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La plebe, parte IV
– Rimettetegli addosso quella roba.
Fu caso o fu volere della Provvidenza? Mentre il marchese intendeva che quegli oggetti fossero riposti entro la piccola tasca cui egli stesso aveva rimessa al collo del bambino, Nariccia non fece altro che ficcarli in mezzo ai risvolti della fascia che lo cingeva, lasciando pendere vuoto il sacchetto al collo di lui.
– Nariccia, disse poscia il marchese con quel suo accento che era da incutere timore a chicchessiasi: voi mi avete disubbidito, e ciò non dimenticherò mai più. Quel bambino non aveva da trovarsi mai, e voi stesso dovevate smarrirne le traccie: eccovelo invece innanzi agli occhi… Ora me ne impadronisco e ne dispongo io stesso… Stolto voi se poteste credere ch'io mi lasciassi vincere da debolezza d'animo fiacco e rimpiangere e voler mutare quello che ho fatto. Il figliuolo di quel miserabile ho condannato alla sorte che gli spetta, e non ne avrà altra nel mondo… Voi, voi non mi comparirete più dinanzi, eccetto che un mio ordine espresso vi richiami.
L'antico intendente non trovò parole da rispondere: era furibondo nel suo intimo contro se stesso per esser caduto nella pania; s'inchinò profondamente innanzi al marchese che passava più fiero che mai dirigendosi all'uscio per partire.
– Prendete quell'involto: comandò il padre d'Aurora al servo, accennandogli con un moto della testa il bambino: e seguitemi.
Se ne uscirono così tuttedue. Il vecchio, come se gli fosse tornata tutta la vigoria della salute, camminava diritto della persona, colla sua mossa superba e l'aspetto pieno d'autorità; il domestico lo seguiva in silenzio. Si avviarono verso una delle strade le peggio rinomate della vecchia città; e quando furono alquanto inoltrati per essa, il marchese si fermò; il suo fidato servitore s'arrestò del pari, interrogando collo sguardo, colla parola non osava, il padrone su ciò che si dovesse fare.
Non v'era anima viva in quella fredda oscurità della notte; una brezza sottile e ghiaccia soffiava alle cantonate. Il marchese additò il mezzo dell'acciottolato della strada, dove un rigagnolo fangoso tutto congelato rendeva ronchioso il terreno.
– Deponetelo colà: comandò al servitore.
Questi, fosse pietà che lo assalisse, o non potesse credere a tanta barbarie nel suo padrone, esitò.
– Avete capito? disse il marchese con quell'accento che non permetteva indugio all'obbedire.
Il servo si chinò a terra e depose pianamente su quella fanghiglia gelata il suo fardello.
– Poverino! pensava egli: domattina lo troveranno tutto un ghiacciuolo.
Mentre stava per rialzarsi, la voce del padrone gli diede un altro comando:
– Toglietegli quel sacchetto che gli pende dal collo e riponetelo nelle vostre tasche.
Il domestico ubbidì; poi si volse al padrone per vedere se altro ancora avesse da fare; ma in quella nel marchese parve venir meno ad un tratto tutta quell'energia che fino allora lo aveva sostenuto: egli si appoggiò alla muraglia della casa presso cui si trovava, e disse con voce appena se intelligibile:
– Ah! mi sento mancare.
D'un balzo il servitore gli fu presso e lo sorresse nelle sue braccia.
– Glie l'avevo detto io, Eccellenza, che non si avventurasse a tanto sforzo.
– Conducetemi a casa: mormorò il vecchio, abbandonandosi nelle braccia del servo, il quale recandoselo quasi in braccio, s'affrettò verso il palazzo, vi penetrò per la porticina e la scaletta, e senza che alcuno avesse pur sentore della loro uscita, lo guidò nel suo appartamento e lo coricò, mentre i denti del vecchio battevano dalla febbre.
Due ore dopo, il marchese alquanto riconfortato, disse al servo che non s'era mosso dal suo fianco:
– Datemi qui quel sacchetto.
Il domestico se lo trasse di saccoccia e lo porse al giacente; ma questi lo ebbe appena tocco colla sua mano che mandò un'esclamazione di rabbia e disappunto: il sacchetto era vuoto.
Il marchese credette ad un inganno di Nariccia e mandò tosto da costui quel suo servo fidatissimo perchè ne tornasse ad ogni modo con quegli oggetti che aver voleva in poter suo. Il domestico fu di corsa in casa l'usuraio, ma non potè ottenerne che le più vive proteste, aver egli rimesso addosso al bambino quei contrassegni: e il mandatario del marchese s'affrettò allora verso quel luogo dove il fanciullo era stato abbandonato. Era presso l'alba e un pallidissimo chiarore già spuntava sopra la collina all'orizzonte: qualche passo di cittadino mattiniere incominciava a suonare per le strade ancora oscure, in cui venivano spegnendosi i lampioni municipali; alcuni carri di ortolano e di lattaio dei dintorni facevano saltare le loro ceste e le loro bigoncie correndo sull'acciottolato al trotto dei loro ronzini sollecitati dal chioccare importuno della frusta. Giunto a quel luogo dove il fanciullo era stato deposto, il servo non vide più nulla; invano percorse tutta quella straducola, il fantolino era scomparso. Dovette ritornare con queste novelle al suo padrone, che ne rimase assai poco soddisfatto. Pareva al marchese che il suo proposito di volere affatto smarrita quella creaturina, corresse così pericolo di non venire ottenuto, e un giorno o l'altro potesse ripresentarsi innanzi alla nobile sua famiglia quell'essere che a suo vedere ne incarnava una disgraziata vergogna.
Ma, tra le emozioni di quella notte, la rabbia del non compiuto successo, lo strapazzo fisico che la sua volontà aveva imposto al corpo affaticato ed infermo, avvenne che la malattia del marchese il giorno dopo s'aggravò notevolmente, ed una settimana non era ancora trascorsa che un mesto corteo accompagnava a Baldissero, per seppellirla nel fastoso sepolcro de' suoi maggiori, la salma del padre di Aurora.
Questa un anno dopo acconsentiva a sposare il conte di Castelletto, il quale l'amava tuttavia, e del quale essa ignorava compiutamente la parte avuta in quel funesto duello che le aveva tolto il primo marito. Che ogni ulteriore ricerca del figliuolo fosse inutil cosa, le nuove asseveranze di Nariccia congiunte colle parole del defunto marchese avevano finito per mandare persuasi tanto Aurora medesima quanto il fratello di lei. Da questo maritaggio nasceva poscia Virginia; ed era questa giunta appena ai due anni, che un fatalissimo destino la orbava del padre e della madre, e questa, morendo, la raccomandava al fratello, a cui finalmente aveva perdonato di tutto l'animo.
Di questa lugubre storia narrava il marchese a Virginia quelle cose soltanto ch'egli sapeva e che potevano conferire all'assunto ch'egli s'era proposto: di far vedere alla fanciulla come un amore per uomo che non appartenesse alla sua classe non potesse avere altro risultamento che di dolori e sventure. Quali fossero le impressioni di Virginia sarebbe stato difficilissimo giudicare dal suo aspetto: tanto ella aveva ascoltato e tanto rimase anco di poi immota, senza un accento, senza uno sguardo, senza un atto che ne rivelasse l'intimo sentire. E se avesse dovuto dire quali fossero queste sue impressioni, non avrebbe manco saputo ella stessa, poichè le si affollavano intralciate, confuse, poco meno che inestricabili.
Superiore ad ogni altra era una grande compassione per la povera sua madre. Dapprima però la sua era stata come una delusione: la madre, di cui ella non ricordava nulla, di cui non conosceva che la mite fisionomia dall'aria dolorosamente rassegnata, la quale le volgeva un mesto sorriso dal ritratto ch'ella teneva appeso a capoletto come un quadro di Madonna, la madre era per lei qualche cosa di sopraterreno, di superiore a tutte le cose e le passioni del mondo, ed udire parlare di cosa che poteva dirsi fallo di lei, tornava a Virginia quasi una profanazione. Poi tosto la somiglianza del suo coll'affetto di sua madre le destò un più ardente trasporto di simpatia verso la memoria di quell'estinta che tanto aveva sofferto; sentì un subito moto di repulsione verso lo zio che aveva tal dolore inflitto alla povera donna, verso quello zio che pure era stato così buono per lei sempre, e ch'ella s'era avvezza ad amare e venerare come padre. La barriera fra sè ed il giovane ch'essa amava, già sapeva quasi insuperabile, il racconto dello zio le dimostrava che era tale senza rimedio: non aveva ella mai nutrito lusinga di speranze, ma ora più chiaro di prima le appariva l'assoluta impossibilità d'ogni ventura.
Quand'ebbe finito il suo racconto, lo zio le prese fra le sue tuttedue le mani e le disse con accento di amorevolezza infinita:
– Se io non fossi stato assente, Aurora, mi avrebbe confidato l'amor suo, come tu hai fatto or ora del tuo; e sai tu quello che io le avrei detto? «L'amor tuo è una follia: se tu vi resisti potrà esserti un dolore, ma se ti abbandoni ad esso, sarà una colpa. Sul dolore il tempo sparge a poco a poco pur sempre il suo balsamo infallibile, la colpa non si cancella mai più. Tutti nella vita possono trovarsi nella cruda lotta del dovere e della passione: per noi, classe privilegiata, questa lotta può aver luogo più facilmente, in più frequenti occasioni, perchè sono molti più i nostri doveri; e dobbiamo trovare nell'animo nostro tanta forza che basti a tutti i doveri, anche quelli speciali della nostra casta. Una fanciulla del nostro sangue non può sposare un plebeo, non deve dunque amarlo, deve soffocare ad ogni costo l'amore che per esso abbia imprudentemente lasciato nascersi in cuore…»
Virginia interruppe con un'esclamazione, e si levò pallida in volto, risoluta nell'aspetto.
– Come io non isperi nulla di codesto amore, già glie lo affermai, zio; già lo dissi al signor Benda medesimo. Viva o muoia quell'infelice, noi siamo separati per sempre, lo so, non mi ribello a questo decreto del nostro destino, non ripeterò l'errore della mia povera madre… S'egli vive non le prometto di cancellarmelo dal cuore. Non amerò altri più sulla terra. Ma non lo rivedrò mai. S'egli muore, voglio, zio, vederlo un'ultima volta, dargli un ultimo addio; ed Ella non deve negarmelo.
Il marchese fece un atto che pareva d'assentimento: e la nobil fanciulla con mossa dignitosa e severa partissi; allora osò entrare nello studio del padrone il cameriere, che recava: Padre Bonaventura essere venuto lungo la giornata per parlare al signor marchese che trovavasi assente dal palazzo, essere tornato la sera, ed averlo rinviato i domestici dietro il preciso ordine di S. E. di nemmanco annunziarle chiunque si fosse di persone estranee alla famiglia, aver quindi il gesuita mandato testè una letterina pel marchese che si veniva a presentargli.
Baldissero prese quella lettera e la lesse. Era concepita ne' seguenti termini:
«Eccellenza.
«Un gravissimo motivo mi spinge a domandarle l'onore d'una conferenza con Lei, quanto più presto Ella voglia degnarsi d'accordarmela.
«Si tratta d'un importante scoperta, d'un avvenimento da non credersi, se non ci fossero le prove materiali e palpabili, d'un vero miracolo della divina Provvidenza.
«Esso riguarda un fatto doloroso, pur troppo, della sua famiglia, al quale Iddio volle che ancor io avessi una parte; e per quanto io senta pena e ripugnanza a venirla ad intrattenere di quel funesto argomento, a rievocare fatalissimi ricordi, in presenza della gravità della cosa, sento il debito di farlo.
«Quando V. E. mi abbia inteso, mi perdonerà, e sarà persuasa che altro non mi muove che l'interesse, l'affetto e la reverenza che ho sempre avuta e che ho per la nobile di Lei casa e con cui mi protesto
«Suo Umil.mo e Devot.mo Servo
«Padre Bonaventuradella Compagnia di Gesù.»Il marchese, nel leggere queste parole, provò una dolorosa scossa. Qual poteva essere il fatto della sua famiglia a cui aveva partecipato il gesuita, se non quello appunto del quale aveva fino allora discorso alla nipote, e con quanta pena dell'anima, Dio vel dica! E che cosa poteva essere il nuovo avvenimento di cui faceva cenno il frate, il miracolo della Provvidenza ch'egli diceva riguardo a quella funesta storia? Invero doveva pur confessare egli a se stesso che da due giorni tutto in lui e intorno a lui pareva cospirare a far rivivere quelle sanguinose memorie che dopo tanti anni dovevano essere e pensava egli stesso obliterate e sepolte: tutto, il suo pensiero, il suo rinascente rimorso, gli eventi che parevano voler riprodurre per la nipote le tristi vicende avvenute alla sorella. Era dunque veramente la Provvidenza che veniva preparando le cose allo scoppio di qualche nuovo episodio di quel dramma non ancora finito? Ma quale?.. Una viva impazienza, un'ansiosa curiosità lo assalse di saper tosto che cosa fosse questo mistero adombratogli dalle parole del frate. Fu sul punto di uscire egli stesso e recarsi senza indugio al convento dei Gesuiti al Carmine; ma si trattenne. Scrisse e mandò a Padre Bonaventura la seguente risposta:
«Il marchese di Baldissero aspetta a casa sua il Reverendo Padre Bonaventura domani alle ore nove della mattina.»
CAPITOLO V
Quella medesima sera, in cui successero i tristi fatti che abbiamo narrati alla fabbrica dei Benda, Maurilio, ignaro di quelle funeste vicende, avendo sfuggito ogni compagnia, perchè desideroso di rimaner solo col tumulto de' suoi pensieri, col cumulo de' suoi affetti e delle sue passioni, se ne tornava verso il palazzo Baldissero, ora sua dimora, a lento passo, dopo un lungo giro fatto nella parte più solitaria della città, insensibile all'aria frizzante della sera, quando alla cantonata proprio del palazzo medesimo, vide un piccolo essere spiccarsi dalla parete, e ponendoglisi dinanzi dirgli colla voce rauca d'un bambino assiderato dal freddo:
– Giusto Lei che aspettavo; ho una commissione da farle.
Maurilio riconobbe la vocina, la faccia patita ma intelligente, l'occhio vivo e la testa arruffata di Gognino il nipote della Gattona.
– Tu qui? diss'egli assalito di subito da una specie di rincrescimento d'aver perfettamente obliato il suo piccolo protetto. E m'aspettavi?
– Gnor sì. È la nonna che mi ci ha mandato e guai se me ne andavo prima di averla vista e parlatole.
– E come sapevi tu che io sarei venuto qui in questa strada?
– Lo si seppe andando a cercare di Lei al suo antico quartiere, là, dove l'altro dì la mi disse di tante belle cose, quando poi son venuti ad arrestarla.
Maurilio sentì una specie di tenerezza a queste parole del fanciullo.
– Tu non le hai dimenticate le cose ch'io ti dissi? domandò ponendogli con atto affettuoso la mano sul capo.
– Oh no… non ancora: rispose ingenuamente Gognino.
– È dunque la tua nonna che ti manda in cerca di me a quest'ora?
– Non è mica lei che la vuole: gli è Padre Bonaventura.
– Padre Bonaventura! esclamò Maurilio stupito: che può aver meco da spartire costui?
Il frate era conosciuto in tutta Torino come uno dei più influenti, operosi ed intriganti fra i gesuiti che allora tenevano nella cosa pubblica un'autorità incontestata, a cui nessuno osava pure opporsi: il nostro giovane amico poi conosceva ancora più particolarmente i meriti e le gesta di quel cotale, perchè di lui gli aveva discorso a dovere Giovanni Selva, il quale all'influsso di quel tristo doveva la sua esclusione dalla casa di suo padre.
Alla domanda di Maurilio, Gognino non sapeva far alcuna risposta, e non ne fece, contentandosi a stringersi nelle spalle.
– E dunque, riprese Maurilio, che hai tu da dirmi a nome di codesto Padre Bonaventura?
– Che le ha da parlare di cose d'importanza e di premura che la riguardano.
– Me?
– Gnor sì. E che perciò la aspetta questa sera medesima colaggiù al convento; ed io ci ho ordine dalla nonna di accompagnarla fino dal fra' laico portinaio e non lasciarla finchè non abbia acconsentito a venire.
Il primo impulso di Maurilio fu una viva curiosità di conoscere la ragione di questo appello, cui, per quanto immaginasse non sapeva indovinare: e già era per avviarsi, quando una quasi istintiva diffidenza lo trattenne.
– E s'io non ci volessi andare a trovare quel gesuita? diss'egli al fanciullo, che stava osservandolo con un'aspettazione che pareva quasi ansietà.
– Ah! disse vivamente Gognino con una fiduciosa ingenuità da ragazzo: ci venga per far piacere a me soltanto. Se io non la conduco almanco fino alla portieria del Carmine, dove la mi sta aspettando, la nonna crederà che invece di fare secondo il suo comando, io sono andato a baloccarmi, e me ne dà una famosa strigliatina.
Maurilio sorrise mestamente, e non disse altro più che questa parola:
– Andiamo.
Gognino si mosse camminando zoppo e rattratto pel dolor dei geloni e per l'intirizzimento delle sue piccole membra, e Maurilio gli tenne dietro.
Erano aspettati. La Gattona nel vedersi dinanzi quel giovane, sentì entro il suo inaridito cuore di vecchia ipocrita un certo non so che da potersi quasi dire una emozione; qualche cosa di più che una curiosità la punse di vedere, di esaminare ben bene quell'individuo, e piantandosegli in faccia lo squadrò ben bene coi suoi piccoli occhietti infossati nel suo vecchio ceffo da uccello di rapina coperto di pergamena, mentre con voce lentamente trascinata e più aspra e fessa del solito gli veniva dicendo:
– Sia lodato Dio e la Madonna ch'Ella sia venuta. Avevo paura che la non volesse dar retta alle parole di Gognino. E sarei pure andata io ad aspettarla per la strada; ma una povera vecchia mia pari a questa fredda brezza di notte star ferma impiantata c'è da lasciar subito le sue quattro miserabili ossa. Ho pregato tanto il mio santo protettore e la santissima Vergine che…
A Maurilio lo sguardo fisso, scrutatore della vecchia dava un inesplicabile fastidio, quasi un'irritazione; le parole di lei gli producevano un'impazienza uggiosa; sentiva una più spiccata ripugnanza per quell'essere degradato.
– Eccomi qua: interrupp'egli bruscamente. Se son venuto gli è, perchè non credeste che Luchino avesse mancato di ubbidirvi, chè altrimenti non avrei visto ragione alcuna di rendermi all'invito di Padre Bonaventura, che non mi conosce, ch'io non conosco, e col quale non ho attinenza di sorta.
– Ah! esclamò la vecchia con un'espressione di zelo e d'interesse che ognuno avrebbe detta esagerata: la non si penta d'esser venuta, sa!.. Ella volle farmi del bene, a me ed al mio nipotino, e mai non fu carità nessuna così presto e così largamente ricompensata dal Cielo… Ringrazio la bontà divina che mi volle così presto esaudita nelle mie preghiere… Questa povera e umile vecchia, questa abbietta creatura volle Iddio fosse stromento de' suoi decreti; e per cagion mia Ella potesse finalmente…
Maurilio ricordò le parole che gli avevan detto Don Venanzio e Giovanni Selva del colloquio avuto da costoro colla vecchia, nel quale essa aveva preso l'impegno di fare fra due giorni importanti rivelazioni sulla nascita di lui; non dubitò punto che gli ambigui detti della Gattona non avessero rapporto a codesto, e impallidito per subita forte emozione si accostò a lei d'un passo e disse con voce tremante:
– Parlerete voi dunque? Potete voi dunque squarciare il mistero, e volete farlo?
– Si calmi: rispose la Gattona indietrandosi: io, come da un pezzo la direzione della mia coscienza, ho posto questo delicato affare nelle mani di quel sant'uomo, di quel perfetto religioso che è Padre Bonaventura. Questi ha desiderato appunto parlarle in proposito, e saprà dirle quello che conviene…
– E dov'è questo Padre Bonaventura? proruppe con impazienza Maurilio. Conducetemi adunque da lui.
Il frate laico si fece innanzi.
– Abbia la bontà di seguirmi, disse, ch'io ho l'ordine di condurla alla cella di lui.
Maurilio non rispose che con un gesto impaziente e vibrato che significava: – Andate, vi seguo.
Il portinaio prese in mano un lanternino acceso e s'avviò seguito dal giovane; la Gattona tenne dietro collo sguardo a quest'ultimo, finchè l'uscio richiudendosi glie ne tolse la vista.
– Non lo avrei mai più immaginato di quella fatta, diss'ella fra sè; chi lo direbbe mai, a vederlo, figliuolo d'una marchesina, com'era quella creatura là che pareva un angioletto, e di un sì bel giovane, chè gli era proprio bellissimo daddovero. Non ci ha punto di rassomiglianza nè coll'uno nè coll'altra, eccetto gli occhi… Ah sì, quegli occhi son quelli della povera marchesina Aurora, i medesimi che ha eziandio madamigella Virginia. Ora ch'e' mi guardava fiso, ci fu un momento che mi parve proprio di vedere gli occhi di quella buon'anima là quando mi raccomandava appunto il suo bambino…
Diede uno scossone come se assalita da un subito brivido.
– E se restituisco il suo figliuolo alla condizione che gli conviene, la non avrà più da volermene quella benedett'anima là… E questo figliuolo dovrebbe pure essermi riconoscente della bella maniera… Ah se avessi potuto menare da me tutto questo affare senza intromissione di Padre Bonaventura, sarebbe pure stato meglio pel mio interesse; ma come farla? Il marchese non mi avrebbe manco dato retta; se avessi minacciato uno scandalo mi avrebbe fors'anco mandato a finire in una casa di custodia questi quattro dì che mi restano, e questo diavolo d'un frate ha in mano tutti i fili della matassa. Lasciamo dunque far da lui; e son certa che qualche cosa in mio vantaggio lo vorrà pur fare… Andiamo a casa.
Prese Gognino per un braccio e tirandolo seco di mala grazia uscì del portone, che richiuse cautamente dietro di sè.
Intanto Maurilio seguendo i passi della sua guida attraversava un lungo andito appena se illuminato dalla fioca luce d'una lanterna, saliva quattro branche d'una vasta e comoda scala, ed arrivava quasi a capo d'un corridoio all'uscio d'una cella nel quale il frate laico picchiava discretamente colla nocca delle dita.
– Avanti: diceva dall'interno una voce tanto piena di benevolenza che l'avreste detta un'ostentazione.
Il portinaio aprì a mezzo il battente e cacciò dentro la testa.
– Gli è quel giovane ch'Ella aspetta, Reverendo: disse.
– Dio sia lodato! rispose quella voce ancora più compunta. Ch'egli venga.
Il laico si trasse in disparte, con una mano aprì di meglio l'uscio, coll'altra fece invito al giovane di passare e lo confermò colle parole:
– Entri: quello è Padre Bonaventura.
Maurilio entrò, e dietro di lui la porta fu richiusa dal frate portinaio che se ne andò ai fatti suoi. La cella era abbastanza vasta: le pareti, scialbate a calce, bianchissime, senz'altro ornamento; un lettuccio basso in un angolo, sopra di esso appiccati al muro un quadro rappresentante San Luigi Gonzaga, un acquasantino di cristallo, una palma; in faccia al letto un sofà semplicemente impagliato, seggiole compagne intorno, appoggiate alle pareti; presso la finestra, che faceva quasi riscontro alla porta, una tavola coperta d'un tappeto verde, la quale serviva di scrivania; sopra di essa delle carte, un calamaio, una croce piuttosto alta di legno nero inverniciato che si drizzava sopra la base di due scalini, dietro questa croce uno specchietto accortamente posto così che vi si riflettesse la figura di chiunque entrasse nella cella da poterla vedere ed esaminare chi si trovasse seduto alla tavola; presso a questo una piccola scancìa piena di libri.
Padre Bonaventura stava appunto seduto a codesta sua tavola su cui era posta una lampada con una ventola che ne rifletteva giù la luce; così che Maurilio entrando non vide che le spalle larghe del frate e la grossa persona avvolte d'una vestaccia di lana nera. Ma il gesuita diede colla mano un piccol colpo alla ventola della lampada e rialzandola fece correre i raggi della luce, da una parte sulla faccia di chi entrava, dall'altra sullo specchietto appostato dietro la croce. Il nostro giovane che s'avanzava guardando non senza molta curiosità verso il famoso gesuita ancora immobile al suo posto, potè vedere riflesso nello specchietto lo sguardo acuto, investigatore, penetrante che fra' Bonaventura fissava sui lineamenti di lui che gli si dipingevano innanzi. Maurilio fece un sorriso; la ventola s'abbassò di nuovo sulla fiamma della lampada, e il volto del giovane rimase all'oscuro; il frate s'alzò e volse verso il nuovo venuto una faccia piena di benevolenza, di cordialità, di interesse e di bonaria semplicità, espressione di sembianze che era evidentemente preparata e sincera come il complimento di un adulatore.
Tese a Maurilio tuttedue le sue mani bianche, grassotte, morbide e carezzevoli, e disse con quel suo accento di sdolcinata gentilezza:
– Sia Ella il benvenuto nella umil cella del povero frate. Avrei dovuto io stesso recarmi da Lei; ma non sapendo come e dove trovarla per un colloquio segretissimo, quale dev'essere il nostro… E poi un monaco non può uscire a gironzare la sera. (Mostrò le sue due file di denti a dispetto dell'età ancora bianchissimi e tutti presenti in un sorriso tutto ameno, e soggiunse:) E d'altra parte la cosa premeva e bisognava proprio che di stassera avessi l'onore di avere con esso Lei una conferenza.