bannerbanner
Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III
Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III

Полная версия

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
Добавлена:
Настройки чтения
Размер шрифта
Высота строк
Поля
На страницу:
5 из 6

Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte, accompagnato da una estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per l'importanza sua, e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle storie, era vicino a sorgere nella principale città della Veneta terraferma. Abbiamo già raccontato, come Buonaparte, perchè l'Austria accettasse da lui, in ricompensa dei Paesi Bassi, e del Milanese, lo stato Veneziano, si era messo in punto di farlo rivoltare contro il senato. Insidiò principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano alcuna cosa intentata, e la popolazione Veronese contaminavano con promesse agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà, con abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato all'incontro avendo avuto sentore, anzi certezza delle trame di Verona, vi aveva mandato, come già abbiam raccontato, provveditori straordinari, uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti Schiavone. Vi arrivavano, oltre a ciò, i villani dei contorni, ai quali erano state messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano ambe le parti vigilanti, l'una per impedir gli effetti delle suggestioni e delle sommossioni d'oltre Mincio, l'altra per ajutarli. Gli animi infiammati dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti, si mostravano pronti, non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma ancora a prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un segno che uscisse, potevano partorire una generale commozione. In tanta concitazione reciproca le cagioni potevano nascere ugualmente dall'una e dall'altra parte. Da tutto questo conoscerà il lettore, che poco rileva il sapere, se si sia incominciato a far sangue dai Francesi, o dai Veronesi, perchè proposito dei capi Francesi era di far rivoluzione in Verona, proposito dei Veronesi d'impedirla: i primi volevano darla all'Austria, i secondi conservarla a Venezia; e so ben io ciò, che farebbero i Francesi, o gl'Inglesi, se qualche potenza forestiera vendesse ad un'altra Lione, o Birmingham.

Era debole il presidio Francese in Verona, nè atto per se a tanta mole; perchè il generalissimo aveva avuto bisogno di tutte le sue forze contro l'Austria, ma si sperava nei maneggi secreti, e nell'opera dei novatori, ed oltre a ciò incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di Viotor mandata da Buonaparte a rivoltar lo stato nella terraferma. Si accostava inoltre Lahoz coi Lombardi, e Polacchi, accostavansi le masse repubblicane di Brescia e di Bergamo, ed il forte presidio di Mantova poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica, ma probo e religioso, vedendo il pericolo tratteneva ogni Francese che da Francia venisse, od in Francia ritornasse, per modo che riuscì a raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento Cisalpini, valorosa gente, capitanata in gran parte da Francesi, ed assai disposta a secondargli. Già segni annunziatori di quanto doveva succedere si spargevano per le campagne: erano in ogni luogo minacce, mischie, ed uccisioni. I sollevati dipendenti da Buonaparte uccidevano i sollevati, che gridavano San Marco; dall'altra parte dei Francesi isolati, coloro, che s'imbattevano in gente più moderata, erano o arrestati, od insultati; quei, che incontravano uomini più sfrenati, erano uccisi. Un prete, figliuolo del conte Malenza, postosi in agguato con una squadra di mila villani, infestava le strade tra Peschiera e Verona. Incessantemente si predicava, volere i Francesi fare una rivoluzione per impadronirsi delle sostanze dei popoli, e singolarmente del monte di pietà, dove erano grandissime ricchezze. Allegavano l'esempio del monte di pietà di Milano depredato contro le leggi del giusto e dell'onesto. Il fatto era pur troppo vero, e la ricordanza di lui produceva una rabbia incredibile in mezzo a quelle popolazioni già tanto concitate. Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minacce tra Francesi e Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra Francesi e Veronesi, ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Le nappe con l'impronta del Lione, insegna della repubblica di Venezia, davansi a chi ne bramava. Godeva il provveditore nel vedere animi sì pronti, e tante difese apprestate. Dava opera ad ordinarle; descriveva i villani accorsi, raccomandava l'ordine e la quiete, comandava, non offendessero persona; solo stessero armati, e pronti. Così l'agro Veronese suonava tutto all'intorno d'armi contrarie, ed armi contrarie erano in atto d'affrontarsi dentro le mura stesse di Verona. Preparavansi i magistrati a propulsare qualunque assalto, fatti accorti dai fatti di Bergamo, Brescia, Crema, ed ancor più dalle novelle certe delle intenzioni di Buonaparte. Il generale Balland surrogato a Kilmaine nel governo militare di Verona, sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al provveditore, esortandolo a provvedere, che i disordini cessassero. Rispondeva il Veneziano, che il farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma toccava rimproverando i maneggi degl'insidiatori, mandati a posta per sommuovere le province.

Era il dì diciasette aprile, secondo giorno di Pasqua del millesettecentonovantasette, quando alle ore quattro meridiane scoppiava ad un tratto la terribil sollevazione Veronese. Incominciava da insulti e da minori fatti dai soldati Veneziani e dai Veronesi armati, contro le guardie Francesi sparse in vari luoghi della città. Il comandante Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre, erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate dai castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi dalle case vicine. Il romore inaspettato delle artiglierìe Francesi diè cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati, che fosse intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico, che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento l'aspetto della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro i Francesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla cosa. Dei Francesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli, massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente gli seguitava il popolo, che gli voleva ammazzare, e bersagliandogli dalle finestre con palle, con sassi, con ogni sorte d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti dei Francesi in tal modo fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito. Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza nei più segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro sicure; perciocchè non pochi, rottasi dai padroni la ospitalità, vi restarono miseramente uccisi. Alcuni furon gettati nei pozzi, altri trafitti dai pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il rimbombo delle artiglierìe dei castelli, fra i tocchi incessanti pel suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito, molte donne, molti fanciulli, molti ammalati erano in Verona, e questi furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo, che pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le ruberìe, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui contaminato il nome di Francia. Era spettacolo pieno di compassione e di terrore il vedere malati languenti perseguitati da sicarj sanguinosi, donne atterrite da donne furibonde. Noi vedemmo un portico, tutto lurido e stillante ancora di sangue di Francesi ammaccati piuttosto che trafitti da un immenso furore; noi vedemmo spoglie sanguinose tratte da pozzi e da fogne; noi vedemmo miserabili vestimenta serbate a gloria dai violenti trucidatori. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà, che il cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanto infinita barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei quali null'altra cosa d'uomo restava che il volto. Nè veniva meno la crudeltà per la stanchezza, o per lo sfogo; che anzi sangue chiamava sangue, e le forze, che mancano spesso al ben fare, non mancavano al mal fare. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore, tosto si riaccendeva più fiero che prima, ove fosse scoperto un Francese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa condizione si ritrovavano i patriotti o Veronesi, o forestieri: che anzi maggiore contro di loro si mostrava la rabbia del popolo, che con più diligenza gli cercava, e quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i più si erano ricoverati nei castelli, altri conficcati nel nascondigli passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degl'insorti, conservarono, nascondendogli, a molti Francesi la vita, atto tanto più degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano pericolo della propria; perchè non è da dubitare, che se il popolo si fosse accorto della pietà usata, avrebbe condotto all'ultima fine preservatori e preservati. Spargevasi intanto per le campagne il grido del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e le stragi rincominciavano, nè cessarono le uccisioni, se non quando non vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli ebrei, oltre l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i fondachi del pubblico pericolavano, e non fu poco, che i provveditori potessero impedire, che coloro, i quali sì ferocemente combattevano per Venezia, le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Tanto facilmente passano gli uomini infuriati dalle uccisioni ai latrocinj, dai latrocinj alle uccisioni. Correva il sangue per le case, correva per le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti al popolo volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si erano confinati i tiranni d'Italia. Il maggior pericolo era pel Castel-Vecchio: posto essendo vicino alla città, potevano i soldati ed il popolo assaltarlo più facilmente; nè le sue difese erano forti, poichè dava adito al castello un ponte chiuso solamente da un cancello di ferro, e la porta di debol legno era anche priva di saracinesca.

Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni, avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli animi Veronesi, nè il trarre continuo dei castelli il permettevano, ma frenare la barbarie, ed introdurre ordine e misura, là dov'era solamente confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero, che per poco il popolo non l'aveva per sospetto, e si proponeva, posposta l'autorità di lui, di voler fare da se. Importava intanto l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte, che tuttavia si trovavano in possessione dei Francesi. Il maggior presidio era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilj, che alloggiava nella terra di Castel-Nuovo con due pezzi di cannone, seicento Schiavoni, duemilacinquecento contadini, e fronteggiava un grosso corpo di Francesi e d'Italiani, affinchè non corressero contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente a soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilj, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il vecchio, e più fortemente dentro di loro si difendevano i Francesi, certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei luoghi, ma ancora la salute, e la vita loro.

Il maggior propugnacolo che avessero, era il castello montano di San Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto un grosso alloggiamento a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a battere quel castello; che anzi più oltre procedendo, avevano piantato due cannoni in san Leonardo, donde, per essere il sito sopraeminente al castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Francesi uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivanne stragi, incendj e ruine. Ardeva parte della città, perchè da castel San Felice, Balland fulminava, anche con palle roventi; ardevano le vicine ville intorno, e la tanto florida un tempo, ed ora infelice Verona, pareva avvicinarsi ad un estremo sterminio. Intanto i villici, che tanto più s'infierivano, quanto più largo sangue vedevano, non confidando intieramente nei rimedj, che potessero fare da se medesimi, avevano di volontà propria spedito corrieri al generale Austriaco Laudon, che, come abbiam narrato, dopo le vittorie acquistate nel Tirolo, era sceso a mettere a romore l'alto Bresciano, pregandolo, si calasse subitamente in soccorso loro. Balland non ometteva di provveder all'avvenire, conoscendo di quanta importanza fosse all'esercito il conservare in potestà di Francia quell'alloggiamento. Però aveva dato avviso a Chabran in Brescia, ed a Kilmaine in Mantova, pregandogli, mandassero sollecitamente gente soccorritrice al presidio pericolante. Victor medesimo era stato avvertito da Balland del pericolo. Anche da Bologna s'accostava una schiera per istringere la città combattente. Giovanelli, considerato il nembo che da ogni parte gli veniva addosso, quantunque Erizzo fosse per arrivare con un rinforzo di genti Schiavone, di armi e di munizioni, aveva aperto una pratica d'accordo con Balland, la quale però non ebbe effetto, perchè il generale di Francia richiedeva, per prima ed indispensabile condizione, che i villani deponessero le armi, si riaprissero le strade alle comunicazioni dell'esercito, il presidio Veneziano alle poche genti di prima si riducesse. Non erano alieni i magistrati della repubblica dall'accettar queste condizioni; ma le turbe di campagna, tuttavia infiammate, non volevano a patto nessuno udire, che avessero a depor le armi: viemaggiormente s'infuriavano.

Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa, che rappresentavano, essere mescolata con la causa dello stato la causa della religione. Rammentassero, dicevano, l'oppressione di Roma, gli scherni di Milano, le abbominazioni di Parigi: osservassero con gli occhi loro medesimi i preti fuorusciti di Francia, ridotti esuli e poveri da gente incredula e sfrenata, per non aver voluto contaminare con ispergiuri e con bestemmie la fede loro: questa medesima sfrenata ed orribil gente volere adesso fondar l'imperio loro nell'incorrotta Italia: per questo ingannare gli spiriti, per questo pervertire i cuori, per questo subornare i magistrati, per questo tradire i governi, per questo finalmente avere testè conculcato la dignità della sedia apostolica, primo splendore d'Italia, e principalissimo fondamento della religione: guardassero qual fosse il seguito dell'irreligiosa gente; uomini malvagi aiutarla con gli spìamenti, con le parole, con le armi, con le aderenze; uomini tutti nemici alla religione, perchè senza fede; nemici alle buone costumanze, perchè senza buoni costumi; nemici ai governi provvidi, perchè impazienti di ogni freno, che gli rattenga nelle male passioni loro. Perciò, sclamavano, difendessero fino coll'ultimo sangue, ove d'uopo fosse, la religione protettrice degli oppressi, i governi protettori della religione, ed aspettassero per opera sì pia la gloria del mondo caduco, i premj del mondo sempiterno.

Generavano questi discorsi effetti incredibili; il furore diveniva zelo, che altro non è che un furore meno fugace. Stupivano massimamente, e s'infiammavano le genti ad uno spettacolo maraviglioso, che sorse in mezzo a quella tanto avviluppata tempesta, e questo fu di un frate cappuccino, che predicava ogni giorno sulla piazza, stando attentissimo il popolo affollato ad ascoltarlo. Non desumeva questo frate i suoi argomenti da motivi di religione, ma piuttosto da quanto havvi nella nazionale indipendenza di più dolce, di più nobile, di più generoso; e sebbene le sue parole fossero principalmente dirette contro i Francesi, erano non ostante generali, e chiamando, secondo l'uso antico, barbari tutti i forestieri, predicava contro di loro guerra, cacciamento e morte. Preso per testo l'antico adagio, patientia laesa fit furor:

«Italiani, diceva egli, di qualunque paese, di qualunque condizione, di qualunque sesso voi siate, impugnate le armi: esse son pur quelle dei Scipioni, dei Fabj, dei Camilli; esse son pur quelle degli Sforza, degli Alviani, dei Castrucci: Italiani, impugnate le armi, impugnate le armi, e non le deponete, finchè questi barbari, di qualunque favella essi siano, non siano cacciati dalle dolci terre Italiane. Vedete lo strazio, che fanno di voi? Vedete che il danno a lor non basta? Vedete, che non son contenti, se non aggiungono lo scherno? I rubamenti non saziano questa gente avara; questa gente superba vuole gl'improperj, ed il vilipendio. Sonvi le querele imputate a delitto; evvi il silenzio imputato a congiura: o che serviate, o che non serviate, vi apprestano gl'insulti, o le mannaie, perchè il servire chiamano viltà, il resistere ribellione. Vi accusano di armi nascoste; vi chiamano gente traditrice, come se non fosse maggior viltà al più forte l'usare i fucili ed i cannoni contro i deboli, che ai deboli l'usare contro il più forte gli stili e le coltella! Adunque poichè di stili e di coltella vi accagionano, e poichè un risguardo di Dio, protettore degli oppressi, e l'insopportabile superbia loro vi hanno ora posto i fucili ed i cannoni in mano, usategli, usategli, e pruovate, che anche gl'Italiani petti sono forti contro i rimbombi, e le guerriere tempeste. Credete voi, che siano costoro invulnerabili? Credete voi, che siano più valorosi di voi? Per Dio, no, non abbiate sì falso pensiero: i valorosi non son perfidi, ed opera di perfidia sono i fatti recenti. Non sotto spezie di amicizia fu invasa Genova, insidiata Cavi, conculcato Livorno? Non sotto spezie di amicizia furono da lor prese le Veneziane fortezze? Non da loro si sommovono i popoli contro i governi, non da loro si usano i governi per tiranneggiare i popoli? Ma che parlo? Ricordatevi di Brescia, di Bergamo e di Crema fatte ribelli al loro signore dai tradimenti di costoro. Non avete voi testè letto i manifesti nimichevoli contro di voi mandati da quel Landrieux, primario insidiatore, sotto colore di amicizia, di quelle misere città? Non vedete voi qui il pubblicato scritto di un Lahoz, pagato da loro, perchè con mani Italiane versi sangue Italiano? Non vi muoveste pure or ora a sdegno nel leggere il manifesto inventato da loro, ed apposto al Battaglia, a quel Battaglia, che, Dio voglia, sia tanto puro, quanto la causa è santa? Vero, disse il manifesto, e nessuno il sa meglio che chi lo scrisse; ma vera ancora è l'infame fraude, non a liberare gli oppressi diretta, ma a dar cagione agli oppressori di tradire gli oppressi; caso veramente scelerato di sommuovere prima i popoli, poi di tradirgli per dargli in mano ad insolite tirannidi. Non ebbimo noi qui nell'innocente Verona i scelerati subornatori venuti per prezzo da Lonato, da Desenzano, da Brescia? Non abbiamo noi qui capitani vili, mandati espressamente da Buonaparte sotto pretesto di reggerla, a contaminar Verona? Non è Buonaparte stesso, non solo nido, ma covo d'infami fraudi? Vincitore insolente in palese, insidiatore scelerato in segreto? Sono questi i valorosi, che abbiano a farvi tremare? Tolga Dio questa credenza, che il valore è virtù, e la perfidia fa, non soldati valorosi, ma satelliti codardi. Fumano al cospetto vostro le campagne poc'anzi liete e dilettose della Brenta, ed ora consumate, ed arse dai barbari. Sono bruttati i tempii, sono spogliate le case, è ogni opera dell'Italiano ingegno, utile o magnifica, fatta preda di soldatesche sfrenate. Adunque pei barbari travagliarono i Raffaelli, i Tiziani, i Paoli? Adunque i Petrarca, gli Ariosti, i Tassi scrissero, perchè i testi loro gissero in mano di coloro, che non gl'intendono? Adunque diè il povero l'obolo suo alla Casa santa di Loreto, perchè uomini già fatti ricchi da tanti rubamenti lo rapissero, ed in prezzo di meretrici, in prezzo di corruzione contro gl'Italiani stessi il convertissero? Adunque portò il povero per incorrotta fede nei monti di pietà il risparmiato frutto di tante veglie, perchè fosse involato da chi non veglia, che nei bagordi, nei giuochi, nelle fraudi? Ov'è l'Italia adesso? Il suo fiore è perduto. Dove i costumi? Contaminati da fogge forestiere. Dove le armi? Tradite pria, poscia disperse, o serve. Dove la lingua? Lordata da parlari strani. Dove l'arte dello scrivere, già sì famosa al mondo, e maestra di tanti? O tace, o adula, o imita. Scrittoruzzi da insegne, scrittoruzzi da giornali, scrittoruzzi da libercoletti son venuti ad insegnarci lo scrivere, ed il pensare! Oh, vergogna nostra sempiterna, se con l'armi non vendichiamo il perduto pregio dell'ingegno! Piangono le Pavesi madri, piangono le Veronesi madri i figli uccisi nelle battaglie contro i tiranni; piangono le Italiane madri le figlie, prima ingannate, poscia abbandonate dai vili seduttori, e si querelano indarno del contaminato onore. E voi ve ne starete? E voi non brandirete le armi? E voi non spenderete l'ultimo fiato per vendicare, per liberare Italia da tanto strazio! La vittoria vostra è vittoria comune, perchè a tutti puzza questo barbaro dominio, ed il primo messo apportatore delle Veronesi battaglie farà muovere a redenzione tutti i popoli. Sdegnata è Germania dell'oscurato valor militare, sdegnata Genova della perduta indipendenza, sdegnata Roma dell'offesa religione, sdegnata Toscana dell'oltraggiata amicizia, sdegnata Napoli dell'esser fatta stromento alla servitù d'Italia. Tutti aspettano un valor primo, tutti domandano una rizzata insegna; tutti agognan sorgere in aiuto della generosa Verona. La mole intera dell'Italica libertà nelle mani vostre sta: perchè molti combatteran contro pochi, virtuosi contro viziosi, oppressi contro oppressori, nè mai vano riesce l'ardor della libertà. Vinti i Francesi, qual altro barbaro s'ardirà d'affrontare la vincitrice Italia? Tutti saran cacciati; il sole Italiano non splenderà più che su fronti Italiane, l'aria non udirà più le ispide favelle; i solchi di questa terra, tanto ferace madre, non produrran più per altri, che per noi i dolci frutti loro; le spose intatte non daran più al mondo che forti, che sinceri, che liberi Italiani. Fu già Venezia ricovero ai liberi Italiani contro l'inondazione d'antichi barbari; fia Venezia nuova occasione ai liberi Italiani di cacciare i barbari moderni. Il valore libererà l'Italia, l'unione preserveralla, e già mi s'appresentano alla rallegrata mente nuovi secoli per quest'antica madre del mondo. Ma io vi veggio rossi di sangue! questo è sangue di barbari. Deh, fate voi, che sia seme di libertà. Ite, correte, uccidete quest'uomini truculenti: il sangue loro fia segno della salute nostra, nè mai senza sangue s'acquista la libertà. Ha il sommo Iddio, quando ordinò l'universo, voluto, o che i tiranni versassero il sangue degli oppressi, o che la libertà versasse il sangue degli oppressori. Ite, e scegliete tra le mannaie e gli sparsi fiori, tra la vita e la morte, tra la gloria, e l'ignominia, tra l'indipendenza e la servitù, tra la libertà e la tirannide. Il principe vostro, il cielo propizio, sorti fortunate, l'amore, il furore, le donne, i padri, i figli, l'incominciate battaglie, queste prime vittorie vi chiamano ad un'alta e non più udita impresa; e poichè la rotta pazienza vi fe' correre all'armi, fate che l'armi non siano impugnate indarno».

На страницу:
5 из 6