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La plebe, parte II
Andrea, svegliato, si stirò, mandò un'esclamazione che si convertì in isbadiglio, e levandosi a sedere di mala voglia sul suo strammazzo, disse con lingua ancora impacciata per la cotta presa la sera innanzi:
– Che cosa c'è? È già dì?.. Brrrr! Fa un freddo indemoniato questa mattina… Non hai tu più manco una scheggia di legna da fare un po' di fiammata?
Paolina non rispose altrimenti che scuotendo desolatamente la testa.
– Ebbene, potevi lasciarmi dormire: riprese il marito con accento di rimbrotto ed oscurandosi nell'aspetto: almanco non avrei sentito così presto il freddo. Perchè svegliarsi? perchè alzarsi? Non ho dove andare a lavorare io; meglio dormire. Potessi dormire per sempre!
– Più sottovoce: disse la moglie mestamente, pianamente, ma con un certo accento di comando: più sottovoce per non destare i bambini. Loro sì che bisogna lasciarli dormire, perchè non tornino da svegli a sentir la fame, essi che non possono e a cui non tocca provvedere ai loro bisogni: ma noi… noi che dobbiamo pensare e fare… noi si conviene non dormire.
– Ah! Esclamò Andrea recandosi le mani alla fronte, come per raccogliervi le idee.
La memoria degli avvenimenti della sera innanzi glie ne tornò a quel punto: ma le impressioni che egli ne aveva ricevute erano state così annebbiate dai vapori dell'ebbrezza, ch'e' non sapeva se quelle erano vaghe reminiscenze di sogni oppure ricordi veri di fatti.
– Che cos'è dunque avvenuto? Diss'egli quasi esitante. Aiutami un po' a ricordarmene, Paolina. Ieri sono uscito di qua mezzo disperato per andare a cercar lavoro e pane pei bambini.
– E non sei tornato più: disse amaramente la moglie: e noi abbiamo passato eterne ore ad aspettarti invano, i piccini piangendo, io non sapendo più a che santo votarmi per farli acchetare.
Un'ombra di confusione passò sulla fronte di Andrea.
– Che cosa vuoi? Riprese egli, non senza impaccio. Ho girato mezza città per trovar lavoro; ho battuto a un centinaio di porte, e sempre inutilmente. Ero disperato. Non osavo ricomparirvi dinanzi per dirvi: non ho nulla, non ho trovato nulla, non vi ho portato nulla. Giravo senza saper più dove batter del capo, quando ho trovato Marcaccio.
Una fiamma passò negli occhi di Paolina.
– Ed io, non vedendoti tornare, ho indovinato tutto: interruppe ella. Quando la sera fu venuta corsi all'osteria di Pelone. Sapevo che mentre noi spasimavamo qui, tu eri colà…
– Paolina! Esclamò il marito con accento di profonda vergogna, abbassando la testa.
La moglie si arrestò; guardò con occhio pietoso la vergogna del marito ed ebbe la generosità di non dir più che queste parole:
– E là ti ho trovato.
Andrea allora ebbe come un barlume di memoria che nella taverna era avvenuto qualche cosa fra sè e la moglie; gli tornò ad un tratto preciso il ricordo del modo crudele con cui egli l'aveva trattata, del colpo violento datole da lui, della caduta di essa. Levò gli occhi in volto a Paolina, come per vedere in quello se ciò era vero. L'aspetto, lo sguardo, il mesto sorriso medesimo cui abbozzarono le labbra scolorate della donna gli dissero eloquentemente che sì. Non si parlarono in quel punto, ma si compresero ambedue: eravi il più profondo pentimento dall'una parte, il più generoso perdono dall'altra.
Andrea mandò un'esclamazione soffocata e nascose nelle sue mani la faccia.
Paolina lo lasciò un istante alla sua meditazione; quindi, mettendogli dolcemente una mano sulla spalla, riprese a parlare.
– Ma non è del ieri che dobbiamo ora occuparci, gli è dell'oggi che ci si presenta più terribile che mai. Tu non hai mezzo alcuno nè speranza alcuna di trovar lavoro e guadagni…
Il marito scosse dolorosamente la testa.
– Ai bambini conviene assolutamente dar pane…
Andrea levò con impeto la testa, contratti spaventosamente i lineamenti del viso.
– E l'avranno: esclamò egli: l'avranno… dovessi rubarlo.
Paolina gli mise una mano sulla bocca.
– Oh taci!
Vi fu il silenzio d'un minuto; un penoso silenzio in cui non si udiva che l'affannoso respiro della povera Paolina.
Fu questa a ravviare il discorso.
– Il padron di casa, diss'ella abbassando ancora la voce, ha minacciato mandarci via se non gli paghiamo entr'oggi la pigione.
– Gli è dunque vero anche codesto? Esclamò Andrea, il quale erasi lusingato sino allora di aver solamente sognata una sì brutta novella.
La moglie curvò il capo in segno di dolorosa affermazione.
– Alla croce di Dio! Proruppe l'uomo. Tu vedi bene che non c'è più scampo alcuno per noi!
– Forse sì che c'è ancora: rispose Paolina. Ho pensato a codesto tutta la notte, ed ho pregato Iddio, ho pregato tanto che spero non ci mancherà il suo aiuto.
Andrea scosse le spalle in modo che dinotava nutrir egli assai poca fiducia in quell'aiuto supremo.
– Il signor Nariccia, continuava la donna, è un uomo religioso.
– È un impostore.
– Ah! non giudichiamo male del prossimo. Pregandolo in nome di Gesù Cristo, chi sa che non si pieghi a concederci un po' di respiro. Egli va tutte le mattine al Carmine ad udire la prima messa detta da padre Bonaventura, che è suo confessore, e che ha una grande influenza su di lui. Ho pensato dunque d'andar io pure colà, di raccomandarmi a padre Bonaventura di pregare lui messer Nariccia per le cinque piaghe ad averci compassione.
– E fa pur così, poichè te n'è nata l'idea: disse il marito con tono di scoraggiamento; ma non fondarci su molte speranze, chè il cuore di messer Nariccia è di bronzo, e l'anima di quel gesuita è più nera della sua sottana… Del resto poi, mettiamo pure che la tua Madonna del Carmine faccia il miracolo d'intenerire quei sassi, sarebbe già molto, ma ciò non darebbe ancora per oggi, nè per l'avvenire il pane ai nostri figliuoli.
– Anche a ciò ho pensato. Dopo la messa del Carmine andrò al palazzo del marchese di Baldissero…
– Ah! il marchese; disse Andrea con esitazione. Egli ha protestato che non ci avrebbe mai più dato soccorso nessuno… Egli ti strapazzerà, povera Paolina… Egli ti dirà un mondo di male de' fatti miei.
– Il marchese è di cuore così generoso, che, non ostante tutte le sue minaccie di non sovvenirci più in nulla, quando sapesse le tristi nostre condizioni, pur tuttavia non mancherebbe di aiutarci. Ma però ho pensato di non rivolgermi a lui… Duole anche a me sentire a dir male de' fatti tuoi… e non poterti difendere… C'è in quella casa una angelica creatura, la quale non può a meno d'aver pietà di noi: madamigella Virginia; ed ho pensato di parlare a lei.
– Sì, sì: disse Andrea con vivace premura che provava quanto più gli piacesse che se ne parlasse alla signorina che non allo zio marchese; sì, rivolgiti a madamigella Virginia. Oh ella non ti respingerà di sicuro. Anco se messer Nariccia non volesse menomamente cedere alle tue preghiere, come son sicuro pur troppo che avverrà, da quella brava signorina potrai avere, per poco che tu sappia fare, fin anco i denari della pigione.
– Non ne dubito. Ma questo, anche succedendo, come speriamo, se ci trae dalle tremende strette del momento, non ci salva ancora per l'avvenire.
– È vero: disse il marito con voce appena intelligibile, curvando più basso di prima la testa.
– Codesta salute, per noi, continuava la donna, non può venirci da altri che da te. Sei tu che hai da restituire nelle condizioni d'un tempo la tua famiglia, tornando, come già un tempo, al lavoro.
Andrea non osò ancora levare il capo, nè lo sguardo verso sua moglie.
– Ma se di lavoro non posso trovarne a niun modo: diss'egli con voce soffocata.
– Ne troveresti cambiando costumi. Sei tu ben deciso a cessare da questo modo di vita che ha tratto a sì mal passo la tua famiglia?
– Oh sì: rispose il marito.
– Posso io sicuramente prometterlo per te?
– Certo.
– Ebbene, dopo che sarò stata al palazzo Baldissero, correrò all'officina Benda.
– Ah! il sig. Benda è un uomo ostinato: mi ha già scacciato due volte dai suoi lavoratoi, non mi riprenderà più la terza.
– Anche colà mi rivolgerò alle donne della casa. La moglie e la figliuola del signor Benda sono due pietose creature ancor esse.
– Puoi provare: disse Andrea scoraggiatamente: e se riuscirai tanto meglio.
– Non muoverti dunque di casa fin ch'io ritorni. Se i bambini si svegliano, prometti loro che alla mia venuta avranno cibo. Di certo non tornerò senza recare per essi del pane.
E avviluppatasi la testa in un misero fazzoletto, Paolina uscì frettolosa che era l'alba appena.
CAPITOLO IV
Per prima cosa, Paolina, secondo quel che aveva detto, corse alla chiesa del Carmine, ed entrò diviata in sacristia. L'oscurità di quel luogo non era rotta che da un lucernino pendente da un braccio di ferro: un sacrestano sonnacchioso preparava sulla tavola della credenza i paramenti pel celebrante della messa, mentre un bambino, inginocchiato presso un largo braciere di ferro messo entro un recipiente di legno, ne smuoveva la semispenta carboncina e vi scaldava sopra le sue mani gonfie dai geloni.
Un alto silenzio regnava colà dentro, e si udiva soltanto il suono della campana che giusto allora dava i tocchi della prima messa.
Paolina si accostò un po' timorosa e titubante al sacrestano.
– Scusi, padre Celso: cominciò ella a dire, interrotta tosto da uno scoppio di quella sua tosse dolorosissima.
Il padre, a quel signor sacrestano che era un frate laico, poteva dirsi una piacenteria: ma Paolina voleva rendersi benevolo il fiero uomo, e sapeva che egli ci teneva maledettamente a quell'appellativo.
Padre Celso si volse con mossa solenne, e guardò con piglio altezzoso la povera donna che stavagli in aspetto supplichevole innanzi.
– Ah siete voi, Paolina. Ebbene, che cosa volete?
Quasi tutti gli uomini hanno un superbo concetto delle funzioni che sono incaricati d'esercitare, e nell'esercizio di esse quanto più sono basse, tanto più d'ordinario si mostrano orgogliosi. Andate a parlare ad un misero impiegatuzzo alla sua scrivania nel ministero; domandate ai coscritti che cosa sono i caporali che fan da capo di posto ad una guardia; entrate senza una particella nobiliare al vostro nome e senza l'aspetto d'un milionario nella anticamera d'un riccone ed affrontate l'impertinente sicumera dei lacchè in livrea; abbiate a che fare con uscieri, portinai, custodi e va dicendo, ed avrete i più notevoli esempi della sciocca superbia dell'uomo da nulla che si attribuisce appetto a voi una importanza che non ha; ma la impertinenza orgogliosa di tutti costoro che ho nominato è niente in paragone di quella d'un sacrestano. Hannovi le sue brave eccezioni, ci s'intende: ma il tipo dell'orgoglio impertinente e senza ragione bisogna andarlo a cercare sotto la cotta di solito bisunta d'uno spazzino di sacristia.
Il tono con cui un idalgo spagnuolo del seicento accoglieva un marrano era più cortese di quello che fosse il modo onde padre Celso parlava e sogguardava la povera Paolina.
– Vorrei parlare a padre Bonaventura: disse quest'essa tutto umile.
– Egli non è ancora disceso: rispose col medesimo accento di prima il villano vestito da frate. Discenderà a momenti, ma avrà altro da fare che dar retta a voi. Ha da dir la messa, e poi dopo andrà in confessionale.
Volse le spalle alla poveretta, e continuò la sua bisogna con quell'aria che potrebbe avere chi fosse in via di salvare il mondo.
Paolina si ricantucciò da una parte, e stette là, tutta abbrividendo, ad aspettare.
Poco stante, ecco entrare una vecchia che a primo vederla ciascuno avrebbe riconosciuta per una di quelle pitocche beghine che stanno tutto il giorno sulle porte delle chiese, negli anditi delle sacristie ad elemosinare biascicando pater ed ave e mormorazioni, spiando e divulgando gli affari della gente e facendo anche di peggio mestieri alla vista meravigliosa d'una moneta d'argento.
Costei diffatti, oltre la grinta bassamente ipocrita e furbescamente improntata di affettata divozione, che è propria di quella razza di donne, portava tra mano la vera insegna del suo mestiere, un mazzettino di piccoli candelotti di cera, avvolti dalla metà in giù in un pezzo di carta straccia di color bleu; al braccio aveva passato pel manico un veggio di terra cotta, e coll'altra mano si traeva dietro, mezzo riluttante, mezzo ancora addormentato, un ragazzo di circa dieci anni.
– Buon giorno, padre Celso: diss'ella, con accento della più profonda reverenza, al sacrestano. Lei sta bene? Ha dormito bene questa notte?
Il sacrestano si volse alla nuova venuta con un'aria d'affettuosa protezione che dinotava come costei fosse nelle grazie di quell'importante personaggio.
– Ah ah! siete voi, Gattona?
Ella era infatti quella donna, di cui Maurilio la sera innanzi aveva trovato per la via il nipotino piangente, e in casa della quale il principale dei protagonisti del nostro dramma si era fatto condurre dal piccino2.
– Me la non mi va male, peuh peuh!.. E voi?
– Eh! da povera vecchia… si sa bene; alla mia età, colle miserie che ci toccano a noi… Se non fosse di questi buoni Padri che mi soccorrono, sopratutto di quel sant'uomo di padre Bonaventura, per me la sarebbe bella e finita.
– Via, via: diceva col suo tono di protezione padre Celso. State di buon animo. Siete una brava donna, timorata di Dio, religiosa e dabbene. La Provvidenza e noi vi assisteremo come abbiam fatto fin adesso.
– Che Dio li benedica… Lei e tutti i buoni Padri di questo convento.
– Voi siete sempre fedele a questa prima messa, Gattona.
– Oh sì, e il giorno in cui non mi vedrà più venire potrà ben affermare che io sono moribonda o morta addirittura. Oggi intanto le ho menato qui Gognino in caso ne avesse bisogno per qualche cosa, e sopratutto per servir la messa, ch'egli da solo non è capace, ma per la parte di chi tramuta il libro, tanto e tanto incomincia a raccapezzarcisi.
– Sì, davvero? Oh bene, bene; è un principio. Se occorrerà, potrà servir da secondo qui a questo altro bardotto; ma credo che non ve ne sarà affatto bisogno, perchè oggi è il giorno in cui il signor Nariccia suole confessarsi; e in que' giorni ha per abitudine di servir egli la messa a padre Bonaventura.
– Come Dio vuole. Intanto ho appunto piacere di dire due parole a padre Bonaventura.
– Egli sarà qui a momenti… To', eccolo appunto.
Un uscio si aprì nell'impiallacciatura di legno scolpito e comparvero la persona grossa, la faccia rubiconda e la cotta nera di un frate gesuita.
In questa famosa, e per tanti titoli giustamente famosa compagnia, come tutti sanno, s'incontrano due tipi netti e distinti: l'uno è di frati ascetici, severi, entusiasti, fanatici; l'altro è di buontemponi, in apparenza tolleranti, allegri e sorridenti, che transigono su tante cose accessorie colle passioni dell'uomo e colle debolezze del mondo, purchè ottengano il principale – ed il principale per essi è la sottomissione alla Corte di Roma e la reverenza all'ordine loro. I primi si dirigono alle anime ardenti, agli spiriti eccessivi, a coloro che portano nella religione l'amor della lotta, quel po' di guerra civile che, come disse Massimo d'Azeglio, gl'Italiani hanno nel sangue; i secondi invece parlano alle anime tenere, ammorzano i rimorsi di peccatori convertiti che amano moltissimo il ricordo e qualche arrière-goût dei loro peccati, che nulla chiedono di meglio che far camminare di fronte con un sapiente equilibrio di pratiche religiose i loro piaceri, le soddisfazioni dei loro desiderii terreni, e la loro salute eterna.
Padre Bonaventura apparteneva alla schiera di questi ultimi. Una bella faccia di cuor contento, con labbra rosse sorridenti, guancie paffute e doppio mento. Aveva occhi chiari, limpidi e a fior di pelle che giravano vivacemente e sfuggivano molto bene lo sguardo altrui; la fronte piccola cogli ossi frontali molto sporgenti dinotava una tenace volontà, e sotto l'apparenza benignamente dolcereccia della fisionomia si vedeva un'acuta malizia che si faceva scambiare per buonumore.
Egli s'avanzò nella sacristia fregando le sue mani grassotte e bianche come quelle d'una signora.
– Hai già tutto preparato, Celso? Diss'egli al sacristano con accento di amichevole famigliarità.
– Sì, Padre; rispose Celso cambiando il tono superbo che aveva cogli altri in accento di umile soggezione verso il frate.
– Oh che bravo Celso! Soggiunse padre Bonaventura battendogli leggermente sulla spalla. Fa un freddo indemoniato stamattina, avrò le mani intirizzite a dir messa; fa di accendere intanto un po' meglio questo braciere perchè mi possa poi riscalducciare.
– Subito: disse il sacristano precipitandosi verso il braciere a smuoverlo, togliendo la paletta di mano al ragazzo.
– E mi metterai un po' di bragia nello scaldino e me lo porterai nel confessionale, che altrimenti i piedi mi geleranno o poco meno.
– Sì signore.
– A proposito. Messer Nariccia non è ancora venuto?
– Non l'ho visto… Ah! c'è qui la Gattona che vorrebbe parlare a Lei.
– Ah ah! la Gattona: esclamò il frate volgendosi verso la vecchia con uno di que' suoi piacevoli sorrisi.
La Gattona, tenendo sempre il piccino per mano si avanzò verso il frate e fece una profonda riverenza.
– Sì, Padre, diss'ella: se volesse usarmi la carità d'ascoltarmi…
Padre Bonaventura si assettò comodamente sopra una seggiola a bracciuoli che c'era presso al braciere, pose i piedi sull'orlo di legno di quest'esso, e guardandosi compiacentemente le unghie rosee e le mani bianche, disse alla vecchia:
– Parlate pure.
La vecchia fece guizzare uno sguardo di sfuggita verso il sacrestano e verso il ragazzo che stava ancora inginocchiato presso al braciere.
– Celso, disse il frate, comincia intanto per accendere le candele all'altare, poi verrai a vestirmi le paramenta.
Il sacrestano prese un cerino, lo accese alla lampada che pendeva e si avviò verso la chiesa.
– Vai anche tu ad aiutar Celso: soggiunse il gesuita, facendo una carezza alla guancia del ragazzo che gli era vicino, va, e ti darò poi una bella immagine di Gesù bambino coi fregi dorati.
Il ragazzo si levò sollecito e seguì il sacrestano.
– Or dunque: disse allora padre Bonaventura alla Gattona. Che cosa avete da dirmi?
– Sono venuta a demandarle un consiglio: cominciò la vecchia abbassando la voce e curvandosi verso il frate che, abbandonato sul seggiolone, coi gomiti appoggiati ai bracciuoli, si era disposto ad ascoltare.
– Che consiglio?
– Ieri sera un signore… oh no, non mi ha di troppo l'aria d'essere un signore… un uomo ch'io non conosco, ma che mi diede qui il suo nome scritto sopra una cartolina… Eccola; guardi un po' Lei se ha mai sentito a menzionare questo individuo.
E trasse fuor della tasca del grembiale, spiegazzata e sporca, la polizzina che Maurilio le avea data la sera innanzi.
Padre Bonaventura la prese, se la pose innanzi agli occhi il più distante che potè col braccio teso, perchè la sua vista era da presbite, e lesse quello che già sappiamo esservi scritto su: Maurilio Nulla, scrivano pubblico, via… porta num. 7, piano quarto.
– Ecco un nome originale: disse il gesuita: un nome che finora non mi avvenne mai di vedere nè di udire, quindi, eccetto che ne abbia anco un altro, l'individuo che lo porta mi è perfettamente sconosciuto. Ebbene, che cosa avete voi da spartire con questo tale?
– E' mi venne in casa inaspettato, e mi fece una proposta che io ho accettata, e che ora ho paura di aver fatto male ad accettare.
Il frate levò i suoi occhi grigi sul volto aggrinzito e ributtante della vecchia.
– Oh oh! esclamò egli. Che razza di proposta?
– Niente contro l'onestà e contro il timor di Dio: si affrettò a rispondere la lurida vecchia. Si tratta qui di questo biricchino – (ed accennava al ragazzo che teneva sempre per mano) – che anzi gli è stato lui che me l'ha menato in casa, chè lo ha trovato per le strade ch'era già tardi, perchè questo poco di buono s'indugia sempre a baloccarsi e peggio e non c'è verso di farlo rientrare al cader del giorno com'io vorrei…
– Bene, bene: interruppe padre Bonaventura con qualche impazienza, tamburellando colle dita grassotte sui bracciuoli del seggiolone. Udiamo questa proposta ch'e' vi fece.
– Io, già, sono una povera donna. Ella lo sa; vivo d'elemosina, e questo bardotto qui mi è di un peso… di un peso!..
– Si, sì, me lo avete già detto parecchie volte; ma egli pure vi guadagna qualche solduccio.
– Oh sante piaghe! Gli è così poco… E giusto, gli è a questo riguardo che quel cotale mi fece quella certa proposta.
– Sentiamola dunque, via, questa benedetta proposta.
– E' mi ha domandato s'io non gli avea fatto imparare a Gognino il leggere e scrivere, s'io non lo mandavo a scuola; ed udito che no, mi profferse di darmi egli dieci soldi al giorno, a patto che lo lasciassi andare in casa sua dov'egli avrebbe insegnatogli lettura, scrittura ed abbaco.
– Cospetto! Esclamò il gesuita meravigliato, spalancando tanto d'occhi. E questo per la bella cera di quel martuffino lì?
– Disse che voleva fare quest'opera buona.
– Uhm! E che figura ha egli codestui?
– Non ho potuto nemmanco vederlo bene. E' si teneva in testa un certo cappellaccio colla tesa sugli occhi. Una faccia strana, nè da giovane, nè da vecchio; una voce che ha una certa imponenza; i panni piuttosto da povero che da ricco.
Padre Bonaventura prese fra l'indice e il pollice della mano destra il suo mento grasso a doppia piega, nell'atto della riflessione.
– E voi dunque avete accettato il partito?
– Ho pensato che dieci soldi al giorno non si trovavano mica lì, sotto il primo sasso della strada. Me il bisogno mi perseguita. Mi parve una vera grazia mandatami dalla Madonna del Carmine. E poi ho pensato che Gognino avrebbe così imparato di meglio a servire la messa. Ora son io che debbo fargli entrare nella memoria le parole a forza di recitargliele, e le assicuro che la è una fatica… una fatica. Ho detto di sì… Ho forse fatto male?
– Che intenzioni può egli avere quell'individuo? Diceva il gesuita, come continuando a parole pronunziate le sue riflessioni. A questo mondo non si fa niente per niente. Voi Gattona, vecchia come siete, dovreste saperlo.
– Ho immaginato si volesse con siffatta carità far dei meriti per la vita eterna.
– Eh! che i meriti si acquistano con altri modi, più acconci, chi abbia fede veramente nella nostra santa religione. Scommetto che gli è uno dei moderni disseminatori di falsità e di eresie, uno dei campioni del progresso, come si usano chiamare, il quale vuole guadagnare all'errore un'anima di più.
– Ho dunque fatto male? Esclamò la Gattona con accento spaventato: oh creda, padre Bonaventura, che io subito dopo ho pensato di venirle a raccontar tutto e di pregarla a volermi guidare in proposito. E s'Ella adunque mi dice che ciò non si deve fare, io non manderò a quel cotale, Gognino, nemmanco se mi volesse caricar d'oro… Ci perderò dieci soldi al giorno belli e sicuri; ma che cosa m'importa? Io non guardo a codesto quando si tratta di schivare il male e di obbedire a Lei, padre Bonaventura… benchè io sia miserissima, e debba contare non che i soldi, ma i centesimi. Oh! ci è una Provvidenza lassù; ed io sono tanto divota della Madonna e del Sacro Cuore di Gesù e di Santa Filomena, che non sarò abbandonata, e son persuasa che vostra reverenza medesima, se potrà, troverà modo di compensarmene, facendomi partecipare un po' più alle elemosine di questa parrocchia…
Padre Bonaventura, il mento sempre appoggiato alla mano, guardava la vecchia con i suoi occhi fissi, nella cui espressione non avreste saputo se fossevi ironia o bonarietà.
– Ben sapete: disse a quel punto il frate colla sua voce più melliflua ed insinuante; ben sapete, Modestina, che siete fra le prime nella lista dei poverelli a cui amiamo distribuire i soccorsi delle carità che raccoltiamo.
La Gattona prese la mano sinistra del gesuita che era posata sul bracciuolo e la baciò con divozione; ma padre Bonaventura, a cui non parve molto piacevole quel contrassegno di reverenza, fu lesto ad allontanare la sua mano paffutella, dalle labbra vizze, triate e violacee della vecchia.
– Or dunque, riprese quest'ultima, io mi guarderò bene dal mandar Gognino colà…
– Aspettate: disse vivacemente il gesuita a cui pareva nata una nuova idea. Sarebbe forse meglio far così. Lasciateci pure andare il vostro ragazzo da quest'uomo, ma inculcategli bene di osservar tutto, di tenere a mente tutto ciò che vedrà, che sentirà, che avverrà in ogni modo, e di farvene una relazione esatta giorno per giorno.