bannerbanner
I rossi e i neri, vol. 2
I rossi e i neri, vol. 2

Полная версия

I rossi e i neri, vol. 2

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
Добавлена:
Настройки чтения
Размер шрифта
Высота строк
Поля
На страницу:
6 из 8

Due ore dopo, sperando che qualcuno ci sarebbe finalmente tornato, andarono di bel nuovo a casa Salvani. Ma, in quella che facevano le scale, ebbero a persuadersi che era un altro viaggio inutile, il loro; poichè qualcuno stava martellando e scampanellando disperatamente all'uscio, in quella medesima guisa che essi avevano fatto dapprima.

– Basta; vediamo intanto chi sarà quest'altro; – disse Aloise.

E, seguendo la buona ispirazione, continuarono a salire le scale. Alla loro comparsa sul pianerottolo, quegli che stava all'uscio si volse, e il Pietrasanta e il Montalto lo ravvisarono; era l'Assereto, l'Assereto, che, com'essi, veniva a cercar di Maria e di Michele per la seconda volta in quella mattina.

– Oh, alla perfine troviamo un amico! – esclamò Aloise. – Orbene, non c'è alcuno?

– Che volete? Suono, sto per dire, da un'ora, e nessuno mi apre.

– Noi siamo già stati… – disse il Pietrasanta.

– E anch'io, – rispose l'Assereto, – ma, come stavolta, ho trovato faccia di legno.

– E il Salvani, quando lo avete veduto? – dimandò Aloise.

– Stanotte, nel tornare a casa, dov'egli era ad aspettarmi. Saprete del tentativo di iersera?..

– Sì, e appunto per ciò temevamo.

– Oh, quanto a lui, gli è in salvo, sebbene siano venuti i carabinieri a rovistargli la casa.

– Quando?

– Iersera, sulle dieci. Venne appunto il Michele, in fretta in furia, ad avvisarmene, ed io corsi dalla signorina, la quale era in uno stato da far compassione. I messeri del pennacchio, entrati nella camera di Lorenzo, avevano frugato dappertutto, ed erano usciti portando con sè una cassettina…

– D'ebano? – chiese, interrompendolo, con aria di grave ansietà, il marchese di Montalto.

– Sì, d'ebano; ne sapevate qualcosa? – dimandò stupefatto l'Assereto; ma tosto, col piglio di un uomo che si ricordi, proseguì: – ah! è vero; Lorenzo mi ha detto, per l'appunto, questa notte, della lettera che aveva mandata a voi. Sapete dunque il segreto, come ho dovuto saperlo anch'io. Ora notate; quella cassettina è l'unica cosa che i carabinieri hanno portata via di casa Salvani.

– Strano! – esclamò il Pietrasanta.

– Stranissimo! – rincalzò l'Assereto. – Il nostro amico, a dir vero, non aveva, rispetto a politica, nessuna carta di rilievo; che anzi aveva bruciato, o fatto a pezzettini, ogni cosa. Ma, se nulla c'era di ghiotto pel Fisco, essi certamente non lo avevano da sapere, e, secondo ogni più ragionevole presunzione, dovevano frugar dappertutto per trovare, se potevano, il fatto loro. Dico bene?

– Ottimamente! Proseguite! – rispose Aloise, che teneva dietro alle argomentazioni dell'Assereto con molta attenzione.

– Orbene, Michele mi ha detto, e la signorina mi ha ripetuto, che quei tutori dell'ordine pubblico, entrati deliberatamente nella camera di Lorenzo, andarono difilati al canterano, e, dopo aver posto sossopra tutto quanto era nelle cassette, sparpagliate le carte senza leggerle, buttate a rinfusa sul pavimento le camicie, i fazzoletti, e quanto poteva riuscire d'impedimento alle loro ricerche, adunghiarono la cassettina d'ebano, e senza pure fermarsi ad aprirla, se ne andarono via. Michele, vecchio soldato e punto rispettoso verso i rappresentanti dell'ordine, s'era provato a far loro qualche rimostranza; ma il brigadiere gli aveva risposto: «in nome della legge! noi facciamo il nostro dovere» e s'era allontanato, insieme cogli altri, che ridevano a crepapelle.

– E la signorina Maria, chiese il Montalto, – non sapeva nulla di ciò che conteneva la cassettina?

– Sì, lo sapeva; Lorenzo gliene aveva fatto cenno, innanzi di andare al suo posto di combattimento.

– E perchè allora non farsi innanzi, e dire a quei signori: badate, in quella cassettina non son carte per voi, ma cose di famiglia, le quali non hanno alcuna attinenza con ciò che cercate?

– Che volete? La signorina era fortemente commossa; e turbata dalla assenza del fratello, di cui conosceva le cagioni, sto per dire che non pensava nemmeno ai segreti della cassettina d'ebano. La prima e l'unica cosa che mi domandò, a mala pena mi ebbe veduto, fu questa: «e Lorenzo? dov'è Lorenzo?» Io non potei dirle nulla, poichè, come vi ho raccontato, io lo vidi soltanto a notte alta, quando ebbi fatto ritorno a casa. Ella era in un'ansia mortale, la poverina, ed io non venni a capo di racconsolarla. Partii promettendole di cercar Lorenzo, di metterlo in salvo, e di tornare stamane, a ragguagliarla d'ogni cosa che avessi potuto fare per lui. E difatti, Lorenzo è in salvo, a quest'ora. I soldati, carabinieri e sergenti di pubblica sicurezza che vegliano alle porte, per visitare chi entra, non badano ancora molto attentamente a chi esce; e Lorenzo, travestito da contadino, è andato ad uscire tranquillamente dalla porta degli Angeli.

– Questo è già tanto di guadagnato; – notò Aloise di Montalto; ma la signorina… E si trovasse almeno il servitore!..

– Voi lo vedete! Scomparsi! – soggiunse l'Assereto; – scomparsi, mentre io venivo a portar novelle di ciò che avevo fatto, non senza fatica, tra le quattro e le sei di questa mattina.

– C'è un grave mistero, qui sotto! – disse, crollando il capo, Enrico Pietrasanta.

– È quello che penso anch'io; – ripigliò l'Assereto; – ma come scoprirlo? Darei, ve lo giuro, metà del mio sangue. —

In quella che così ragionavano, senza conchiuder nulla, si udì il rumore di un catenaccio che scorreva negli anelli, e di un uscio che rimessamente, timidamente, si apriva, alla svolta del pianerottolo.

All'Assereto, che era pratico di quelle scale, venne come un raggio di speranza, nello udire lo strepito di quell'uscio che si apriva. Fu in due salti all'altro capo dell'andito; scese uno scalino, e si parò innanzi a quell'uscio, dalla cui breve apertura compariva, in atto tra curioso e guardingo, una donna attempata, come dimostravano i suoi capegli grigi e un cuffione bianco, ornato di cannoncini, alla foggia delle nostre vecchie massaie.

– Scusi, – disse l'Assereto, mettendo una mano al cappello, e accennando rispettosamente coll'altra alla vecchia signora, che volesse ascoltarlo; – eravamo venuti a chiedere del nostro amico signor Salvani, e nessuno ci risponde.

– Li ho uditi già parecchie volte suonare, in questa mattina; – risponde la vecchia; – e adesso, parendomi di udire un certo bisbiglio sul pianerottolo, era venuta a vedere chi fosse. Ma Lei, mi par di conoscerla…

– Sì sono un amico di casa Salvani, e ci sono stato ancora iersera.

Dovevo tornare questa mattina per certi ragguagli dalla signorina Maria.

– Oh, poverina! – interruppe la vecchia signora, che, ravvisando un volto amico, aveva spalancato l'uscio e messa in moto la lingua; – se Ella sapesse che notte ha passata, aspettando suo fratello! Veda, quantunque io fossi sola in casa, perchè mio figlio è partito ieri mattina alla volta di Torino donde tornerà posdimani, quando ho sentito tutto quel viavai di carabinieri, non mi sono potuta trattenere dallo andare a chiedere alla povera ragazza se avesse bisogno di qualcosa. Mi ringraziò, dicendomi che non voleva nulla; ma più tardi, verso la mezzanotte, venne il suo servitore da me per dirmi che egli andava in cerca del padrone, e che io volessi tener compagnia alla signorina, che rimaneva sola. Andai, e rimasi presso di lei fino alle due, cercando di consolarla, perchè la era come disperata. Oh, questi giovanotti non ne hanno mai abbastanza, colla loro politica! Se pensassero che hanno una famiglia, a cui non lasciano che gli occhi da piangere…

– Scusi; – interruppe l'Assereto, – ma il servitore, a che ora tornò in casa?

– Oh, così fosse tornato! Ma si perdette anche lui, e la poverina volle ad ogni costo che me ne tornassi in casa, per dormire un pochino. Ma come si fa a dormire, dopo tanto rimescolo? Io non ho potuto chiuder occhio fino all'Avemaria. Ma che crede, che la fosse finita? Appunto allora, odo bussare all'uscio. Che è, che non è? Una donna, che, a quell'ora, in compagnia d'un vecchio, viene a cercare della signorina Salvani. Avevano fatto errore da un uscio all'altro. E difatti, per chi sale quassù al buio, e non vede la svolta del corridoio, sembra che questo sia l'ultimo uscio della casa.

– Chi poteva essere questa donna? – esclamò l'Assereto. – Ella, non è venuta a capo di conoscer chi fosse?

– Io l'ho a mala pena intravveduta dall'uscio che avevo aperto a mezzo, senza levar la catena. Risposi che i Salvani stavano all'altra porta, in fondo al corridoio, e richiusi l'uscio. Tuttavia, rimasi qualche minuto ad origliare, per sincerarmi se entravano dalla signorina Maria. E diffatti, poco dopo, suonavano all'uscio dei Salvani, e la poverina, udendo una voce di donna, aperse e fece entrare quelle due persone in casa. Mezz'ora dopo, udito uno stropiccìo di piedi nell'andito, io, che come lor signori potranno immaginarsi, non avevo più potuto pigliar sonno, venni nell'anticamera, e mi accorsi che scendevano le scale, insieme colla signorina, della quale intesi la voce.

– Chi sa? Forse erano congiunti della famiglia; – disse l'Assereto, tanto per dir qualche cosa. – Ma non abusiamo più oltre della sua cortesia. La prego, se torneranno in casa, a dir loro che Giorgio Assereto, con altri amici del signor Lorenzo, sono venuti due volte, stamane, a chieder notizie.

– Non dubiti; sarà fatta la commissione, appena udrò giungere qualcheduno della famiglia a metter la chiave nella toppa. —

E qui, ricambiate poche altre parole di commiato, i tre amici infilarono le scale per uscire.

– E adesso?.. – chiese il Montalto, quando furono sulla strada.

– Adesso, – rispose il Pietrasanta, – ne sappiamo come prima.

– Adagio! – entrò a dire l'Assereto. – Sappiamo che qualcosa di grave è accaduto, e la polizia, che ha avuto mano nella perquisizione, avrà il bandolo del rimanente.

– Lo credete? – dimandò, con aria dubbiosa, il Montalto.

– Credo, – rispose l'Assereto, – che sia questo l'unico partito a cui possiamo appigliarci. Che cosa vedete voi di più efficace?

– Nulla, in fede mia! Andiamo dunque al palazzo Ducale. —

Si era in gran faccende, quella mattina, nel palazzo Ducale. L'intendente (oggi si direbbe il prefetto) non intendeva niente; e strepitava perchè dovessero intendere gli altri. L'assessore capo pigliava il ranno, e lo rovesciava in capo alla turba minore de' suoi satelliti. Il generale del presidio mandava ordini e contr'ordini. L'avvocato fiscale sguinzagliava tutta la falange dei giudici istruttori. E tutti i campanelli, di qua e di là, di su e di giù, erano in moto, come le gambe dei sergenti, degli uscieri, e, a farla breve, di chiunque avesse qualchedun altro sopra di sè, nella gerarchia degli uffizi. Gran lavoro, troppo lavoro, per un ultimo giorno di trimestre!

Quella mattina, di sicuro, l'assessore capo non dava udienza ad ogni sorta di gente. E già alla dimanda dei tre amici, l'usciere aveva risposto, con breviloquenza spartana: «__occupato__.» Ma essi, tenaci, cavarono fuori i loro biglietti di visita, e dissero all'usciere che avrebbero aspettato risposta. E l'usciere, veduti tre nomi accompagnati da tre stemmi (perchè l'Assereto, quantunque non la pretendesse a marchese, conosceva le prerogative del suo casato), si persuase che quei signori francassero la spesa dell'ambasciata. Nè s'ingannava. Un minuto dopo, tornava frettoloso in anticamera, per sollevare rispettosamente la portiera, e dire ai tre visitatori: «Il signor Cavaliere li prega di entrare.»

Il signor Cavaliere era un uomo di quarantacinque anni, o in quel torno, da' capegli brizzolati, che portava sempre tagliati alla radice, e dal volto affatto ignudo, il quale lasciava scorgere in tutta la loro bellezza le cento grinze di un sorriso, che vi era come stereotipato, ed aiutava alla sua nominanza d'uomo piacevole e di belle maniere. Aveva fama altresì d'uomo avveduto; ma in quei giorni era stato ad un pelo di perderla, e quella mattina ancora egli non era ben certo di non aversela guastata davvero. Però il sorriso stereotipo del suo volto arieggiava la smorfia, e il saluto ch'egli fece ai tre signori era a mala pena quel tanto che occorreva, per istare alle buone creanze. Gli atti, poi, volevano dire assai chiaramente: «Signori, è proprio per le vostre pergamene che vi ho fatto entrare; sbrigatevi!»

– Signor cavaliere, – incominciò Aloise, – la cagione che ci conduce da Lei è molto grave, e forse Ella, ne' momenti in cui siamo, non crederà opportuno di darci le informazioni che siamo venuti per chiederle.

– Dica, ad ogni modo, signor marchese, e dove io possa… senza nocumento…

– Una perquisizione, – proseguì Aloise, – è stata fatta iersera in casa di Lorenzo Salvani…

– Salvani! La scusi, – interruppe l'assessore, – conosco questo nome.

Non sarebbe, per avventura quello di un signore che ebbe un duello con Lei?

– Per l'appunto, e di presente amicissimo mio. Ora, nella perquisizione fatta iersera in sua casa…

– Perquisizione! – esclamò il magistrato, stringendosi nelle spalle. – Aspettino, dò un'occhiata ai rapporti, per sincerarmene; ma, se ben ricordo, nessuna perquisizione è stata fatta in casa Salvani.

– È stata fatta dai carabinieri; – entrò a dire l'Assereto; – e forse Ella non ne avrà avuto ragguaglio.

– Oh, in questi negozi si procede d'accordo, – rispose l'assessore capo, in quella che andava scartabellando alcuni fogli che aveva sulla tavola, di costa allo scannello, – ed io, se la perquisizione è stata fatta, avrei pure a saperne qualcosa. E infatti, qui non trovo nulla di ciò.

– Diamine! – borbottò l'Assereto. – O come va, questa faccenda? —

E guardò in viso agli amici, stupefatti al pari di lui. Quindi, richiesto dall'assessore, raccontò per filo e per segno quello che egli aveva udito da Michele e dalla signorina Maria, non ommettendo neppure la conversazione fatta pur dianzi colla vicina di casa.

– Non ne capisco un ette! – disse l'uffiziale di pubblica sicurezza, quando l'Assereto ebbe finito la sua narrazione.

– L'Autorità non ha ordinato nulla di tutto quanto Ella mi dice.

– Ma, in tal caso, – soggiunse Aloise, – qui si chiarirebbe una bricconata, anzi due, di privati… —

Il signor cavaliere si strinse nelle spalle, giusta il suo costume, quasi volesse dirgli: che ci ho da far io?

– E l'Autorità, – fu pronto a seguitare il Pietrasanta, – certamente si farà debito di scoprire…

– Signori miei, – interruppe il magistrato, increspando la faccia alla solita smorfia, – molte cose abbiamo da scoprire quest'oggi. Lor signori intenderanno che le questioni d'ordine pubblico hanno la precedenza. Del resto, se vogliono, possono raccontare il fatto all'avvocato generale… non oggi, s'intende, poichè ci avrà molto da fare pur egli, ma domani, o poi… —

Così dicendo, il signor cavaliere si alzò; maniera pulita di dir loro: andatevene, signori, che non ho tempo da perdere.

E i tre amici, intesa la mimica, e veduto come il degno tutore dell'ordine pubblico avesse quel giorno altro in capo che quella bagattella di una perquisizione apocrifa e della scomparsa di una fanciulla, si accomiatarono da lui.

– E adesso, indovinala, grillo! – esclamò il Pietrasanta, come furono nell'atrio del palazzo Ducale.

– In questo imbroglio, – disse Aloise, – c'è sicuramente la mano di qualche matricolato furfante. Ma giuro, per l'anima di mia madre, che ne verrò in chiaro, e guai a lui!

– Ci avrete compagni, Aloise, – soggiunse l'Assereto porgendogli la mano, – compagni nel giuramento e nelle opere. Ora leviamoci di qua, e chiamiamo senza indugio i pensieri a capitolo. —

VII

Nel quale si racconta chi fossero i Templarii.

I Templarii! chi erano i Templarii?

Oh bella! risponderà l'erudito lettore. Erano i cavalieri di quell'ordine tra religioso e militare, che, fondato nel 1118 da nove cavalieri francesi, ebbe il nome dalla dimora che gli assegnò Baldovino II in Gerusalemme, in un palazzo attiguo al luogo dell'antico tempio di Salomone. I cavalieri del Tempio erano ordinati dapprima a soccorrere, curare e proteggere i pellegrini cristiani in Terra Santa; poscia l'ufficio loro si stese, anzi addirittura si volse, a difendere coll'armi la fede di Cristo e il Santo Sepolcro contro gli assalti degli infedeli. Più tardi, ricaduta Gerusalemme in balìa dei Saraceni, i Templarii si ridussero nell'isola di Cipro, donde proseguirono la guerra giurata, combattendo sul mare, o tentando audacissime imprese sui lidi nemici. Sterminatamente ricchi e possenti, avevano, intorno al 1250, alta e bassa signoria su novemila baliaggi, commende, priorati; la più parte de' quali in Francia, dove la baldanza loro, le mire ambiziose, e i tenebrosi instituti dell'ordine tornarono molesti a Filippo il Bello, per modo che egli pensò di sterminarli, e ne venne a capo, col ferro, col fuoco, e colle scomuniche di Clemente V, suo degno compare.

Il lettore erudito ha ragione; parla come un libro stampato, nè si potrebbe, per questo rispetto, insegnargli nulla di nuovo. Ma noi scriviamo cronache contemporanee, non storie antiche, e qui non si tratta dei Templarii, spenti nel 1314, sul rogo del loro gran maestro Giacomo Bernardo di Molay, bensì d'un altro ordine, assai più moderno, cioè a dire dei Templarii che fiorivano in Genova, nell'anno 1857, e non furono spenti da altri roghi, se non da quelli del matrimonio, da altre tanaglie, se non da quelle della necessità, da altre ruote, se non da quella della mutevole fortuna, da altri __in pace__, se non da quelli della spietata vecchiaia.

Ordine, sodalizio, compagnia, e simiglianti, non sono vocaboli adatti a significarvi che cosa fossero i nostri Templarii di Genova. Essi erano, o, per dire più veramente, formavano un __quid__, che sfugge a tutti gli uncini, a tutte le strette della definizione. Anzitutto, perchè si chiamavano Templarii? Forse perchè erano cavalieri nati d'ogni più arrisicata intrapresa, e nelle loro adunanze non ammettevano donne. Entravano scudieri, e poscia diventavano cavalieri. Tutto ciò si faceva naturalmente, senza bisogno di statuti, e diremmo quasi senza lume di consuetudini. Come erano nati? e fors'anco esistevano come corpo?

Costoro, in principio, non erano i Templarii fuorchè dalle undici di sera alle cinque del mattino; gente racimolata da parecchie classi sociali, diverse di costume e d'intenti; signorotti scioperati, studenti svogliati, artisti chiacchierini, dilettanti di critica, fannulloni per elezione, ai quali scorrevano disutili le ore del giorno, di guisa che potevano impunemente dormirle, spendendo quelle della notte in lieti ragionamenti, in pazze scappate. Si radunarono una volta intorno ad una tavola d'osteria; mangiarono poco, bevvero molto, chiacchierarono moltissimo, e si separarono a notte alta, colle frasi del duetto di Pollione e di Adalgisa. __Qui domani, all'ora istessa, – Verrai tu? Ne fo promessa.__ Un'altra sera, mentr'erano seduti, capitò qualcheduno che aveva dimenticata la chiave dell'uscio di casa, e veduta la luce del gasse illuminare i vetri di una finestra sotto i portici del teatro Carlo Felice (colà per l'appunto era il Tempio dei primi cavalieri) aveva deliberato di entrarvi, e sbocconcellare una fetta di arrosto e far ora sul bicchiere. Occorse poi che qualche sfegatato ammiratore della prima donna, o delle due ballerine __comprimarie__ del teatro vicino, riscaldatosi nella controversia, si fermasse un'ora di più nella trattoria, dov'era venuto col proposito di rimanere appena dieci minuti, e nei nuovi arrivati riconoscendo amici suoi di vecchia data, trovasse l'addentellato per altre due ore di conversazione. Tutti costoro, raunati dal caso, rimasero uniti dalla chiacchiera; e videro che ciò era buono.

La promessa di Adalgisa fu ripetuta, e dopo la promessa il giuramento. In progresso di tempo, non fu più bisogno di tanto; la consuetudine s'era formata, e i nostri primi Templarii, che non si chiamavano ancora con quel nome, furono il centro, il nocciolo, intorno a cui vennero raggruppandosi tutti i capi scarichi ed ameni della città. Molti, che pure, a cagione dei loro negozi, non avrebbero potuto far quella vita notturna, ci andarono perchè la tentazione era più forte della loro virtù. I giornalisti, gente avvezza a lavorar di sera, diedero un largo contingente d'uomini alla lega; gli artisti di teatro, legione avventizia, furono gli ausiliarii che venivano quivi, di stagione in stagione, a darsi la muta. E sempre nuovi erano i commensali, e non c'era bisogno dei capi per convocarli in assemblea. Non c'erano statuti, abbiamo già detto, ed aggiungeremo che non c'erano vincoli. Oggi mancava uno; domani l'altro; i primi tre che si radunavano, facevano manipolo; non passava un'ora, ed erano covone; liberi tutti di andarsene, di sparpagliarsi da capo, ma rattenuti dal sapore di una cena dond'era sbandito il cerimoniale, allettati dalle dolcezze di una fruttuosa comunione di pensieri, che sgocciolavano allegramente dai calici, o vaporavano mollemente, raccomandati a buffi di fumo.

In mezzo a questa mutevole e gaia brigata, v'ebbero, come s'intenderà di leggieri, i più volenterosi, i più assidui. E furono costoro i veri, gli autentici Templarii, in numero di dieci, come i comandamenti di Dio. Ma uno solo fu il comandamento della loro fede: __far di notte giorno__; comandamento facile a tenersi in mente, senza mestieri di tavole, poichè ne bastava una sola, imbandita; più facile a seguirsi, senza bisogno che vigilasse un Mosè, poichè erano dieci, tutti legislatori e profeti ad un modo, e se per avventura non sapevano donde far scaturire l'acqua, con un colpo di verga, sapevano bensì da che botti si spillasse il buon vino.

Tra i nostri lettori (chi sa?) c'è forse taluno che avrà partecipato alla lega. A questo invalido senza pensione noi ci volgiamo, pregandolo a dire se non è verità pretta tutto quello che andiamo narrando. Mai sodalizio, confraternita, consorteria, furono più pronti ad accogliere, più larghi a licenziare. Per entrarvi, occorrevano quattro cose; gioventù e danari da spendere; onestà da tenere in serbo, e ingegno da mettere in comune. Per uscirne, bastava cominciare una sera a mettersi in letto di buon'ora, e alzarsi la mattina per tempo. Così facendo, si era certi di non veder più Templarii, e volendo si poteva anco dimenticare che fossero mai esistiti.

Il Templario, per solito, si alzava da letto alle quattro del pomeriggio, e gli amici e i conoscenti lo vedevano verso le cinque, allorquando, vestito di tutto punto, egli andava a goder la frescura mattutina sulla piazza della Posta. Sorseggiato il suo caffè nero (leggete vermutte) dal Moder, faceva colazione all'ora in cui gli altri volevano pranzare; leggeva i giornali del mattino (altri direbbe della sera), e poscia per ingannare il tempo, andava a sedersi nel suo scanno a teatro, dove ascoltava la musica, o la recita di qualche nuovo dramma, secondo i casi, facendo tutte quell'altre cose che fa, in somigliante postura, ogni semplice mortale. Quasi sarebbe inutile il dire che non era sempre a teatro, e che sapeva alternare questo passatempo colle visite, e coll'attendere a' suoi negozi particolari, molti o pochi, sempre secondo i casi, rilevanti o di niun conto che fossero.

Così giungeva la mezzanotte, ora in cui si metteva a desco e pranzava coi soliti amici e con tutti quegli altri avventizii che vi abbiamo già detto. Questo pranzo, che i semplici mortali chiamerebbero cena, riusciva un vero simposio, in cui regnava la più sciolta allegrezza, la più cara festività di modi, la più bizzarra varietà di discorsi; cose tutte che tiravano in lungo il convito, e facevano schierare in bell'ordine una legione di bottiglie vuote nel mezzo della tavola.

Finalmente, verso le tre del mattino, cedendo alla muta eloquenza del tavoleggiante, che pisolava in un angolo, i compari levavano le tende, per andarsene a passeggio, continuando i ragionamenti incominciati a mensa, fino all'ora in cui gli asinelli dei lattai, le ceste delle cavolaie e delle, fruttivendole, giungevano dal Bisagno, a mutare l'aspetto della piazza di San Domenico. Qui veniva in taglio una visita agli ortaggi, e, secondo la disposizione degli animi, si mercanteggiava mezz'ora intorno ad un canestro di frutta, o ad un mazzo di radici, tanto per dar molestia alle erbivendole e farsi dire che lor signori avevano tempo da perdere.

Ciò fatto, e comperata, per farla finita, qualche libbra di patate, o una dozzina di melarance, per accoccarsele a vicenda più in là, si davano la buona notte e andavano a letto per tempissimo, come solevano dire a chi li riprendeva di andarci troppo tardi.

Questa maniera di vivere parrà sregolata a taluni, e strana, per lo meno, all'universale; non già a noi, i quali la reputiamo soltanto regolata diversamente, non altrimenti strana che in apparenza, a cagione di un mutamento d'orario. E di quel loro orario particolare molto si compiacevano i nostri Templarii, poichè le ore che passavano fuori di casa erano quelle appunto che consentivano loro di trovarsi in fiorita compagnia a teatro, con gente di loro elezione a tavola, e d'essere i veri padroni della città, quando uscivano a passeggio, senza aver molestia da ruote di carri, da scuriade di cocchieri, da gomiti di screanzati, nè nausea dalla vista continua di asini calzati, o di furfanti matricolati.

На страницу:
6 из 8