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Il peccato di Loreta
Il peccato di Loreta

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Il peccato di Loreta

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Il professore Mattia di tutto ciò provava in certi giorni un vero dispetto. Si domandava come mai un uomo del suo stampo, un uomo forte, uno scienziato tagliato all'antica, poteva lasciarsi vincere da così stolte inquietudini. Egli che aveva sempre sorriso cinicamente a sentir narrare certe debolezze degli uomini: egli che non era mai riuscito a spingere più in là delle dieci pagine la lettura di un romanzo! Sciocchezze, sciocchezze! Puerilità belle e buone, che bisognava saper vincere. Altrimenti c'era da vergognarsene davvero!

E da allora in poi mise quasi uno studio ad ostentare verso Loreta una allegra disinvoltura. Se il più lieve adito gli era offerto, non lasciava di metter fuori, con grande stizza della signora Chiara, i suoi predicozzi di filosofo per il quale la vita non ha più sorrisi. Si compiaceva a dirsi vecchio, a mostrarsi privo d'ogni illusione, a darsi delle pose di studioso infaticabile, assorbito interamente dalla passione de' libri.

Ma molte volte non ci riusciva. Una parola, un gesto, una frase, lo tradivano. E per un momento sembrava che gli sfuggisse la coscienza della parte di commedia che imponevasi di sostenere.

Così fu specialmente in un giorno memorabile, al principio di aprile, nell'occasione di una gita, che la signora Chiara aveva progettato da molto tempo di fare in unione alla Lambertenghi, e che sempre si era dovuto rimandare o per la stagione poco propizia, o per la salute malsicura della signora.

Si trattava di una visita ad un antico palazzo, posto sulla riva destra del torrente Cormor, non lunge dal colle di Fontanabona, e del quale avevano avuto adito di parlare molto sovente nel corso della precedente invernata. Questo palazzo era una curiosità del paese, e il professore Sant'Angelo ne aveva fatto anche soggetto di un'interessante dissertazione storica, pubblicata alcuni anni innanzi dalla Rivista archeologica italiana.

A giudicare da una lapide mezzo corrosa, immurata sotto l'arcata dell'ampio portone, l'edificio doveva essere stato eretto sul principio del secolo decimosettimo da un nobile udinese, sulle rovine di un'antica chiesetta fondata verso il 1330 dal patriarca Bertrando di San Genesio, sfuggito in quel luogo, quasi miracolosamente, da un'imboscata tesagli dagli armati di Rizzardo da Camino. Era una fabbrica solida e tetra, con due torri rotonde piantate agli angoli della facciata, nella quale aprivansi, fra i ricami dell'edera, otto grandi veroni sormontati alternatamente da stemmi gentilizi e da mascheroni chimerici. All'edificio principale addossavasi una specie di padiglione basso, di costruzione moderna, senza gusto di stile, abitato ora dalla famiglia del gastaldo. Innanzi all'ingresso principale del palazzo un'ampia braida, tenuta male, estendevasi in forma di un rettangolo, mostrando, sotto la invasione delle erbe alte, le tracce degli antichi vialetti disegnati capricciosamente, mentre di mezzo ad alcuni cespugli di bosso sorgevano quattro o cinque statue mutilate di deità campestri. Intorno, giù per i fianchi digradanti della collina, macchie di querciuoli, grappi diffusi di piante basse, cresciute liberamente: poi, giù a' piedi, di là dal letto petroso del Cormor, asciutto talvolta per lunghi mesi, la distesa vastissima delle piantagioni di sorgo, di trifoglio, d'avena, chiuse fra le file regolari dei gelsi e frastagliate dalle linee candide de' sentieri.

Il palazzo era da molti anni disabitato. Assai di rado quando qualche forastiere veniva a visitarlo, il gastaldo andava ad aprire le griglie verdi dei veroni. Del rimanente il vecchio fabbricato conservava il suo aspetto di solitudine. Lo spazioso cortile dormiva in una grande calma claustrale. E soltanto verso la fine di ottobre, quando i contadini venivano a portare al gastaldo le loro derrate, animavasi per alcuni giorni, fino a che durava tra chiassose discussioni la consegna del grano, delle frutta e del vino.

L'amministrazione era affidata dall'attuale proprietaria-una ricca signora veronese, maritata in Londra con un alto funzionario della corte-ad un avvocato di Udine, che solo due o tre volte all'anno faceva una visitina al gastaldo per la regolazione dei conti. In paese la padrona del castello era del tutto sconosciuta, e solo sapevasi che quel possedimento era venuto in sue mani per ragioni di eredità, quale unica parente superstite della famiglia dei Morò-Casabianca, cui il palazzo e le terre circostanti avevano appartenuto fino dal principio del secolo passato.

L'ultimo dei Morò-Casabianca, che aveva abitato il castello, era stato il conte Sebastiano, e durava in tutto il circondario la memoria di questo gentiluomo, il cui nome era congiunto ad un doloroso dramma domestico, intorno al quale la fantasia dei contadini aveva immaginato le più bizzarre leggende.

–La storia dei Morò-Casabianca bisogna sentirla non già dal mio figliuolo, – diceva la signora Chiara a Loreta Lambertenghi, – perchè quello lì non vuol saperne di certe poesie. Bisogna chiederne alla vecchia Mariute, la nonna del nostro Agnul, che è nata nel palazzo e ci vive da ottanta anni…

–Eh! grazie tanto! La vecchia Mariute ve ne racconta di quelle! – soggiungeva il professore. – È una povera matta che sogna ad occhi aperti.

La signora Sant'Angelo sorrideva anche lei. Ma tentava tuttavia di difendere questa vecchierella, ch'era tra le sue protette. Ogni anno per Natale, poi al principio dell'estate, aveva l'abitudine di mandarle qualche oggetto di vestiario e qualche quattrino. E la vecchia contadina, ch'era un po' parente alla famiglia del gastaldo e viveva in una casetta colonica presso il palazzo, gliene serbava la maggiore riconoscenza.

La gita al palazzo Morò-Casabianca la fecero in un bel pomeriggio di aprile partendo di casa verso le due ore. Nel carrozzino guidato da Agnul avevano preso posto la signora Chiara e Loreta. Il professore Mattia precedeva in un altro legnetto col conte Leonardo Mangilli, che aveva voluto essere della partita anche lui.

Il Mangilli era quel giorno di allegro umore, e durante la gita non aveva lasciato un momento di scherzare:

–Oggi, professore mio caro, non vi sembrerà vero di montare in cattedra e di tenere la vostra brava lezione di archeologia ad un pubblico tanto gentile. Ah! professore fortunato!

Ma il Sant'Angelo era tutt'altro che in vena di scherzi. E a quelle allusioni tagliò corto bruscamente, mostrando con tutta chiarezza che non gli piacevano affatto.

La visita al palazzo interessò vivamente Loreta. Il gastaldo, visto appena il professore, era venuto con molta premura a porsi agli ordini degli ospiti e gli aveva guidati nel giro dell'edificio. Avevano percorso ad una ad una tutte le vaste sale dai soffitti affrescati, arredate di antichi mobili massicci recanti lo stemma del casato; eran saliti per le ripide scale a chiocciola negli stanzoni delle due torri, nudi, spogli, freddi per l'aria frizzante che entrava dalle finestre ogivali, munite di grosse inferriate. Poi, più a lungo, eransi fermati in un salotto, nell'ala meridionale della fabbrica, ricco di particolare interesse per le molte curiosità storiche che racchiudeva.

Era una stanza spaziosissima rischiarata da tre grandi veroni, prospicienti sulla vallata del Cormor; ma tetra, coll'enorme camino dalla cappa adorna di barocche sculture, e co' suoi mobili di noce, dalle sagome severe, coperti di antico broccato veneziano. Sulle pareti spiccavano, chiusi in nere cornici, quattro grandi dipinti storici, attribuiti, per il loro carattere di correttezza belliniana, a qualche pittore del 500, uscito dalla scuola di Pellegrino da San Daniele. In essi il fondatore aveva voluto fossero raffigurati i momenti principali della vita del prode Bertrando di San Genesio: la disfatta di Rizzardo da Camino sotto le mura di Sacile, la consacrazione della chiesa maggiore di Venzone tolto a' Goriziani, l'erezione del castello di Moscardo a tutela delle valli carniche, e il soccorso dato a' poveri dal pio patriarca nella carestia che afflisse il Friuli nel 1348. – In un angolo, sopra una colonna di legno scolpito, un busto in marmo, opera non priva di merito artistico: l'effigie del conte Sebastiano, l'ultimo dei Morò-Casabianca.

Lì il gastaldo gli aveva invitati a riposarsi dopo avere avanzato per le signore due delle vecchie sedie a bracciuoli presso i grandi veroni. Il conte Leonardo celiava intanto col professore intorno al pregio di questi logori "nidi di talpe" ai quali nella sua posa d'uomo utilitario negava qualsifosse attrattiva. Poi il discorso era caduto, naturalmente, sulle vicende dei Morò-Casabianca.

–La leggenda del castello!.. – esclamò il Mangilli accentando colla voce grossa questa frase melodrammatica.

–Me ne dispiace per voi, conte mio, ma non è leggenda niente affatto. Pura storia e tragica anche troppo…

E la riepilogò brevemente.

La storia era del resto semplicissima. L'ultimo abitatore di quel palazzo, il conte Sebastiano Morò-Casabianca, gentiluomo campagnuolo vissuto con fedeltà rigorosa secondo le tradizioni de' suoi maggiori, dividendo il proprio tempo tra utili studî di economia rurale e tra le cure inerenti a' suoi beni, si era, quando già aveva varcati i quarant'anni, ammogliato ad una bella e ricca giovane del Trevigiano, una contessa Elti di Fontebasso: nobiltà antica e famiglia che godeva di larghe aderenze così per il censo come per le cospicue parentele. La contessa era ricordata da tutti nel paese: una figura superba dall'occhio altiero, che vedevano passare spesso a cavallo per i lunghi stradoni polverosi, bellissima nell'abito di amazzone, che faceva risaltare la correttezza stupenda delle sue forme. Si narrava dell'amore intenso, appassionato, ardente, che il conte Sebastiano aveva per la moglie: viveva per lei, circondandola di tutte le premure di un culto idolatra. Ma la donna mancò a' suoi doveri. Anima abbietta ascosa in una forma divina, sentì presto il peso de' propri legami e li franse ignobilmente, con uno di quei tradimenti codardi, che tolgono alla colpa ogni scusa. Il dramma s'era preparato lentamente, pazientemente, fino alla sua scena capitale. Una notte, eludendo la tranquilla fede del marito, la contessa Eleonora se ne fuggì dal paese, in compagnia di un volgarissimo amante, verso terre lontane. Il dolore atterrò il conte Sebastiano. Ferito mortalmente nella dolcezza de' suoi affetti come nella onestà purissima delle tradizioni domestiche, egli si chiuse in una melanconia cupa, facendo ogni sforzo per sottrarre alla triste curiosità della gente i particolari strazianti della sua sventura. Della contessa Eleonora non si seppe per lungo tempo novella; poi ad un tratto corse confusa la voce che dopo una vita di libertinaggi disordinati ella fosse morta improvvisamente in una stazione balneare dell'estero, a Scheveningen o a Biarritz. Sebastiano non si confidò ad alcuno, ebbe a disprezzo ogni mendicata commiserazione. Una mattina, il domestico entrando nella stanza di lavoro del conte, – la storica stanza dai vecchi quadri, che gli era particolarmente diletta, – lo trovò riverso nel seggiolone, colla fronte insanguinata, freddo, con una rivoltella scarica a' piedi…

–È una storia assai lugubre! – disse Loreta Lambertenghi quando il professore ebbe finito.

–Un fatto diverso, come se ne leggono cento ogni giorno! – aggiunse con un risolino ironico il conte Leonardo.

–Un fatto commovente ad ogni modo; questo me lo concederete.

–Commovente, secondo i gusti. Io direi piuttosto istruttivo.

–Figuriamoci: una morale a vostro modo…

–Sicuramente, una morale, di cui io ho principiato ad approfittare per mio conto. Ed è questa: che con quarant'anni sulla gobba si commette la più grande corbelleria a lasciarsi pigliar dall'amore. Poi, beato chi è solo; quanta pace di più!

–E quante gioie di meno! – esclamò subito la signora Chiara, alla quale le sortite pessimiste del Mangilli avevan sempre irritato i nervi. – Il conte Leonardo dice così per dire: è il primo lui a non pensarlo… "E quante gioie di meno" lo ripeto!.. È vero: ci saran delle donne cattive, leggiere, senza cuore. Ma ve ne hanno anche di quelle che sono la pace, la provvidenza, la letizia di una casa…

–Mosche bianche, signora mia. E sì trovano tanto di raro!..

–Non tanto, non tanto! Basta saper cercare, basta saper aprire gli occhi e leggere un pochino nei cuori…

Dicendo così, la signora Chiara, fissa sempre nel pensiero che ormai non la abbandonava più, piantò i suoi sguardi nella faccia del professore; poi cercò gli occhi di Loreta.

Il professore sforzavasi indarno di mostrarsi indifferente; Loreta guardava fuori lo splendido spettacolo del tramonto che accendeva d'un bagliore croceo la linea dell'orizzonte.

–Il povero conte Sebastiano se fosse qui ad udirvi non vi darebbe ragione, signora mia!..

–Il conte Sebastiano è stato uno sfortunato. Che vuol dire per questo? Che tutti debbono essere sfortunati come lui? No, no e poi no! – insisteva animandosi la signora. – Queste sono idee pericolose, di gente senza fede. Sapete quale è stato il torto del conte Sebastiano? Quello di aver voluto finire in tal modo. Quella donna non valeva davvero il sacrificio della sua vita. Sono esaltazioni da romanzo, codeste!..

–Sarà vero, cara mamma, quel che tu dici. Ma con tutto questo mi par pure che per il conte ci sia una scusa. Era accecato. Era crollato intorno a lui tutto quanto. Io mi metto ne' suoi panni e lo capisco. O amare così o non amare affatto!

Nel profferire queste parole il professore Mattia era seriissimo e la sua voce rivelava la profonda convinzione.

La signora Chiara si levò allora, con un po' di dispetto, contrariata, dal suo seggiolone:

–Già, già: siete tutti d'accordo! Una bella declamazione anche la tua!..

Il professore si mise a ridere:

–È assai buffa, non è vero, una declamazione di questo genere sulle mie labbra? Ma mi ci avete tirato voialtri proprio per i capelli!..

Proseguendo indi lo scherzo uscirono dal palazzo che già il sole era scomparso. L'aria era fresca. Nella luce rosea del crepuscolo una leggiera nebbiolina alzavasi dalle valli, lungo il piede delle Carniche, avvolgendo come in un velo i bianchi villaggi lontani.

Nello scendere lo stradone che conduceva alla strada maestra, i visitatori passarono dinanzi al gruppo delle case coloniche, costrutte al di là dell'ampia braida. Le porte erano quasi tutte aperte e le piccole cucine affumicate, in cui le donne apprestavan la cena, apparivano rosse al guizzare delle grandi fiammate accese sui bassi focolari. Sulla soglia di una di quelle casette, una vecchia stavasene seduta sur un banco di pietra, coi gomiti sulle ginocchia e la testa raccolta fra le palme.

La signora Chiara la riconobbe, si fermò un istante e la salutò coll'affettuosa espressione dialettale, che è d'uso comune in tutta la campagna friulana:

Mandi, Mariute. Come va?

La vecchia si scosse, si levò in piedi e ravvisando la signora Sant'Angelo:

Mandi, signori. Va poco bene. L'inverno è stato assai cattivo…

La Sant'Angelo stette ad udire benevolmente le lamentazioni della vecchia dicendole qualche parola di conforto.

Era un tipo spettrale: alta, magrissima, con una faccia ossea e due grosse ciocche di capelli arruffati, ricadenti dalla fronte, sotto le pieghe di un fazzoletto giallo, gettato sul capo.

–Nonna Mariute, – disse il conte Leonardo avvicinandosi anche lui col suo abituale tono di canzone, – e come va colle vostre storielle? È tornato il conte Sebastiano?

La vecchia lo fissò coi suoi occhi grigi, illuminati da uno strano bagliore:

–Il signor conte mi burla, lo so bene. Ma non importa: quello che è vero è vero. Sì, il signor conte Sebastiano è tornato ancora. Torna sempre nelle notti di temporale, là su quel balcone: l'ho visto passare io venti volte, pallido, colla lunga barba, col volto pensieroso, là…

E accennava col dito verso la mole bruna del palazzo, segnando il balcone della stanza, in cui l'ultimo dei Morò-Casabianca era morto.

Loreta non potè a meno di gittare uno sguardo da quella parte, come suggestionata dalle fantastiche parole della vecchia.

Nel tornare a casa parlarono poco. Tanto la signora Chiara, quanto Loreta, parevano dominate da una particolare preoccupazione.

Quella notte la Lambertenghi dormì di un sonno irrequieto, nel quale più volte le apparve, così come la vecchia contadina l'aveva descritta, la immagine torva e melanconica del gentiluomo suicida.

VI

I primi mesi dell'estate passarono bene. Fu verso il settembre che un fatto penoso venne a turbare la pacifica vita della famiglia Sant'Angelo.

Era già da gran tempo che la signora Chiara non godeva più della sua antica salute. Le più brevi passeggiate la stancavano fortemente e, causa il progressivo indebolirsi della vista, aveva dovuto tralasciare del tutto di occuparsi di qualsifosse lavoro d'ago e della lettura. Ma la signora Sant'Angelo, obbedendo alla sua vecchia tempra coraggiosa, non voleva essere ammalata e de' suoi acciacchi aveva più e più volte fatto argomento di scherzi col figlio e con la nipote.

Una sera di settembre, mentr'era seduta nel suo seggiolone, ascoltando la lettura, che Loreta le faceva secondo il solito, del Giornale di Udine, chiuse ad un tratto gli occhi lasciandosi sfuggire un gemito e sarebbe caduta a terra se la giovane rapidamente non fosse sorta a sostenerla.

Accorso subito alle grida di Loreta il professore Mattia, questi, bianco in viso come un cadavere e col presentimento di una sventura, fece del suo meglio per far rinvenire la madre, mentre si correva precipitosamente al paese alla ricerca del medico.

La signora Chiara ricuperò il sentimento e trovandosi fra le braccia di Mattia, si sforzò di sorridere, ma solo a stento pervenne ad articolare poche parole:

–Non vi spaventate. Non è nulla… proprio nulla.

Ma il medico, giunto senz'indugio, ritenne dover suo d'onest'uomo di non tenere celata al professore la verità. Era stato un insulto apoplettico quello che aveva colpito la signora: lieve per fortuna e tale da non dare peranco luogo a timori di una imminente catastrofe: le estremità inferiori eran però paralizzate del tutto e, attesa la tarda età dell'ammalata, il caso si presentava ad ogni modo grave abbastanza.

Alle parole confortatrici del medico, Mattia non credette. Tutte le terribili conseguenze di una disgrazia si delinearono prontamente con crudele evidenza nel suo pensiero. Alla possibilità di perdere la sua adorata madre non aveva mai potuto riflettere. Ora, dinanzi a questa minaccia, egli sentì fiaccate tutte le proprie forze.

Ma la speranza rinacque ancora. A poco a poco la signora Chiara parve riaversi. La parola che nelle prime settimane, dopo la sera fatale, le usciva con un po' di stento dalle labbra, si rifece limpida e spedita; le idee si mantenevano ordinatissime e precise. Soltanto gli occhi servivano ben poco alla signora e le gambe potevano dirsi interamente perdute.

Il medico aveva incorato Mattia a consolarsi.

–Vostra madre vi rimarrà ancora per molto tempo. Con assidue cure è anche sperabile di poter ottenere un qualche miglioramento. La cosa principale è quella di averla strappata alla morte.

Il professore aveva alzato gli occhi al cielo con uno slancio di contentezza.

–Ah! sì! purchè non me la portino via! purchè io la veda, purchè io la sappia vicina a me!

La sua caldissima pietà filiale gli metteva sulle labbra tali parole. Ed era un sentimento di perdonabile egoismo al quale quest'uomo semplice e buono obbediva nel pronunciarle.

Ma la vita, cui la povera signora Sant'Angelo trovavasi ormai condannata, era per certo peggiore d'ogni morte.

Stremata di forze, per intere settimane non poteva abbandonare il letto. Passava notti angosciose, insonni o tormentate da incubi penosi. Ne' giorni buoni, quando la temperatura era mite e il medico aveva dato il suo consenso, la adagiavano sopra una grande poltrona, in cui rimaneva, colle gambe ravvolte in una grossa coltre, per qualche ora.

In pochi mesi ella fu ridotta pressochè irreconoscibile. Il suo corpo sempre magro s'era quasi ischeletrito; la pelle del viso s'era fatta grinzosa e di un pallore cadaverico; paralizzata dal male ne' suoi movimenti, aveva una necessità di cure continue, tanto che quando lasciava il suo letto conveniva recarla a forza di braccia fino al seggiolone.

A tutto ciò attendeva Loreta, forte, instancabile, paziente. Amorosa come una figlia, come un angelo, resistente ad ogni strapazzo, ella non lasciava neppure per un momento la signora Chiara. Dormiva accanto a lei, nella stessa stanza, molte notti senza spogliarsi, attenta ad ogni chiamata. Quella vita di fatiche la sfiniva. Le tracce della stanchezza si dipingevano sul suo volto. Ma rifiutava con risolutezza ogni osservazione.

Una volta il medico, profondamente impressionato, ne aveva tenuto parola al professore Mattia.

–Bisogna provvedere. Questa giovane fa dei miracoli. Ma le forze di uno valgono per uno. Se continua così si ammalerà anche lei.

E propose di far venire una suora dall'ospitale di Udine.

Quando Loreta udì questo, protestò energicamente. Non lo avrebbe permesso mai più. Non temessero per lei: si sentiva forte; era giovane, non soffriva punto: anzi era per lei una dolcezza il sentirsi utile, il potersi mostrare grata alla sua benefattrice. D'altronde, qualunque disposizione avessero presa, sarebbe riuscita dispiacevole anche alla signora…

Ed era vero. L'ammalata non voleva che Loreta. Qualunque cura le fosse resa da altri di casa, la uggiva e la rendeva malcontenta. Nelle sue veglie, nelle ore in cui era assalita da' suoi dolori, ne' momenti in cui il male pareva aggravarsi, non chiamava che Loreta. La voce di lei la pacificava, la mano di lei posata sulla sua fronte pareva le inducesse la calma nello spirito.

–Loreta… – le aveva detto un giorno che si sentiva un po' meglio e l'avevano posta nel suo seggiolone, accanto alla finestra aperta per la quale entrava il salubre profumo della campagna, – Loreta, tu sei per me più buona d'una santa. Che cosa mai potrei io fare per mostrarti la mia riconoscenza?

La giovane aveva risposto, con un sorriso che illuminò la sua bella faccia magrissima:

–Che cosa dite, signora! Io faccio il mio dovere: nulla più. Sono felice nel farlo e sono sicura che Dio mi accorderà la grazia di vedervi presto guarita.

–Guarita!

La vecchierella alzava gli occhi, che più non discernevano, verso il cielo, seria, con un tremito cupo nella voce:

–Guarita!..

E la testa bianca le ricadeva sul petto, gravemente, mentre una lagrima scorreva grossa tra le rughe del suo povero viso.

Perchè, se nella signora Sant'Angelo il male aveva infrante le forze, lo spirito conservava la sua pura e serena limpidezza, interamente. E quelle immagini che già da lungo tempo la assediavano, ora le apparivano dinanzi con più penosa e sinistra evidenza.

Una volta che don Letterio Prandina era venuto da Udine per visitarla, – come del resto negli ultimi tempi faceva con molta frequenza, – la vecchia signora si lasciò andare con lui ad uno slancio di confidenza.

–Vedete, don Letterio, tutti quelli che mi circondano vanno a gara perchè io non possa accorgermi del mio stato… Io mi sforzo di far credere a tutti ch'essi riescono nel loro intento. Ma non è così. So che i miei giorni sono contati. E attendo senza timori che Dio mi chiami. Ma il mio povero Mattia… lasciarlo, lasciarlo così!

Don Letterio aveva procurato di consolarla con dolci parole:

–La Provvidenza non abbandona mai i buoni! Anche Mattia troverà un giorno la sua felicità!

–Avete ragione, Prè Letterio: la provvidenza c'è, c'è per tutti. E bisogna sperare. Ah! se io potessi sperare che Loreta resti per sempre accanto al mio figliuolo…

–Se questo sarà il volere di Dio…

Prè Letterio troncò così quel discorso. Egli comprendeva perfettamente quale sentimento di bontà inspirava il voto della signora Sant'Angelo. Era un sentimento a cui egli con tutto il suo cuore applaudiva. Ma da uomo pratico del mondo e della vita una riflessione lo sopraffaceva. Ed era quella della gravità grandissima che quel fatto avrebbe potuto avere nell'esistenza del professore: gravità che quella madre amorosa, sotto l'impulso della sua passione, era ben lunge dal poter misurare.

La signora Sant'Angelo si acquietò alle parole del vecchio amico, limitandosi a commentarle con un lungo sospiro, nel quale ella poneva tutto il fervore della sua anima piena di fede. E per alcuni giorni non toccò più con alcuno quell'argomento.

Ma il suo stato di prostrazione andava aumentando con rapido ed allarmante progresso. Distesa nel suo lettuccio, colle spalle affondate ne' cuscini, rimaneva ormai lunghe ore immobile, cogli occhi chiusi, colle mani piccole e bianche raccolte sullo scarno petto. Loreta le stava accanto continuamente. Mattia, nervoso, col volto pallido, andava e veniva per la stanza, girandosi spesso a sedere in un angolo, donde fissava, cogli occhi ardenti, intensamente, la sua cara ammalata, in una espressione di alto ed appassionato dolore. Quando poi la signora ridestavasi e chiamava, accorreva al suo fianco, tergendosi rapidamente le lagrime; e più di una volta Loreta doveva trattenerlo, perchè nell'impeto suo, non desse a comprendere alla sofferente lo stato di angoscia in cui egli si trovava.

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