bannerbanner
Arrigo il savio
Arrigo il savio

Полная версия

Arrigo il savio

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
Добавлена:
Настройки чтения
Размер шрифта
Высота строк
Поля
На страницу:
2 из 3

Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.

– Veramente, – diss'egli, – non dovrei essere io il primo, quest'oggi. Eccoti lo zio tanto aspettato. —

Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col sorriso sulle labbra.

– Zio, come ti son grato! – esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.

Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in uno scoppio di pianto.

– Come son sciocco, non è vero? – diss'egli, con voce rotta dai singhiozzi. – Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio, tu somigli a tua madre… come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non ha avuto tua madre. —

E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica dimostrazione di affetto.

Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di avviare il discorso.

– Zio, – diss'egli, – che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho ardito pregarti…

– Che! che! – interruppe il Gonzaga. – Era naturale. C'era forse bisogno di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.

– Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; – osservò modestamente Orazio Ceprani.

Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.

– Permetti, – incominciò, – che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un compitissimo cavaliere.

– Ah, ci conosciamo da mezz'ora; – rispose il Gonzaga. – Ed io l'ho già per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo aspettandoti.

– Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari… Non ti aspettavo, con la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto…

– Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; – rispose il Gonzaga. – Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già, con quel freddo!

– Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi era impossibile di muovermi.

– Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.

– Come si fa? – disse Arrigo, sospirando. – Tu eri anche il più libero dei due. Per ciò sei venuto… e perciò rimarrai.

– Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi. Avrai forse da parlare col signor Ceprani. —

Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:

– Sì, ero venuto da te. Arrigo… Ma ora che c'è tuo zio…

– Non badi a me; – interruppe il vecchio. – Io mi ritiro in buon ordine. —

Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un terzo non doveva guastare; che anzi!

– No, finalmente, perchè? – diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto. – Con lei si può parlare. Arrigo, – proseguì, rivolgendosi all'amico, – ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento Ausonie…

– E ci perdi ottomila lire; – notò Arrigo Valenti. – Te lo avevo pur detto!

– Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da un momento all'altro… Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e più giusto di me. Io m'inchino, e ti chieggo cinquemila lire in prestito, per completare le mie differenze di questo mese.

– Ah! mi duole davvero! – esclamò Arrigo, levando i suoi begli occhi al cielo. – Mi duole nel profondo dell'anima. Oggi è un cattivo giorno, per gli affari. Non ne ho. —

Orazio Ceprani aveva chinato la testa, con un gesto tra incredulo e rassegnato. Perchè, infine, non poteva credere che ad Arrigo Valenti mancassero cinquemila lire da render servizio a un amico in un cattivo quarto d'ora, e non poteva neanche, per le buone creanze, aver l'aria di non crederlo.

Per altro, se Orazio Ceprani aveva chinata la testa, l'aveva in sua vece rizzata il signor Cesare Gonzaga.

– Ma le ho io! – diss'egli, entrando terzo nella conversazione, e facendo dare un balzo di maraviglia ai due giovani. – Non si sa mai, ho detto tra me e me, nel partire da Reggio. Anzi, vedi, Arrigo mio, è stata questa la ragione vera per cui ho ritardato un giorno a venire. Tu mi perdonerai, Arrigo; – soggiunse, mentre metteva mano al suo portafoglio, gonfio di biglietti di Banca e sprovveduto di biglietti di visita; – credevo di aver a fare con un nipote… d'altra specie, e perciò ero venuto con molta munizione. Ho ventimila lire qua dentro, e il resto in una tratta sul banco Manfredi. Eccole dunque, signor Ceprani carissimo; questi son cinque da mille. —

Orazio Ceprani era rimasto interdetto; non sapeva se dovesse prender subito, o rifiutare, almeno per cerimonia: intanto abbozzava un “ma io, veramente…„ di un effetto assai comico.

– Non faccia complimenti, la prego; – ripigliò il Gonzaga. – Ella è amico di mio nipote, e gli amici di mio nipote sono i miei. Alle corte, non mi vuole per creditore?

– Oh, che dice ella mai? – mormorò il Ceprani, commosso. – La ringrazio, ed accetto, perchè il bisogno era urgente, e sono ottantamila lire che mi costerà questa liquidazione di gennaio. Grazie anche a te, Arrigo, – soggiunse, mentre intascava i cinque biglietti, – perchè in casa tua ho ricevuto il benefizio. Vado dunque a raccogliere tutte le mie forze, i miei ottantamila franchi, ed ahimè non per condurli alla riscossa. Si pranza insieme, quest'oggi?

– Perchè no? – disse Arrigo. – Si potrebbe anzi incominciare dalla colazione, se hai tempo.

– Lo troverò. Per che ora?

– Ma, non saprei; bisognerà sentire mio zio.

– Oh, non badare a me; – disse il Gonzaga. – Io son vecchio, e i giovani sentono forse più presto le voci dello stomaco.

– A mezzodì, allora? O alle undici?

– Sia pure per le undici.

– Tra un'ora, dunque; – conchiuse il Ceprani, guardando l'orologio. – Mi diano il tempo di correre alla Borsa, e sono subito di ritorno. Vuoi nulla, tu?

– No, – disse Arrigo, – ci ho il mio agente. A rivederci. E bada, non più Ausonia, per ora! —

Orazio Ceprani rispose con gesto, che voleva dire: “ho capito„ e poi si dileguò, come da corda cocca.

Arrigo fu molto soddisfatto di vederlo partire.

– Finalmente! – mormorò. – Il passo sarà libero, ora. Se permetti, zio, vado a dare libertà a qualcheduno. Con questi amici, che ronzano sempre ne' miei paraggi, bisogna sempre stare in vedetta.

– Fammi almeno sapere dove debbo ritirarmi, per lasciar passare i tuoi misteri, – disse ridendo lo zio.

– Oh, non importa, c'è un'altra scala. Il guaio è che mette in una via troppo vicina all'ingresso principale. Uno che esca di qua e svolti nella strada di fianco… capirai!

– Capisco, può indovinare i tuoi segreti di Stato, o di Banca. Anzi, diciamo addirittura di Banca, per restare nel genere femminile. —

Arrigo fece un gesto di ragazzo contrito, e andò nella camera attigua. Due minuti dopo era di ritorno.

– Del resto, – disse il Gonzaga, tanto per riattaccare il discorso, – un bravo giovanotto, quel Ceprani?

– Ah, sì, lascia che ti sgridi, caro zio! – rispose Arrigo, mettendosi sul grave. – Che prodigalità son queste? Hai le mani bucate, a quanto pare. Sei appena arrivato in Roma, e già ti adatti all'ufficio di vittima. Caleranno i corvi, non dubitare, caleranno a centinaia, per levarti i pezzi. Qui, dopo l'acqua, delle fontane, non c'è altra abbondanza che di corvi.

– Non mi credere troppo stolido, via! – replicò il Gonzaga. – Una volta non conta per uso. Ma non è tuo amico, questo Ceprani?

– Amico, sì, non lo nego. Ma gli amici non hanno da esser mica vampiri, per succhiarci il nostro sangue. Caro zio, ci ho una massima, io: il cielo per tutti, e ognuno per sè. A buon conto, io non ho mai chiesto nulla a nessuno. —

E il viso di Arrigo aveva preso una espressione di durezza, che diede nell'occhio, ma più ancora sui nervi, al vecchio Gonzaga. Non era più quello, perbacco, il viso di sua sorella Cecilia.

– Ne sei ben sicuro? – diss'egli, dopo un istante di pausa. – Ed anche senza ricorrere alla borsa altrui, non ci sono servigi che ci è mestieri qualche volta di fare, o di chiedere? Le amicizie, così belle nel loro disinteresse, in certi momenti, e senza secondi fini, non sono esse un capitale che si sfrutta?

– È un'altra cosa; – rispose Arrigo. – Il Ceprani è mio amico. Spenda la mia amicizia, la faccia valere, ma non tocchi la mia borsa.

– Sei troppo rigoroso; – notò il vecchio. – Ma che uomo è costui?

– Un buon diavolo, ed anche onesto, per quel che fa la piazza; ma di affari s'intende com'io di greco, che n'ho avuta una tintura al Liceo. Aggiungi che ha una mano così disgraziata, da guastare tutto quello che tocca. Ha sempre qualche preziosa notizia, per certe sue attinenze con uomini di governo, ed io ne cavo profitto… facendo tutto il contrario di ciò ch'egli fa.

– Vedi dunque che tu lo spendi; in qualche modo fai capitale di lui.

– Eh, se tu la intendi così, caro zio, tutti avranno diritto ad una parte della mia sostanza, mentre io so di non doverla che a me.

– Ah, sì, parliamone un poco, – disse il vecchio, cui capitava la palla al balzo. – Ti sei dunque fatto uomo di banca?

– Come vedi, lavoro, senza affaticarmi troppo.

– E la giurisprudenza?

– Da banda. Ho compiuti i miei studi; serviranno a tempo opportuno, quando sarà il caso di pensare agli onori. Anche con l'avvocatura si arriva; ma il mondo mormora. Si ha invidia degli avvocati, caro zio, e non c'è politicante da caffè che non tiri la sua sassata ai ciarloni. Per altra via, e più sicura, io fo conto di arrivare.

– Arrivare! E dove?

– Zio! – sclamò Arrigo, guardando il vecchio con aria di stupore. – Sei tu che me lo domandi? Tu, che sei arrivato… dall'India?

– Sì, dall'India a Brindisi, e via discorrendo, – rispose il Gonzaga. – Ma tu, dove diamine vuoi arrivare?

– Alla fortuna, alla potenza, alla felicità.

– Egregiamente, e lo studio ti ci avrebbe condotto, per una via più lunga, lo concedo, ma più sicura, e con miglior compagnia. Perdonami la franchezza.

– È la tua opinione; – rispose Arrigo, inchinandosi, – ma non è egualmente il tuo esempio. Sicuro: che cosa hai fatto tu, mio ottimo zio? È forse lo studio delle leggi, son forse i libri, che ti hanno dato ricchezze e buon nome per giunta?

– Non parliamo di me; io le ho fatte grosse.

– Parliamone, anzi. Ti sei accorto un giorno di avere sprecata la tua giovinezza e le tue sostanze in parecchie follìe…

– Tra le quali un paio di guerre per l'indipendenza del mio paese; ti prego di metterle in conto; – interruppe il Gonzaga.

– Ci venivo dopo, – replicò Arrigo prontamente, – e volevo anche aggiungere una pena di cuore…

– Lascia stare, non frugar nelle ceneri! – gridò il vecchio, turbato.

– Perdonami, zio; me ne aveva fatto cenno mia madre. Infine, ecco qua: io, ammaestrato dagli esempi della tua prima giovinezza e non avendo più nobili follìe da commettere, poichè ho avuta la… disgrazia di nascere troppo tardi, incomincio da dove tu hai cangiato sentiero. So bene quel che vuoi dirmi; le gaie spensieratezze, il vivere conforme alla propria età, l'aspettare la fortuna, facendo versi cattivi e abbaiando alla luna! Il secolo invecchia, caro zio, e non vuol più saperne, di questi perditempi. “Essere o non essere, ecco il punto.„ Vedi? Se tu non ami la prosa, questa è poesia, e di un sommo. Il mondo è di chi se lo piglia; e perchè lo lascerei afferrare da tanti, mentre anch'io sento di avere una mano, che può far servizio come quella degli altri? Ogni cosa a suo tempo, lo capisco; ma chi ha tempo non aspetti tempo. Fare e far subito: e poichè il denaro è il nerbo della guerra, pensiamo al denaro. C'erano degli uomini, sai, i quali si credevano ogni cosa al mondo, solo perchè avevano il denaro, e, mentre gli altri guardavano fidenti all'orizzonte lontano, essi vogavano sodo, alla galeotta, tirando bravamente a sè. Anch'io ho imparato il loro giuoco, e c'est pas plus malin que ça. Non sono io un savio ragazzo? Credevi di dover venire a frenarmi, fors'anche a trattenermi sull'orlo del precipizio, ed ecco, tu trovi invece che io vado di buon passo per la strada maestra. Non avrai che a lodarmi, zio, e mi favorirai più volentieri in ciò che io sono per chiederti. Perchè, vedi, di te ho bisogno davvero; non mi vergogno di ricorrere a te, e sarò lieto di chiamarmi tuo debitore. —

Il discorso era stato brutto, o almeno poco simpatico; ma la chiusa era molto migliore.

– C'è ancora qualche cosa, lì dentro; – pensò lo zio Cesare, che già aveva incominciato a scandalizzarsi, fiutando l'egoista.

E rifacendosi la bocca in quella chiusa più garbata, rispose:

– Sì, per l'appunto, che cosa volevi da me? Se non ti occorrono consigli di saviezza e non hai bisogno ch'io paghi i tuoi debiti, in che altro può esserti utile uno zio? fammi il piacere di dirmelo.

– Ecco, in poche parole ti spiego ogni cosa; – replicò il giovinotto.

Ma proprio in quel punto, un'altra scampanellata all'uscio di casa ruppe il filo del discorso di Arrigo.

– Diamine! – esclamò lo zio Cesare. – Ecco un altro importuno.

La maliziosa figura di Happy comparve poco stante sul limitare.

– Il signor conte Morati di Castelbianco; – disse il servitore, tirandosi da un lato.

Arrigo si era prontamente alzato.

– Perdonami, zio; – diss'egli inquieto; – proseguiremo il nostro discorso più tardi.

– O lo incominceremo; – commentò lo zio; – perchè finora non mi avevi detto nulla. —

III

Il nuovo venuto era un signore smilzo, dalla faccia scarna e dalla pelle risecchita, che pareva di cartapecora; ma aveva i capelli e i baffi neri morati, veramente degni del suo cognome. Gli occhi erano grigi, e non dovevano vederci molto, perchè il conte, abbassando la testa con un atto che pareva di consuetudine, e che lo aiutava a nascondere nella cravatta le grinze del collo, si piantava, entrando nello studio di Arrigo Valenti, una lente cerchiata d'oro nella cavità dell'occhiaia destra. Era vestito all'ultima moda, d'un soprabito nero con le rivolte di seta, la cravatta di colore, permessa soltanto di mattina ai moderni cavalieri, i calzoni grigi, di stoffa e disegno autenticamente inglesi, e finalmente un pastrano corto di panno chiaro, tra il verde oliva e il lionato.

Arrigo gli era andato incontro con molta premura.

– Conte, – diss'egli, – che fortuna è questa per me!

– Caro Valenti, – rispose quell'altro, con una vocina di chioccia infreddata e smozzicando l'erre, – dite il piacere di venire a vedervi. Ci trascurate un pochino, sapete? Speravo di vedervi a cavallo, quest'oggi, ma voi vi siete rintanato in casa, mio bel tenebroso! Perciò sono venuto a scovarvi, e devo a questa amichevole risoluzione la vista di un piedino meraviglioso. Finora, in parola d'onore, di piedini così belli non ne avevo veduto che in casa mia.

– Che dite mai, conte? – esclamò Arrigo, sconcertato dal paragone.

– Sì, proprio; – continuò il Ganimede; – se non avessi veduto che il piedino, avrei giurato che fosse quello di mia moglie. Ma la dama che ho veduta qui presso, in via Sallustiana, era vestita di color marrone. Ora la contessa odia i marroni; non può soffrire neanche il colore. —

Cesare Gonzaga osservò che suo nipote era sulle spine. Via Sallustiana, la scala di là, il colloquio d'affari, gli si affacciarono alla mente collegati per un filo arcano alla dama del piedino maraviglioso.

– Conte, – diceva frattanto Arrigo, per rompere quel discorso così poco piacevole, – permettete che vi presenti mio zio, giunto a Roma stamane.

– Ah, l'aspettato, il desiderato marchese Gonzaga? Fortunatissimo di conoscerla! – disse il conte Morati.

– Sì conte; – rispose il vecchio inchinandosi. – Cesare Gonzaga, per obbedirla, ma senza il titolo che la sua bontà mi attribuisce.

– Zio, ci hai diritto; – entrò a dire Arrigo, che non poteva mandar giù quella rinunzia alla corona marchionale. – Sei l'ultimo dei Gonzaga di Luzzara, e questi sono sempre stati marchesi. In casa tua c'era anche l'albero genealogico.

– Ah, l'albero! – rispose il vecchio ridendo. – Sì, c'era, in casa; ma il giorno che non diede più frutto, mano alla scure, e ziffe! Ho bruciato l'albero, signor conte, e mi son rifatto modestamente dal ceppo.

– Ella è molto ricco, da quanto mi ha detto Arrigo; – notò il conte Morati. – È un'altra bella cosa. Io, per dirle la verità, vado allegramente in rovina. —

E sedette, il vecchio Ganimede, facendosi una spagnoletta.

– Diamine! – pensò Cesare Gonzaga. – Debbo io tirar fuori il portafogli, o tenerlo ben chiuso in tasca?

– Ma intendiamoci, – proseguiva il conte, scherzando con le parole come le sua dita scherzavano con la carta velina, – adagino, senza fretta. Non ho figli, nè conto di averne per ora. E mi verrà forse il desiderio, più tardi? Io già non li amo, i ragazzi. Quando sarò più avanti con gli anni, chi lo sa? Basta, mio caro Valenti, – soggiunse il conte, accostando la spagnoletta alla fiamma della candela, che Arrigo gli aveva premurosamente accesa, – ho veduto, venendo da voi, il più bel piede d'Italia. E poco dopo, davanti al vostro portone, i due più bei cavalli d'Inghilterra. Vengono, nientedimeno, dalle scuderie del duca di Blackborne. Li possiede il Meissner, che se ne va da Roma e vuol venderli. Che stupendi animali! Il piedino mi è sfuggito, perchè entrava allora in un brumme, che andò via di galoppo; ma i cavalli, perbacco, non dovrebbero sfuggirmi. Appena uscito da voi, passo dal mio ministro delle finanze, e se ha danari in cassa, mi slancio a conquistar la pariglia.

– Conte, – disse Arrigo, che aveva frattanto ricuperata la sua calma, – se il vostro ministro delle finanze tenesse fermo sulle economie, ricordate che la mia cassa è ai vostri comandi.

– Grazie, Valenti, grazie infinite.

– Accettate, dunque?

– Accetterei, dato il caso; ma il caso non si darà. Il mio ministro è un brav'uomo; mi rizza un po' il muso, quando mi vede dare certi strappi; ma poi si rimette, e quando non ne ha più, è segno che ne ha ancora. È un ministro prezioso, in fede mia! Venite a pranzo da noi, quest'oggi? La cosa spiacerà un pochino a mia moglie, che non vi ha tra le sue simpatie; ma non importa, rideremo. —

Cesare Gonzaga stava ascoltando a bocca aperta quello strano personaggio, che sfringuellava con tanta leggerezza i fatti suoi. Ma quando il signor conte venne a parlare delle antipatie della moglie, non seppe più trattenere una piccola osservazione.

– Arrigo, ti fai dunque odiare a questo modo?

– Non badi; – rispose il conte. – Si tratta di capricci, di ubbìe femminili. La contessa stima molto il mio amico Valenti, ma le pare troppo serio, troppo asciutto, e che so io. Del resto, mio caro Arrigo, penso anch'io che Giovanna abbia un po' di ragione. Siete troppo grave, troppo asciutto, troppo savio, per la vostra età. Si direbbe che non siate mai stato giovane.

– Proverò a diventarlo poi; – rispose Arrigo, sorridendo pacatamente, come un dio dell'Olimpo.

– Ah, meno male! Venite dunque?

– Conte, quest'oggi è impossibile. Mio zio è arrivato stamane.

– È vero, non ci avevo pensato; bisogna star con lo zio. Ma più tardi, almeno, per il tè? Presentiamo lo zio alla contessa, e son certo che le piacerà più del nipote. Accetta, signor Gonzaga?

– La bandiera ha dunque da coprire la merce? – disse lo zio Cesare. – Bandiera vecchia, ahimè! —

Il conte fece una spallucciata, a quelle parole del Gonzaga.

– Vecchia? Eh via! – esclamò. – C'è egli dei vecchi tra noi, se escludiamo suo nipote? Badi, dunque, annunzio la sua visita. Ella troverà molta gente, quel che ci vuole per esser più liberi. Avremo parecchie tra le celebrità femminili di Roma, che, in punto di donne, ha sempre l'impero del mondo; per esempio la Savelli, bellezza stagionata, se vogliamo, ma solida; la Carini, che è sempre tanto carina; la Manfredi, che è un fiore appena sbocciato… —

Arrigo a quel punto interruppe la rassegna, che poteva diventar lunga come quella delle navi, in Omero.

– Verranno i Manfredi? – diss'egli. – Senti, zio? Ecco una buona occasione per te. —

Lo zio Cesare, che quel lieve accenno ad un fiore appena sbocciato aveva già fatto fremere, sollevò lentamente il petto, come per chiuder la via ad un sospiro; poi crollando la testa, rispose:

– Ti pare? Non ho ancora veduto Andrea.

– Conosce il senatore Manfredi? – gridò il conte Morati di Castelbianco. – Un uomo d'oro, al proprio e al figurato!

– Se lo conosco! – rispose Cesare Gonzaga, mettendo quella volta liberamente il sospiro che aveva trattenuto da prima. – Andrea Manfredi fu il mio amico di gioventù, il mio compagno di studi, il mio fratello d'armi. Abbiamo combattuto insieme, in questa Roma divina! Che direbbe ella dei fatti miei, signor conte, se io, amico suo da tanti anni e ritornato finalmente nella città dov'ella abita, la dovessi combinare in casa d'altri, senza esser venuto direttamente, prontamente, a cercarla?

– Eh via, zio! – entrò a dir Arrigo. – Ci vai dopo colazione, e il colpo è fatto.

– Arrigo consiglia bene, come sempre; – notò il conte. – È veramente Arrigo il savio; lo ascolti. Siamo dunque intesi; a rivederla questa sera, e lietissimo della fortunata occasione. Addio, Arrigo! Vado dal ministro delle finanze, per quella pariglia che mi sta sul cuore… come quel piedino di fata.

– Sempre? – disse Arrigo, ridendo per quella volta liberamente.

– Che ci volete fare? Sono un povero peccatore che il diavolo ha sempre pigliato dai piedi. —

E se ne andò, ridendo della sua frase, che gli era parsa argutissima.

Rimasto solo con Arrigo, il vecchio Gonzaga si piantò davanti al nipote e gli ficcò addosso gli occhi scrutatori.

– Dimmi, Arrigo… il piedino di via Sallustiana…

– Non mi chieder nulla, zio; – rispose quell'altro. – Il Castelbianco mi aveva fatto da principio una gran paura. E adesso, poi, adesso che son vicino a ricogliere il fiato!.. Se tu non fossi venuto quest'oggi, direi che è un giorno nefasto.

– Ma lui… il conte…

– Corteggia le ballerine, le mime, le cavallerizze. Ha sessant'anni e tinge disperatamente. È una caricatura.

– Eh, l'ho veduto. E facendo ridere, il che è già brutto, va anche in rovina?

– Non lo credere; – rispose Arrigo. – È un suo vezzo di parlare così, un ticchio di gran signore. Ne ha spesi molti, in gioventù, ma ancora oggi può valere un paio di milioni. Ed è conte.

– Che cosa vuol dire?

– Vuol dire moltissimo, zio. Anzi, vedi, ti prego di non incocciarti nella tua democrazia, che fa a pugni col tuo casato. Qui il disprezzo dei titoli non è di moda. Chi ne ha uno lo inalbera; chi non l'ha lo inventa. I titoli nobiliari son tutto, perfino negli affari, ove non dovrebbero aver valore che quelli di banca. Non si fa un consiglio d'amministrazione di miniere, di strade ferrate, di vapori e via discorrendo, che non ci mettano una mezza dozzina di corone. Non fanno nulla; ne ho sentiti io che dicevano cose… dell'altro mondo; ma non importa, ci stanno bene, decorano. Ed anche nelle livree, senti, una corona non guasta.

– Che follìe! – esclamò il Gonzaga.

– Follìe! – Lo dici tu, che ritorni dall'India. Ma il nostro mondo occidentale è fatto così; prendiamolo com'è. —

Il vecchio Gonzaga stette alquanto sopra di sè; poi disse, con accento malinconico:

– Arrigo, Arrigo, sei tu che parli così? La nobiltà del sentire e dell'operare, quella è la vera. Anch'io amo i bei nomi… quando sono portati bene da non degeneri nipoti. Ma poi, vedi, la penso come Isocrate. Ti parrà strano che io venga dall'India per citarti Isocrate; ma non ti stupire, è un ricordo di scuola. Per Isocrate, adunque, la nobiltà risiedendo tutta nel capostipite e derivando da lui, valeva meglio che l'uomo fosse egli capostipite della propria. Chi erano gli antenati di Pipino d'Heristal? Se ne conosce uno, uomo dappoco, e solo da Pipino d'Heristal incomincia il lustro dalla casata. Aggiungi a questo Pipino la gloria di altri due nomi, Carlo Martello e Carlo Magno, perchè io ti ho voluto citare l'esempio più favorevole alla tua tesi; e che cosa vien poi? che cosa rimane della stirpe nobilissima? Un branco di sciocchi. Dunque, ragazzo mio, non ci vantiamo tanto di una nobiltà che non è discesa “per li rami„ e cerchiamo invece di fabbricarcene una, che sia ben nostra, e frutto di azioni virtuose. —

На страницу:
2 из 3