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La plebe, parte I
– Orsù, mio bel fusto, qui abbiamo da assestare i conti.
Il giovane così interpellato alzò un momento gli occhi su chi gli parlava: ma li chinò tosto, appena incontrati quelli ferini di costui, che lucevano sinistramente in fondo alle occhiaie sotto le spesse e fulve sopracciglia.
– Che cosa volete? Diss'egli facendo un evidente sforzo per apparire calmo e sicuro, e colla voce che a dispetto di questo sforzo gli tremolava un pochino. Io non vi conosco, nè voi mi conoscete, credo.
– Sì, per Dio, che vi conosco: urlò Marcaccio dando un gran colpo sulla tavola con quel pugno che aveva teso verso il giovane; e la razza di gente a cui voi appartenete, gua' io son uso a trattarla come fo di questo gotto.
E preso un bicchiere sul desco, lo scaraventò per terra mandandolo in mille frantumi.
Tutti coloro che si trovavano nell'osteria, a quello scoppio di voce ed al rumore, si volsero verso la tavola dove succedeva tal scena, ed alcuni alzandosi in piedi, altri appressandosi curiosamente, si apprestarono tutti ad assistere allo spettacolo che prometteva loro un po' di spasso.
Meo mostrò al di fuor della botola la sua faccia da imbecille in cui aveva tanto d'occhi spalancati.
Il ragazzo che mangiava, spaventato, aveva lasciato cader sul piatto il tozzo di pane e il boccon di formaggio in cui mordeva con tanta voglia e si era riparato contro la muraglia quatto quatto, pronto a scivolar per di sotto la tavola a fuggire ogni pericolo.
Lo sconosciuto, più pallido ed inquieto che mai, mandava attorno degli sguardi sgomentati come per cercare una via di scampo.
– Io non vi ho fatto nulla: balbettò egli con voce appena intelligibile. E se qualche cosa di me ha potuto offendervi… posso assicurarvi che la non era mia intenzione affatto affatto.
Le simpatie di tutti gli spettatori di quella scena erano già di natura per Marcaccio contro il signore che era venuto a ficcarsi in mezzo a loro, ma la paura manifestata da quest'ultimo era fatta ancora per accrescergliene l'ostilità, mentre nulla più inferocisce una folla che la timidità della vittima.
Le parole dello sconosciuto furono accompagnate da un mormorio di scherno e di minaccia che accrebbe in Marcaccio la prepotenza e nell'altro lo sgomento.
– Dagli, dagli a quel muscadino: disse apertamente qualcuno.
– Fagli ballare il rigodone!
– Giù, giù su quel cappello!
Mastro Pelone credette sua convenienza d'intromettersi.
– Uhm! mormorava egli fra sè: questo sciamannato mi fa una buggera, ma di quelle… che il fistolo lo colga! Il commissario mi farà chiudere l'osteria, se non mi manda anche me in gattabuia… Che benedetto cervellino da galletto che ha questo scimunito!
Venne presso a Marcaccio e ponendogli chetamente sopra un braccio una di quelle sue mani da scheletro, gli disse con tono dolcereccio e con un sorriso che pareva la smorfia d'un epilettico:
– Via, via, amico mio, stai buono e non facciamo tafferugli…
Ma l'ubbriaco gli si voltava con brutto viso e dandogli una manata nel petto lo respingeva ruvidamente da sè, dicendo in mezzo alle più orride bestemmie:
– Lasciami stare, oste dell'inferno, e va a cacciar il naso nelle porcherie delle tue cazzeruole.
– Uhm! Esclamava Pelone assalito dalla tosse, cadendo seduto sopra una panca. La va a finir male.
Marcaccio tese una mano per prendere lo sconosciuto al bavero del vestito. Il giovane a quell'atto, parve ritrovare un po' d'energia: saltò in piedi di scatto, e schivando la branca dell'ubbriaco, gridò:
– Lasciatemi Che prepotenza è questa? Che vi ho fatto in fin dei conti?
– Che mi hai fatto? Gridò Marcaccio. Mi hai fatto che sei un codardo di spia e che le spie non le voglio tollerare, giuraddio!
Un susurro minaccioso corse per tutta la bettola.
– Una spia! Una spia! Dàlli, dàlli.
Lo sconosciuto ebbe un impeto d'indignazione che gli diede coraggio. Un vivo rossore gli salì alla faccia, la sua fisionomia prese di colpo una espressione di risolutezza e di forza, il suo sguardo folgorò, le vene della nobile fronte diventarono turgide, la persona gli si drizzò con un aspetto di imponente fermezza che non avreste mai più creduto possibile in lui.
– Alla croce di Dio! Gridò egli con voce vibrante. Io una spia! Oh! Non ripetete questa infame parola, sciagurato, o vi pianto questo coltello nel cuore.
Ed afferrato con mano convulsa il coltello che stava sul desco, ne fece balenare la lama alla luce rossiccia della lampada.
Questo atto ne impose a tutta prima all'adunanza ed a Marcaccio medesimo. Vi fu come un momento di stupore; e l'ubbriaco, involontariamente dominato da quella personalità che rivelava la sua potenza, indietreggiò.
Ma lo sforzo non potè durare a lungo nella indebolita natura di quell'essere strano; di subito egli divenne più pallido d'un cadavere, e ricadde seduto spossatamente sulla panca, al momento appunto in cui la riazione di quel primo effetto di stupore spingeva Marcaccio a maggiore audacia e prepotenza.
– Minaccie a me! Urlò quest'ultimo. Credi tu mettermi paura? sacramento!..
– Ah! Non mi fate del male; esclamò lo sconosciuto tendendo supplichevolmente le mani verso l'ubbriaco che si precipitava su di lui.
E Marcaccio stava per afferrare il poveretto, e chi sa che cosa ne sarebbe accaduto, se ad un tratto non si fosse aperto l'uscio a vetri della stanza vicina, e il giovane dalle maniere eleganti, che abbiam detto esservi colà dentro, non fosse comparso, gridando con voce imperiosa:
– Alto là! Che cosa c'è?
CAPITOLO V
Era davvero un bel giovane. Alto e ben piantato, spalle quadre e petto robusto, un capo svelto e una faccia con espressione di coraggio indomabile e di naturale distinzione; uno di quegli sguardi che fanno abbassare gli altrui; sulle labbra carnose e rosse del color del sangue un abituale sorriso pieno d'ironia, di scherno e di superbia; nell'occhio grifagno alcun che di feroce; fra le sopracciglia, nella sua fronte giovenile, a volta a volta si disegnava il solco profondo d'una ruga, che dava alla sua bella fisionomia un aspetto di durezza e di minaccia, che pareva un segno di maledizione stampatogli dalla collera divina, come la traccia del fulmine di Giove sul capo dei ribelli Titani.
Chiamato dal rumore, accorreva per solo impulso di curiosità; dietro gli si aggruppavano le figure triste ed ignobili di coloro che gli erano compagni nell'altra stanza, vicino a lui veniva la Maddalena.
La comparsa di questo giovane in mezzo a quei miserabili, fu come quella d'un'autorità senza contrasto riconosciuta. Tutti gli fecero largo perchè potesse giungere al luogo del tafferuglio, e Marcaccio medesimo voltosi di scatto alla voce del giovane, s'indietrò alquanto e credette necessario di spiegargli le ragioni del suo procedere.
– Ecco… Le dico subito, signor medichino… Che scusi!.. Ma gli è questo furfante qui che è una spia, e volevo io allungargli un momento le orecchie a modo mio.
La fronte del medichino si corrugò tremendamente, e le sue pupille mandarono veri sprazzi di fiamma.
– Una spia! Esclamò egli avanzandosi minaccioso verso lo sconosciuto, il quale pareva sul punto di svenire dallo spavento… Una spia qui?.. Per la Madonna!
Quando si trovò in faccia a quel giovane pallido, tremante, annichilito, l'espressione del suo volto cangiò di subito per far luogo, ad una superba quasi disdegnosa compassione. La ruga in mezzo alle sue sopracciglia sparì; egli incrociò le braccia al petto, abbozzò colle labbra un sorriso e disse col tono d'un superiore che parla ad un suo dipendente:
– Che? Sei tu Maurilio?
Il giovane salutato con questo nome sollevò timidamente gli occhi ancora smarriti, in volto a chi gli parlava, e rispose con voce tuttavia tremante:
– Son io, Gian-Luigi.
Questi allora si volse alla frotta dei cenciosi che facevano cerchia dietro di lui e disse loro con accento di comando:
– Andate a' vostri posti. Quell'animale di Marcaccio ha preso Sant'Antonio per un tedesco.
– Che scusi: ripeteva l'ubriaco affine di difendersi: l'animale è stato qui, mastro Pelone… Io non ci pensava neppure… Egli è stato a venirmi susurrare…
– Sei un fiero cocomero: interruppe l'oste colla sua voce cavernosa; io non ho fatto che consigliarti la prudenza, e tu…
– Basti! Comandò Gian-Luigi con tono che non ammetteva altra ribattuta. E tu, soggiunse volgendosi a colui che aveva chiamato Maurilio, poichè ti trovo, sii il bengiunto. Vieni qui meco un istante, che ho giusto assai piacere di parlarti.
I bevitori erano tornati al loro desco, rassicurati compiutamente dalla parola di colui che essi chiamavano il medichino, il quale pareva esercitare su tutti coloro una non contrastata autorità.
All'invito di Gian-Luigi, Maurilio si alzò; era sempre pallido, e le gambe gli tremavano ancora; ma il suo sguardo aveva già ripreso quell'espressione di superiorità che davagli l'intelligenza.
– Aspettami qui, diss'egli al ragazzo, il quale era tornato ai suoi voraci bocconi; e intanto mangia finchè te ne basta l'appetito.
S'avviò, preceduto da Gian-Luigi, verso la stanza vicina, dell'uscio a vetri. Quando furono per entrarci, il medichino si volse a coloro che gli erano compagni là dentro e che parevano volervelo di nuovo seguire.
– State qui: disse loro seccamente. Ho da parlare con questo signore.
Tutti si fermarono colla più sommessa obbedienza.
Maddalena insinuò amorosamente il suo braccio su quello di Gian-Luigi e facendo vezzucci e boccuccia gli domandò:
– Ho da portarvi qualche cosa da bere?
– Non seccarmi, curiosona che sei: disse con impazienza il medichino; ma poichè vide la ragazza lasciar cascare il braccio e chinar la testa tutta mortificata: – via via, soggiunse ridendo, non mettermi il broncio, Lenuccia. Tosto che avrò finito di discorrere con quest'amico, ti chiamerò.
E per placarla di meglio, le passò un braccio attorno alla vita, e le diede un bacio che le fece sbocciare sulle labbra il più lieto sorriso.
Pochi videro quest'atto, e di questi pochi uno fu il garzone dell'oste. Meo, il quale stava sempre colla testa fuori della botola a guardare.
Alla vista del bacio dato da Gian-Luigi a Maddalena, la faccia da scemo di Meo si contrasse violentemente in modo che dinotava sdegno e dolore profondissimi, ed un sospiro cupo e soffocato gli uscì dal petto, uguale a quello di chi avesse ricevuto una trafittura nel cuore.
La testa di Meo scomparì giù nella botola; ma chi fosse stato colà avrebbe sentito il povero diavolo borbottare fra i denti.
– Ah quel Gian-Luigi!.. Se potessi mai fargliela pagare!.. Ed anche a lei!.. Mi costasse un occhio della testa che sarei contento.
I due giovani entrarono nella camera dall'uscio a vetri, e Gian-Luigi chiuse accuratamente la porta dietro a sè.
Il fuoco fiammeggiava sempre allegramente nel caminetto. Pur tuttavia il medichino prese una brancata di ramoscelli secchi e due pezzi di legna e ve li gettò sopra ad accrescere la vampa.
– Siedi, egli disse poi a colui che ora sappiamo chiamarsi Maurilio: ed egli stesso, presa una seggiola e postala innanzi a quella su cui s'era messo il compagno, vi si assettò a cavalcioni, appoggiando le braccia alla spalliera. Mio caro Maurilio! Continuò Gian-Luigi. Con quanto piacere ti rivedo! Oltre che tu mi ricordi la nostra infanzia, è da qualche tempo che sto pensando a te, perchè… sarò schietto… perchè da qualche tempo il mio animo, la mia risolutezza hanno bisogno del tuo cervello, ch'io so valere assai più del mio, e di quanti altri forse stanno sotto la calotta del cranio degli uomini che vivono oggidì.
Maurilio aveva accavallate le gambe l'una sull'altra ed appoggiando al ginocchio superiore il gomito destro faceva sorreggere alla mano la sua grossa testa reclinata, guardando acutamente, di sotto alle dita tese a paralume, l'interlocutore che gli stava dinanzi.
Alle parole di quest'ultimo che or ora ho riferite, le labbra di Maurilio si contrassero ad un sottile sorriso in cui c'erano malizia, ironia, una lieve tinta di scherno; ma non una parola fu da lui pronunziata.
La fronte di Gian-Luigi si rannuvolò alquanto e comparve leggermente accennato in mezzo alle sue sopracciglia il solco di quella ruga che ho detto. Fissò i suoi occhi ardenti in quelli di Maurilio, ma lo sguardo di quest'esso non si chinò nè sminuì punto di luce e di fermezza.
Stettero così un istante come due lottatori che si osservano a vicenda per conoscere l'un dell'altro le forze e l'abilità, e sapersi regolare a seconda.
Il medichino fu il primo a chinare lo sguardo. Trasse di tasca un elegante astuccio di sigari che contrastava stranamente co' suoi abiti da plebeo, ed apertolo tese la mano verso il compagno:
– Fumi?
Maurilio scosse la testa in segno negativo senza disserrar le labbra.
Gian-Luigi scelse con cura un sigaro nell'astuccio, ripose questo in tasca, chinatosi al fuoco prese uno dei ramoscelli fiammanti ed accese il sigaro che s'aveva posto fra i denti. Ma in questo frattempo e durante questi atti compiti con garbo che pareva d'uomo avvezzo alle maniere signorili della più elegante società, si sarebbe potuto notare in lui una certa preoccupazione, come di chi sia incerto del modo di affrontare un discorso e vada fra sè studiando il migliore.
Del resto era cosa degna di nota il cambiamento che, appena varcata la soglia di quella stanza, era avvenuto in que' due e fra quei due personaggi, che sono i principali della storia, la quale sta per isvolgersi innanzi a noi.
Nello stanzone precedente, in mezzo a quella folla concitata e minacciosa, là dove la forza dei muscoli e il coraggio fisico avevano il predominio, Maurilio appariva inferiore, debole, l'ultimo di tutti, e le superbe sembianze del robusto Gian-Luigi che colla sua forza e colla sua ardimentosa risoluzione ne imponeva a tutta la turba colà raccolta, potevano a ragione assumere quell'espressione che abbiamo notata di protezione e di compassione altezzosa; ma ora qui, fronte a fronte, questi due esseri in cui fortemente era impressa una diversa e ben definita personalità, nel colloquio da Gian-Luigi provocato, qui dove non più la forza muscolare in un contrasto materiale, ma era in giuoco il valore intellettivo in una che ambedue gli attori sentivano dover essere scherma di propositi e di idee, qui le apparenze della superiorità erano passate dalla parte della vasta e travagliata fronte, del volto scarno e pallido ma intelligentissimo di Maurilio.
Fu Gian-Luigi a rompere il silenzio, poichè ebbe avviato per bene il suo sigaro, mandando fuori rapidamente dalle labbra tre o quattro dense nuvole di fumo.
– Quanti anni sono che non ci siamo più visti?..
– Sei, rispose asciuttamente Maurilio.
– Tò gli è vero. Avevo allora vent'anni, ed ora ne conto presto ventisette Mah! come il tempo passa!.. Tu ne avevi diciotto allora, non è vero?
Maurilio fece un segno affermativo col capo, conservando sempre la sua medesima positura.
– E' mi pareva un secolo che noi eravamo divisi: riprese Gian-Luigi; eppure ora nel rivederti mi torna ad un tratto come se ieri ancora noi fossimo insieme… E tu? Mi hai tu dimenticato, Maurilio?
– No: disse quest'ultimo.
Gian-Luigi avvicinò ancora di più la sua alla seggiola del compagno, e tendendogli la mano soggiunse:
– Noi abbiamo vissuto nei primi anni come fratelli… La nostra sorte, le nostre condizioni sulla terra sono le medesime. Perchè non ci uniremmo noi nel cammino della vita?
Maurilio pose freddamente la sua grossa mano in quella che gli tendeva Gian-Luigi (una mano elegante, quasi potrebbe dirsi aristocratica, di cui si vedeva il suo possessore averne gran cura); ma non tardò a ritrarnela senza pure avere corrisposto alla stretta di quella del suo compagno.
– E tua madre? Disse ad un tratto Maurilio piantando più acutamente ancora il suo sguardo negli occhi del medichino.
La domanda parve a quest'ultimo non molto gradita. La faccia di lui si contrasse alquanto con un'espressione di malavoglia a cui tosto successe una sdegnosa impazienza, cui però fu sollecito a frenare.
– Mia madre! Rispose egli, chinando gli occhi innanzi a quelli del suo interlocutore. Chi chiami tu mia madre?.. Sai bene che al par di te io sono un misero derelitto, cui trovarono soverchio peso i genitori e condannarono infamemente all'ingiusta infamia della condizione di trovatello… Oh gli scellerati! Quante volte li ho già maledetti, e quante volte ne li maledirò… e non finirò mai di maledirli fin che io viva!..
Maurilio sollevò la testa e drizzò la persona con nobile mossa.
– Non maledire nessuno! Esclamo egli con accento pieno d'autorevolezza e di forza. Che sai tu, che sappiamo noi se abbiamo il diritto di maledire?
Gian-Luigi si tolse il sigaro che masticava rabbiosamente fra i denti e lo gettò con impeto fra le fiamme del caminetto. Percosse con una mano la spalliera della sua seggiola su cui si appoggiava, e proruppe con vivacità che s'accostava alla violenza:
– Sì l'abbiamo, per Dio! Perchè i nostri genitori ci hanno lanciati nel mondo con questa macchia di disonore sulla fronte?.. Trovatello!.. Avessi tu il maggior ingegno, non potrai nulla, non sarai nulla, non perverrai a nulla mai, perchè sei un trovatello. Oh che abbiamo noi da portare così grave il peso e l'espiazione – noi innocenti – della loro colpa?
– E se fosse della miseria? Interruppe con voce grave Maurilio. Tu sai pure che cos'è la miseria! Tu l'hai vista faccia a faccia… Non so ora come tu stii con essa, e se hai trovato nelle forze della tua personalità che sempre ho conosciute molte e potenti, il mezzo e la fortuna di far divorzio completo con quella scarna Dea della plebe; pur pure la ti fu compagna e scorta nei primi passi della vita… Non dovresti aver dimenticato a quali crudelissime strette ponga questo orribil flagello un'anima umana… Ah! io ne ho conosciute di queste madri nella corta ma avvicendata commedia della mia vita; ne ho conosciute di queste madri che col coraggio disperato con cui uno si lacera le proprie viscere, si separano dal sangue del loro sangue, dal nato dal loro seno, dall'unico amore, dall'unica gioia della loro vita di stenti, perchè non hanno più un boccone di pane da farne una goccia di latte pel figliuol loro… Chi, chi su questa terra avrebbe la crudeltà di maledirle?
Maurilio parlava lentamente, con voce contenuta e direi quasi rimessa e sorda; ma in alcuni tratti quella voce velata vibrava in istrana maniera e si imprimeva d'un certo affetto onde lo ascoltatore difficil era non rimanesse commosso.
Ma però tale non rimase Gian-Luigi, che colla medesima concitazione di prima proruppe nuovamente:
– E se non han pane da dar loro, perchè mettono al mondo figliuoli?
– Gian-Luigi! Esclamò con infinito rimprovero Maurilio.
Il medichino rimase alquanto percosso nell'anima dall'accento del suo compagno; frenò fra i denti una bestemmia e si morse con atto pieno di contrarietà i neri baffetti che gli ombreggiavano assai leggiadramente il labbro superiore.
– Ebbene, sia: diss'egli poi. Abbiano, non dirò il perdono, ma men severa condanna od anche l'oblio coloro cui spinge a questo scellerato passo la miseria. Ma se tu pensi che tale possa essere il motto dell'infelice destino a cui ti condannarono quelli che incautamente o colpevolmente hanno chiamato nel tuo corpo un'anima a dolorare in questa infame lotta fratricida della vita, io di me non lo penso, io di me sento che così non è. Il perchè e il come non saprei dirteli; ma sono sicuro che altra più rea cagione ha fatto imperdonabilmente colpevoli verso di me coloro che mi hanno data la esistenza.
Si alzò e incrociò le braccia al petto, piantandosi in tutta la venustà e l'imponenza della sua persona innanzi a Maurilio.
– Guardami! Diss'egli con superba sicurezza, la quale non appariva a chi lo guardasse che la giusta coscienza di sè medesimo. Ti sembro io il figliuolo d'un plebeo? Queste forme, queste membra, queste sembianze non dicono esse che un sangue gentile scorre nelle mie vene? È il grido che esce spontaneo dalle labbra di tutti, appena mi vedono; è il motto che fin dalla mia culla mi suonò all'orecchio sulla bocca d'ognuno che mi incontrasse: – e' pare il figliuolo d'un principe. Vedi tutti quei miserabili che s'accalcano nella stanza di là, ignobili di forme, di gusti, di pensieri. Quelli sono i figliuoli della miseria, non io!.. A contatto con loro, non ebbi mestieri che di volere, e mi si prostrarono innanzi, che di comandare, e mi obbedirono come servi. Perchè? Perchè mi sentirono d'una razza a loro superiore E queste aspirazioni, questo rabbioso anelare verso tutto ciò che è bello, tutto ciò che è splendido, tutto ciò che è grande? Oh! non è forse l'essere mio che tende a quell'altezza che gli compete?
Maurilio mirava fisso il suo compagno con isguardo freddo sempre, osservatore e severo.
– Questo, diss'egli col suo solito accento, è l'agognare dell'anima umana alla gioia ed al piacere che le sfuggono a mano a mano dinanzi. Tu hai forse posto più in alto la mira perchè le circostanze ti fecero capace di apprezzare altri diletti nella vita che quelli non sono, i quali appariscono alla ignorante fantasia della plebe; ma il sentimento è quel medesimo che poc'anzi informava le parole di quell'ubbriaco Marcaccio quando voleva indurre il suo compagno a bandire la guerra ai ricchi col latrocinio.
Gian-Luigi si riscosse come tocco da un ferro rovente: il solco della ruga frontale apparve in mezzo alle sue sopracciglia.
– Che di' tu? Che sai tu? Prorupp'egli con fierissimo impeto. Mi metteresti a mazzo con quei bari e ladroncelli?
– Io non so nulla: rispose Maurilio sostenendo lo sguardo acceso del suo compagno. E ad ogni modo mi guarderei bene dal porre te al loro livello ed essi al tuo. Tu nell'oblio del dovere e nel disprezzo della legge avresti a mille doppi maggiore che non essi la colpa, perchè tu sai, ed a loro la profonda ignoranza è scusa.
Il medichino parve prossimo a cedere ad uno di quegl'impulsi dello sdegno che spingono alla violenza; divenne in volto del color del fuoco, le labbra gli tremarono e gli occhi balenarono d'una luce sinistra; ma con uno sforzo della sua volontà potentissima si contenne. Mandò un'esclamazione che pareva una specie di ruggito mozzicato fra i denti, e levatosi a forza dal luogo dove stava piantato, fece due o tre giri per la stanza; poi tornò presso il caminetto, trasse fuori un altro sigaro e lo accese con tutta pacatezza.
Maurilio aveva ripreso il suo atteggiamento abbandonato e come stracco; tornava a sorreggere colla mano il capo che avreste detto essergli grave; e seguitava a guardare Gian-Luigi colla stessa attenzione osservativa; se non che un po' di compassione pareva ora congiungersi al sentimento scrutatore di prima.
– Io so, io so! Disse Gian-Luigi. Appunto perchè so, grido contro l'ingiustizia dell'assetto sociale e contro la barbarie di chi mi ha abbandonato povero e solo in questa empia lotta del mondo dove non vince che il danaro.
Maurilio tacque un istante, poi replicò, e col medesimo accento di prima, la domanda che già avea fatta poc'anzi:
– E tua madre?
– Ancora! Esclamò il medichino con una bestemmia. Tu chiami con questo nome la donna che mi raccolse?
– Sì, perchè questo santo nome la se lo merita. Quella povera donna ti ebbe ad allattare dall'ospizio, ma ti pose vero amore materno. Ti allevò come suo, tutta si sacrificò per te, come se tu fossi proprio suo sangue. Quante volte la non si è tolto essa lo scarso boccon di pane dalle labbra per darne a te, per soddisfare alcuno dei tuoi infantili desiderii, e più tardi dei tuoi giovanili capricci! Or bene, che cosa hai tu fatto di questa povera donna sublime? di questa ignorante ma generosa creatura cui la Provvidenza, o se ti piace meglio il fato ha posto sugli ultimissimi gradini della scala sociale e il cuore invece alloga fra le più elette del genere umano? La tua condotta fieramente ti accusa…
– Come! Interruppe impetuosamente Gian-Luigi. Chi ti ha parlato di me? Chi mi accusa? Che ti fu detto?
Maurilio pose una di quelle sue grosse manaccie sulla spalla del compagno, e gli disse con accento mesto insieme e grave, come potrebbe avere per un fratello un fratello maggiore, quasi direi per un figliuolo un padre.
– Gian-Luigi, io t'ho amato molto, ed alcune volte nella solitudine in cui vivo, riandando il passato, le poche dolci memorie che ho di esso mi richiamano te alla mente, quale hai meco vissuto allora; e parmi sentirti nel medesimo luogo tuttavia entro il mio cuore. Al cominciare di questo colloquio tu hai fatto appello a cotali ricordi, ed io, a dispetto della freddezza, dell'assoluta indifferenza che mi ero imposta di aver sempre omai a tuo riguardo…