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I rossi e i neri, vol. 2
Nè di ciò solo si lodavano i Templarii, ma ancora, del poco spendere. Uno tra essi, ai predicozzi del babbo, che era venuto dal borgo natale per pagargli i debiti, poteva dir di rimando:
– Di che vi lagnate, padre mio? Domandatene a quanti mi conoscono, e tutti vi diranno che vivo con una lira al giorno.
– Ah sì, con una lira? E il resto va tutto in libri, lezioni e limosine, non è vero?
– No, padre mio; non sono tanto ricco da far limosine; lezioni particolari non ne prendo, e i libri non li pago.
– Sentiamo dunque dove va il tuo denaro.
– Ecco, cinquanta centesimi tra assenzio e caffè… Voi vedete che non è molto! poi, trenta centesimi di sigari, venti di giornali; tutto sommato, è una lira.
– E il pranzo, manigoldo? E la cena, e le male spese?
– Ah! tutto ciò, padre mio, entra nel conto della notte. Io vi dicevo quello che spendo al giorno, e certo non troverete che sia molto. —
Buona pasta di giovani, quei Templarii! Si riscaldavano per una questione di politica, d'arte o di scienza, come tanti e tant'altri per far roba e quattrini; si ficcavano animosi in ogni ginepreto, col medesimo ardore che altri metterebbe a cavarsene. Non c'era forma, non delicatezza d'intelligenza, a cui fossero o volessero rimanersi stranieri; e tutto ciò senza sussiego, senza pedanteria, senza sforzo. In una città mercatante e affaccendata come la loro, essi erano gli ospiti cortesi, i cerimonieri, i ciceroni volenterosi, di quanti giungessero, artisti, letterati, giornalisti, scienziati d'altre parti d'Italia, anzi d'Europa a dirittura, per visitare la regina del Tirreno. Parecchi di questi signori confessarono ai Templarii, dinanzi a un piatto di dàtteri di mare, che avevano molto sbadigliato il mattino, in compagnia di certi incravattati e stecchiti arcifanfani. Qualche gran diplomatico, ristucco delle visite ufficiali e dei pranzi di gala, respirò liberamente in mezzo ai notturni cavalieri, e dichiarò ad alta voce, tra due sorsate di Barbèra (oh, indimenticabile Sir James Hudson!) che gli Italiani valevano assai più dei loro rispettivi governi.
E insieme con questi giramondi, quante lezioni improvvisate di storia, alle tre dopo la mezzanotte, sulla piazza di Sarzano, o sotto la torre del palazzo Ducale! Quanti aneddoti archeologici, quante cronache gentilizie, sul ponte di Carignano, sugli scalini della Malapaga, e giù per lo Stradone di Sant'Agostino! quante cicalate intorno all'architettura bisantina, araba e lombarda, sulla gradinata di San Lorenzo, e in groppa ai leoni del Rubatto!
Nè mancavano le pazzie, che anzi erano frequenti, e non sempre argute. Lo seppero i cartelloni tondi del teatro Carlo Felice, che spesso andarono a far bella mostra di sè, e ad annunziar la serata della Bendazzi, o della Pochini, in luogo della solita __Indulgenza plenaria__, ai divoti di Sant'Ambrogio. Lo seppero i carri della spazzatura, che più volte ruzzolarono, con grande frastuono, giù per la via Carlo Felice, portando in trionfo qualche Pollione, o qualche conte di Luna, costretto la sera di poi ad omettere la sua cavatina. Lo seppe troppe volte il portone della casa al numero 5 in via Carlo Felice, fatto a due battenti, i cui picchiotti, in forma di S, e girevoli, si incrocicchiavano con bel garbo l'uno sull'altro, per modo che le fantesche mattiniere non potevano più uscire di casa, se qualche pietoso viandante non si faceva a rimuover l'ostacolo.
Ne tralasciamo, per amore di brevità, molte e molte altre, che ai Templarii parevano belle invenzioni, ma non garbavano punto, come s'intenderà facilmente, ai cittadini che avevano necessità di dormire. Accenneremo soltanto, a mo' d'esempio, certe prediche strambe, piene zeppe di frasi senza costrutto, di testi latini citati a rovescio, che or l'uno or l'altro degli allegri compagnoni andava facendo all'uditorio, dall'alto del muricciuolo di piazza Giustiniani, facendosi mandare al diavolo da tutto il vicinato. La predica finiva, per solito, in un battibecco tra l'oratore e qualche pacifico cittadino, che si affacciava stizzito alla finestra, esponendo il suo berretto da notte alle omeriche risa della brigata. E guai al pacifico cittadino, se gli avveniva di gridare che la notte è fatta per dormire; perchè l'oratore era pronto a rispondergli coi sacri testi alla mano, che chi dorme non piglia pesci, che quello era tempo di far penitenza e non di starsene in panciolle, che bisognava vegliare e pregare per non essere indotti in tentazione, e via discorrendo.
Non erano belle cose certamente, ma bisogna condonarne qualcuna a una gioventù per tanti altri rispetti nobilmente operosa. Paragoniamo, verbigrazia, i Templarii con la società del Parafulmine, che già i lettori conoscono. Questa era il frutto di una educazione viziata, in mezzo a tempi di servitù politica, a esempi di abbiettezza morale; tristo era l'intendimento e malvagie le opere. I Templarii ci avevano i loro difettucci, come il sole ci ha le sue macchie, come il cielo più sereno ci ha le sue nubi; queste nubi, queste macchie, questi difettucci dei Templarii, non erano altro che sovrabbondanza di vita, impeto di giovanile baldanza. Erano scapati, ma generosi, ma buoni; la consuetudine dei loro ritrovi amichevoli, dove le donne erano proibite come le pistole corte, dove non si ammetteva che alcuno si lasciasse sopraffare dal vino, dove insomma non era nulla che potesse far degenerare in una stupida orgia il geniale simposio, era un continuo ricambio di pensieri, che allargava i cuori, che aguzzava gl'ingegni. Quell'assiduo stropicciamento scambievole d'arte, di letteratura, di scienza, di politica e di cavalleria, era, sotto apparenza di sollazzo, una palestra, una scuola pei congregati, un nobile esempio per tutti. In essi e con essi, sorse una generazione che poco tempo di poi aveva da rappresentare degnamente Genova, la mercatante, la marinara, nel risorgimento politico e intellettuale della nazione. E questo avvenne facilmente, naturalmente, sebbene i Templarii non mirassero in particolar modo a professioni di fede, e non si guastassero il sangue per dimostrare che la libertà, il progresso, eran ristretti in questo o in quel partito, incarnati in questo o in quell'uomo.
Combattevano per la verità; si commovevano per ogni cosa che lor paresse generosa e in tempi non ancora maturi per opere di maggior conto, tenevano acceso il fuoco sacro, custodivano il palladio, portavano nei loro cuori le speranze del futuro. Si venivano, intanto, esercitando in parziali combattimenti, rendendosi utili in isvariate occasioni, partecipando a parecchie di quelle coperte guerricciuole in cui si manifesta la vita di una città, rompendo talvolta le uova nel paniere ai grossi mestatori, dando qualche mazzata ai bricconi, e qualche botta di terza o di quarta ai prepotenti.
E adesso che sappiamo chi fossero, vediamoli all'opera. Ma anzitutto, chiudiamo il capitolo.
VIII
Nel quale si disputa lungamente intorno all'origine della donna.
Siamo nella sala superiore della trattoria del Teatro. La sala del pian di sopra, che già abbiamo accennato, non troppo grande nè troppo piccola, par fatta a bella posta per quei cenacoli, di cui diamo un saggio al lettore. Arredata pulitamente, senza pretensione, fa buon viso ad ogni maniera di gente, purchè costumata. Vi si giunge per una scaletta, la quale ha due ingressi, l'uno nella sala a pianterreno, e l'altro nel vestibolo del teatro Carlo Felice.
Non è ancora suonata la mezzanotte, ma già i Templarii sono adunati. Una lucerna a gasse scende dal soffitto a illuminare la mensa; dalle tre finestre spalancate, per dar libero corso all'aria, si spande l'acciottolìo de' tondi e de' bicchieri, il suono delle voci e delle risa festevoli dei commensali, che sono tredici in punto (nè l'hanno per malo augurio) intorno ad una tavola, a cui il rinforzo di due tavolini sui lati minori ha dato la forma della più smilza tra le cinque vocali.
I dieci Templarii, gli autentici, non c'erano tutti; ma ai due che mancavano, supplivano cinque ausiliarii. Tra i primi si notava Mauro Dodero, vecchia conoscenza dei nostri lettori, il quale non aveva raccontata ancora la sua famosa storia d'Ocuenacati ai congregati epuloni di Quinto; Mauro Dodero, a cui la gran barba bionda, già largamente frammista di fila d'argento, aveva fatto ottenere più agevolmente il titolo, d'altra parte meritato, di gran maestro dell'ordine. Gli sedeva daccanto Marcello Contini, quell'allegro giovinotto che, nove anni di poi, doveva morire, glorioso uffiziale dei Carabinieri genovesi, sulle contrastate alture di Montesuello, e che allora era noto al sesso debole per la maschia bellezza della persona, agli amici per la smania di cantare senza azzeccarne mai una, a tutti per l'ottimo cuore, per la schietta cortesia dei modi, posta maggiormente in rilievo, anzichè scemata, come in tant'altri avviene, dagl'impeti di una bollente natura.
Marcello, povero amico! Tu eri de' buoni: perciò, come tanti altri buoni, sei morto nel fiore degli anni. La gran mietitrice che «fura i migliori e lascia stare i rei» s'è chiarita anche con te fedele al costume, e ti ha volto sull'ampio torace il piombo sibilante d'un cacciator tirolese, in quella che tu andavi canticchiando a tuo modo, tra il fischio delle palle e il rombo delle artiglierie, la canzoncina inventata poche ore innanzi dai compagni, e incuorando i tuoi a snidare il nemico da una abbattuta di tronchi d'alberi, donde esso traeva liberamente sulle camicie rosse e sui bigi farsetti dei carabinieri genovesi. Marcello, povero amico! I nostri cuori battono più forte, ogni qual volta si rammenta il tuo nome; il tuo elogio funebre ben sopravvive alla cerimonia della sepoltura, se chi ti conobbe, e t'amò, tuttavia lo ripete.
Templario per eccellenza, era nel numero l'avvocato Emanuel, che diceva di far le sue pratiche nello studio dell'Orsini, e in cambio la faceva a letto, dove rimaneva più a lungo di chicchessia. Per contro, era l'ultimo a rientrare a casa, dopo avere accompagnati ai rispettivi usci tutti i suoi notturni colleghi.
C'era poi nella combriccola il Giuliani, quel giornalista universalmente accusato di non scrivere quattro periodi al giorno, poichè lo vedevano girandolar sempre da piazza Carlo Felice all'angolo della libreria Grondona. Il poveraccio aveva un bel lavorare e far miracoli; non c'era un cane che lo credesse. Egli stesso, così soverchiato dalla voce pubblica, aveva finito col credersi il più gran scioperato del mondo. Nè va dimenticato il Savioli, egregio dilettante di musica, che usciva qualche volta colla chitarra ad armacollo; nè il Lorenzini, il più grave dei matti, che Firenze dapprima e poi Roma ha rapito all'aria libera di Genova, per chiuderlo nella cella penitenziaria di un ministero. Peripezie della vita!
«__J'en passe et des meilleurs__» diremo con Ruy Gomez de Silva. Questi, ed altri che non nominiamo per non esercitare la pazienza dei nostri lettori, se ne stavano seduti a desco, incominciando allegramente la cena, intorno ad un maiuscolo piatto d'ostriche: le quali, lasciato il ruvido guscio nei tondi, andavano ad affogare in que' tredici stomachi sotto una pioggia di vin bianco delle Cinque Terre, che non teme confronto di Capri, nè di Sauterne.
– Lorenzini! – gridò il Savioli, che, sporto il braccio sulla tavola per metter mano al piatto, se lo vedeva portar via da quell'altro: – Tu inghiottisci più ostriche colle tue mascelle, che Sansone non uccidesse Filistei…
– Colla tua! – proseguì il Lorenzini, tra le risa dell'assemblea; e frattanto si trasse nel tondo un'altra dozzina di gusci pieni.
Tra Templarii la celia era permessa, anco se andasse un poco fuori di riga. Il Giuliani aveva messo fuori questa legge, che dopo le undici di sera non fosse più lecito aversela a male per cosa alcuna che altri dicesse. Però il Savioli si lasciò dare tranquillamente dell'asino, e tirò innanzi.
– Colla mia, o colla tua; fatto sta che ti piacciono maledettamente, le ostriche, e le mandi giù senza misericordia… per noi…
– L'ostrica, – sentenziò il Lorenzini, in quella che ne alzava una all'altezza delle labbra, – è la regina dei molluschi, ed io, quantunque acefala, non dubito di proclamarla superiore all'uomo.
– E alla donna per conseguenza; – notò l'avvocato Emanuel.
– Oh, questo poi, no!
– Sentiamo quest'altra! – disse capitan Dodero. – Il Lorenzini ha ancora più paradossi in corpo, che ostriche.
– La donna, – proseguì il Lorenzini, col suo piglio cattedratico, – è una cosa…
– Una cosa! – sclamò, interrompendolo, in atto di maraviglia, il Savioli.
– Una cosa, sicuro, una cosa che non patisce confronti, nemmeno col sole e coll'altre stelle, perchè essa è la cosa più divina dell'universo. E te lo provo, come due e due fanno otto.
– «__Io ti dimostrerò con belle prove__» – canticchiò Marcello Contini, dall'altro capo della tavola, – «__Che la terra si bagna allor che piove__.»
– Chètati, Orfeo! – gridò il Lorenzini. – Io dico e sostengo, anche se m'aveste a pigliare per un poeta, che la donna è cosa tutta divina, o poco meno. Ne ho veduta una, quest'oggi, in via Luccoli, per la quale darei, Dio mi perdoni, tutte le ostriche che sono ancora nel piatto.
– Bello sforzo! – esclamò il Giuliani. – Ce n'hai lasciate sette.
– Anzi, mi piglio anche queste, e proseguo. Credete alla Sacra Scrittura?
– Siamo gente battezzata! – rispose per tutti il gran maestro Dodero.
– Orbene, narra la Sacra Scrittura che Iddio in principio creò il cielo e la terra…
– __Avocat, passez le déluge!__
– Non posso, Giuliani; non posso uscire dalla Genesi.
– Tanto meglio, poichè, in tal caso, avrete posto mente che Iddio creò la terra, ogni specie d'animali, e l'uomo medesimo, colla grossa materia, contentandosi, per quest'ultimo, di soffiargli addosso.
– Sta bene; e che cos'è la donna, se non carne della sua carne?
– Adagio Biagio! L'ha detto Adamo, e per dire una corbelleria di quella fatta, poteva fare a meno di svegliarsi. Osso delle sue ossa, meno male, ed anche per una centesima parte.
– Tu stesso lo ammetti; – disse di rimando il Savioli; – la donna è fatta d'una costa dell'uomo.
– Bravissimo, d'una costa. Tu ti danni colle tue ragioni; ti aguzzi il palo sulle ginocchia. Notate bene, o signori; è fatta di una costa, carne od osso che sia, cioè a dire materia già ridotta e trasformata dalla volontà del Creatore. Sappiamo dunque che ella non viene direttamente dalla mota, come l'uomo, suo indegno vicino. Ora, poi, come potrebbe una costa pigliar statura e forma di donna, senza l'aiuto di un nuovo elemento?
– E l'aria? – dimandò il Savioli.
– Ah, tu credi, – proseguì il Lorenzini, – che sia stata gonfiata d'aria, come le bottiglie, o come i palloncini?
– E perchè no?
– Infatti, – disse il Contini, tornando a cantare.
La donna è mobileQual piuma al vento…– Sta zitto… Piave! e poni mente anche tu alle mie parole. La donna non ci ha di umano altro che la quantità di una costa, cioè a dire venti o venticinque grammi; il resto, cinquanta o sessanta chilogrammi, è tutto soffio di Dio. Io lo vedo, il Creatore, – proseguì con ardita ipotipòsi il Lorenzini, – soffiare sopra una mota di fango per far l'uomo, ma soffiar dentro a una costa per foggiarne la donna; l'unica cosa creata che contenga, checchè ne dicano i chimici, maggior parte di Dio. —
La chiusa del Lorenzini fu accolta dalla brigata con una salva di applausi.
– Peccato non ci siano donne ad udirti! – esclamò il giornalista Giuliani.
– Non siamo Templarii per nulla! – notò il Savioli. – Le donne se ne stiano da banda. Dov'è la donna, non c'è più libertà di parola; sottentra la cerimonia, o la passione; quella mette il bavaglio alla verità, questa soffoca il raziocinio. Ho detto – proseguì con burlesca gravità l'oratore – e non patisco osservazioni, perchè questa è la mia opinione.
– Sia bene o male – entrò a dire Mauro Dodero – poichè non ci sono donne tra noi, farò una variante alla storia del Lorenzini.
– Ne muta il senso? – dimandò questi.
– Press'a poco.
– Mi riserbo la facoltà di combatterla.
– Anzitutto, sentiamola; – disse il Savioli. – Capitano, hai la parola.
– Grazie tante; – soggiunse capitan Dodero; – ecco la variante. Il Signore aveva tolta la costa all'uomo. Fin qui la è storia conosciuta…
– Sicuramente; – interruppe il Giuliani; – «__immisit ergo Dominus Deus soporem in Adam: cumque obdormisset, tulit unam de costis eius, et replevit carnem pro ea__.»
– Tutto benissimo, salvo l'ultima frase! – ripigliò a dire capitan Dodero. – Il Signore aveva tolta la costa di Adamo ed era lì per farle quell'uffizio che ci raccontò il Lorenzini, allorquando fu veduto dalla volpe, che passava a caso da quella parte dell'Eden. Voi sapete meglio di me che gli animali erano già creati, quel giorno, e ciascheduno secondo la specie sua.
– Verissimo! – tornò a dire il Giuliani, che era forte di Sacra Scrittura, come i suoi colleghi del __Cattolico__; – Ed eccovi il testo che lo dice: «__Et fecit Deus bestias terrae juxta species suas, et jumenta, et omne reptile terrae in genere suo. Et vidit Deus quod esset bonum.__»
– Vuoi finirla. Giuliani, col tuo latino? – gridò Marcello Contini.
– Non mio, ma di san Gerolamo; del resto, ho finito.
– Meno male; ora, continua tu, Dodero, che parli in genovese, come Iddio comanda.
– E come difatti parlavano Adamo ed Eva, poichè la genovese è la prima lingua del mondo; – disse gravemente Mauro Dodero, pettinandosi la barba colle dita, come era suo costume. – Ora torno al racconto. La volpe adocchiò la costoletta, e, spiccato un salto, vi pose il dente, come se fosse roba sua, e il Signore non l'avesse tolta all'uomo se non per farne un presente a lei. Fu per tal guisa, come vedete, la prima costoletta mangiata a questo mondo.
– E allora? – dimandò il Lorenzini.
– Allora avvenne che messer Domineddio, volendo riavere la costoletta, sporse la mano per afferrare la volpe; ma siccome la volpe fuggiva, egli non fece in tempo a pigliarla pel collo, e non agguantò altro di lei che la coda. E qui, tira lui per un verso, tira quella per l'altro, accadde che al Signore rimase la coda in mano, e la volpe sguizzò lontana da lui, portandosi la sua preda tra' denti.
– E allora? io torno a dimandartelo, e allora?
– Allora, messer Domineddio, rimasto con quel negozio in mano, sorrise, e poichè di riavere il fatto suo non c'era neanche a pensare, fece in tal guisa i suoi conti: – «Abbiamo già tolta all'uomo una costa, e a levargliene un'altra gli si potrebbe recar troppo danno. Ora, poichè non possiamo fare la donna ad immagine dell'uomo, facciamola ad immagine della volpe». Detto, fatto; il Signore accostò la coda della volpe alle labbra, soffiò, fece la donna…
– __Et vidit Deus quod esset bonum;__ – soggiunse l'impenitente latinista Giuliani.
– Questo non so; – proseguì capitan Dodero, – la variante non lo dice. Questo so bene che essa ci chiarisce come e perchè la donna nascesse molto più astuta dell'uomo, e come il serpente trovasse il terreno già preparato, quando le entrò del negozio del pomo.
– È grossa, capitano, è grossa! – esclamò l'avvocato Emanuel.
– Che volete, amici? Non l'ho mica inventata io. Ve la racconteranno tutti i contadini di Quinto, dai quali l'ho raccolta, e che forse l'avranno avuta dal parroco.
– Fortuna per te, che non ci siano donne ad udirti! – gridò il Lorenzini, copiando a suo modo una frase del Giuliani.
– Che! in fondo in fondo, possiamo esser d'accordo, poichè tutt'e due ammettiamo il soffio di Dio. Quanto alle donne, esse potrebbero risponderci che tra una coda di volpe e una costa d'uomo non c'è poi quella gran differenza, da doversene dar briga.
– L'uomo è un brutto animale; non l'ho sempre detto io? – gridò il giornalista.
– Parla per te, Giuliani! – disse di rimando il Contini.
– Ah sì, scusate, dimenticavo… l'Apollo del Belvedere, – prosegui il Giuliani ridendo. – Ma, in fede mia, non avete notato voi altri che nella specie umana occorre tutto il contrario delle bestie? Tra esse, nessuna eccettuata, il maschio è più bello della femmina; uccello, ha più varietà di colori nelle penne, ciuffo e coda più appariscenti; leone, ha più criniera; tigre, ha più chiazze sul mantello, e va dicendo. Solo nella nostra specie avviene che la femmina è più bella, più graziosa ne' suoi contorni, più bianca nella sua carnagione, più elegante nelle sue movenze, più gradevole insomma a vedersi…
– E a toccarsi; – aggiunse il Contini.
– Sicuro, a toccarsi; e qui, parlo proprio per me! – conchiuse il Giuliani, tra le risa dell'uditorio.
Il Contini si disponeva a rispondere; ma in quel mentre capitan Dodero, che era seduto in capo alla tavola, colla faccia rivolta all'entrata, alzò la mano, in atto di trinciare una benedizione.
– Ah, ecco un renitente! – gridò l'avvocato Emanuel, volgendo gli occhi all'uscio.
– Il figliuol prodigo! – soggiunse il Lorenzini. – Ammazziamo il vitello grasso.
– Sul tardi mordono i mùggini! – disse il Giuliani, ripetendo un noto proverbio genovese, tolto a prestanza dai pescatori.
– Vieni, – cantò Marcello Contini,
Vieni all'amplesso estremoD'un genitor cadente;Il giudice supremoTi mandi…– Uno stuzzicadente! – interruppe l'Assereto, che era egli appunto il nuovo venuto, accolto con tanta gazzarra, dai radunati. – Il verso cresce, ma tu cali di mezzo tono, e i conti si pareggiano.
– Hai detto la verità, Assereto! – disse il Savioli. – Per te non c'è più altro in tavola. Chi tardi arriva male alloggia.
– Non ho appetito, io! Sono venuto per salutarvi e ragionare di cose gravi… se si può. —
IX
Dove si chiarisce la bontà del metodo induttivo.
– Se si può! – ripetè capitan Dodero. – Si può sempre, purchè se n'abbia voglia.
– Anzitutto, bevi! – soggiunse il Contini, mescendogli nel suo bicchiere.
– Le tue bellezze; grazie! – rispose l'Assereto, accostando il bicchiere alle labbra.
– E raccontaci che cos'è avvenuto di te, – entrò a dire il Lorenzini, – che non t'abbiamo più visto da due giorni.
– Lo saprete insieme colle cose gravi per le quali sono venuto stanotte.
– Ah, gli è vero: parliamone dunque, e subito.
– __Paulo majora canamus!__ – disse il Giuliani. – Eccoci ad ascoltarti. —
Ed egli, e gli altri tutti, si raccolsero nel più profondo silenzio per udire le cose gravi dell'amico Assereto. Questi non entrò subito in materia, e, fosse per meglio disporre gli animi a prestargli attenzione, o fosse per non dipartirsi da certe loro consuetudini di conversazione, si trattenne in quella vece a fare alcune dimande, in maniera d'esordio.
– Amici, – diss'egli gravemente, – siamo Templarii?
– Siamo! – risposero parecchi ad una voce.
– E da senno, s'intende, non già per modo di celia?
– Da senno.
– Deliberati, – proseguì l'Assereto, – ad operar di concerto, ogni qualvolta uno di noi abbia bisogno degli altri? Pronti a soccorrere i deboli contro i prepotenti, a sventare i maneggi degli imbroglioni, a romper le trame dei tristi, quando tornino a danno di noi, o degli amici nostri?
– Perdio! e lo dimandi? – gridò il Lorenzini. – Pronti deliberati, col senno e colla mano, in ogni caso, in ogni occorrenza.
– Orbene, qui abbiamo un caso, per l'appunto: il caso di una fanciulla che è sparita da casa sua, non si sa come, ma certo per opera di furfanti matricolati, e assai potenti per giunta, poichè i signori di palazzo Ducale non vogliono darsene briga, certo per tema di scottarsi le dita.
– Questo è pan pe' tuoi denti! – disse capitan Dodero, volgendosi al Giuliani. – Due paroline sul giornale, e poi si provino a star quatti!..
– No! – rispose il giornalista. – L'accusa sul giornale ha da lasciarsi pei casi disperati. Vediamo in cambio se non si potesse far meglio. —
Il consiglio del Giuliani dovette parer buono, perchè i colleghi di lui si fecero a chiedere all'Assereto che volesse raccontar loro per filo e per segno ogni cosa, e stettero ad udirlo con molta attenzione.
L'ottimo Assereto parlò forse mezz'ora, senza essere interrotto, narrando partitamente e minutamente tutto quel che sapeva; come il suo e loro amico Salvani avesse avuto mano nei rimescolamenti politici de' giorni innanzi; come avesse in casa sua una sorella adottiva; come fosse stato custodito fino a quel tempo in una cassettina d'ebano il segreto dei natali di lei; come un'apocrifa perquisizione rapisse la cassettina appunto in quell'ora che il Salvani metteva a repentaglio la vita e la libertà; come egli, fallito il colpo, si mettesse in salvo, e come la fanciulla, in quella notte medesima, abbandonasse la casa, tratta fuori da una dama sconosciuta che era andata a cercarla, in compagnia d'un vecchio, congiunto, amico, o servitore che fosse.