno a sè un profumo di modestia, che può farlo ricercare, in un momento di poetica tenerezza, come si ricerca all'odore la violetta de' campi. E che gioia, quando si crede di aver trovato! Che turbamento ai primi incontri, che battiti di cuore, che angosce, che contrasti dolorosi e cari! Ma la passione prorompe; non si resiste alla piena, e giova dar colpa di ogni cosa al destino; poi, quando si è travolti, avviene come in fondo a certe cascate della favola, che sotto allo scroscio vorticoso delle acque irrompenti nascondono un laghetto tranquillo, angolo riposto e felice, illuminato di miti trasparenze, non offeso dai raggi del sole, in cui si dimentica volentieri e si confida di essere dimenticati dal mondo. Vita, son queste le tue oasi verdeggianti. Ognuno reca ai primi incontri le sue doti migliori, la bontà serena, la grazia ingenua, la delicatezza squisita, la generosità commovente, infine, che vi dirò? l'anima vestita a festa. Ma non è festa ogni giorno: e giungono pur troppo, seguaci non prevedute ma certe, le ore della stanchezza, in cui la finzione si tradisce e l'inganno si scopre. Maschere geniali, addio; la commedia è finita. E v'hanno cuori che non si spezzano, alla triste scoperta, che non disperano, che cercano ancora, errando di delusione in delusione; tanta è la sete del vero! Ma, allora miei poveri cuori! A correrne parecchie, di queste prove dolorose, come giungerete laceri, irriconoscibili, o miei poveri cuori, alla meta!

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