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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III
Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò, perchè, andata contro questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di qualche Francese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani, aiutati dagli abitatori della valle di Sabbia; i quali, siccome quelli che erano molto affezionati al nome Veneziano, erano accorsi per conservare la città sotto la divozione dell'antico principe. Quest'erano le masse ordinate dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole esempio di fedeltà e di ardire dava nella fazione di Salò il provveditore Francesco Cicogna; dal che si può argomentare quale mutazione avrebbero fatto le cose di Venezia, se il senato avesse permesso, che Ottolini desse dentro, quando ancora era tempo, col suo stormo, e se Battaglia tale fosse stato quali furono Ottolini e Cicogna. I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di ducento, furono condotti a trionfo per Verona, i sudditi carcerati, come rei di stato. La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi sbigottiti in tutta la terraferma Veneta. Armavansi a gara i popoli, e protestavano della fede loro verso il senato. Questo moto fu apposto a delitto ai Veneziani da Buonaparte, e dagli storici adulatori di lui, i quali per altro confessano, che in quel momento stesso, e già da lungo tempo prima si trattava di far indenne l'Austria a spese di Venezia. Adunque doveva Venezia darsi di per se stessa vinta, e disarmata in mano di chi sotto colore di amicizia la tradiva? Certamente doveva Venezia in quell'estremo frangente, in cui era caduta, non per colpa propria, ma d'altrui, difendersi: bene gli uomini generosi, gli amatori massimamente del nome e del costume Italiano le daranno eterno biasimo del non essersi abbastanza, ed a tempo difesa, e con dolore vedranno nei ricordi delle storie scritto i posteri, che l'opera della sua distruzione sia stata frutto, tanto della debolezza de' suoi reggitori, quanto della malvagità di amici fraudolenti; poichè fuori di dubbio è, che, passando anche sotto silenzio le passate occasioni, se dopo la vittoria dei Salodiani, le disposizioni tanto incitate dei Veronesi, ed i preparamenti fatti nell'estuario, in un con le vittorie di Laudon nel Tirolo e con le masse Tirolesi e Croate, avesse il senato fatto una forte risoluzione coll'unirsi all'Austria, e col dichiarare la guerra alla repubblica di Francia, si sarebbe trovato Buonaparte in gravissimo pericolo, e l'antico dominio dei Veneziani sarebbe stato preservato. Ma l'aver voluto aspettare l'estrema ingiuria, quando già le ingiurie avevano oltrepassato l'estremo, e l'aver abbandonato i sudditi, quando volevano difenderla, fu cagione della ruina della repubblica.
Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I moti della terraferma erano spontanei, e solo cagionati dalla rabbia concetta dai popoli infastiditi delle insolenze, e sdegnati dalle ingiurie dei forestieri. Perciò il senato gli poteva qualificare come opera non sua, e sempre protestare, quanto spetta alla direzione del governo, della perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in Italia, secondando il talento proprio, e credendo di far cosa grata al generalissimo, pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo un atto falso ad uno dei magistrati più principali far in modo, che il governo Veneziano egli medesimo paresse colpevole di ree instigazioni contro i Francesi; della qual fraude nissuna si può immaginare nè più brutta, nè più diabolica. Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto, attribuendolo a Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica in terraferma, col quale si stimolavano i popoli a correre contro i Francesi, e ad uccidergli. Fu questo manifesto composto per opera di un Salvadori, novatore molto operativo di Milano, e rapportatore palese e segreto di Buonaparte, che poscia creatosi imperatore, l'abbandonò in miseria tale, che gittatosi in fiume a Parigi terminò con fine disperato una vita poco onorevole. Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale a Milano, intitolato il Termometro politico, giornale che si scriveva in casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati ancor essi dalla illusione e dalla vertigine di quell'età. Quantunque astutamente gli sia stata apposta la data dei venti marzo, uscì veramente ai cinque aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a Judenburgo a questo tempo, già offeriva gli spogli della repubblica, e già fatto sicuro della pace con l'imperatore, non aveva più timore delle masse Veneziane. Così l'incitare contro i Francesi era pretesto di far uccidere i Francesi dai Veneziani, i Veneziani dai Francesi, e per trovar compensi all'imperatore a danni di Venezia. Il non aver fatto il generalissimo alcun risentimento contro gli autori di un fatto tanto grave, e che poteva e doveva costar la vita a tanti Francesi, pruova ch'ei ne fosse soddisfatto.
Il manifesto era quest'esso:
«Noi Francesco Battaglia per la serenissima repubblica di Venezia provveditore straordinario in terraferma.
«Un fanatico ardore di alcuni briganti nemici dell'ordine, e delle leggi eccitò la facile nazione Bergamasca a divenir ribelle al proprio legittimo sovrano, ed a far correre da una moltitudine di facinorosi prezzolati altre città, e provincie dello stato per sommovere anche quei popoli. Contro questi nemici del principato noi eccitiamo i fedelissimi sudditi a prendere in massa le armi, e dissipargli, e distruggergli, non dando quartiere o perdono a nissuno, ancorchè si rendesse prigioniero, certo che sì tosto gli sarà dal governo data mano, e assistenza con denaro, e truppe Schiavone regolate, che sono già al soldo della repubblica, e preparate all'incontro.
«Non dubiti nissuno dell'esito felice di tale impresa, giacchè possiamo assicurare i popoli, che l'esercito Austriaco ha inviluppato, e compiutamente battuti i Francesi nel Tirolo e nel Friuli, e sono in piena ritirata i pochi avanzi di quelle torme sanguinarie e irreligiose, che sotto il pretesto di far la guerra ai nemici devastarono i paesi, e concussero le nazioni della repubblica, che loro si è sempre dimostrata amica sincera e neutrale, e vengono perciò i Francesi ad essere impossibilitati di prestar mano e soccorso ai ribelli, anzi aspettiamo il momento favorevole d'impedire la stessa ritirata, alla quale di necessità sono costretti.
«Invitiamo inoltre gli stessi Bergamaschi, rimasti fedeli alla repubblica, e le altre nazioni a cacciare i Francesi dalle città e castelli, che contro ogni diritto hanno occupato, e a dirigersi ai commissarj nostri Pier Girolamo Zanchi, e dottor fisico Pietro Locatelli per avere le opportune instruzioni, e la paga di lire quattro al giorno per ogni giornata in cui militassero.
«Verona, 20 marzo 1797.
«Francesco Battaglia, provveditore straordinario in terraferma,
«Gian-Maria Allegri, cancelliere di Sua Eccellenza. Per lo stampatore camerale».
Questo manifesto si spargeva in copia dai patriotti e dai capi Francesi, massimamente da Landrieux. Nè credendo i macchinatori di questa fraude, che tutto l'operato fin qui bastasse, perchè i popoli vi prestassero fede, Lahoz, capo e guida di tutte le genti Lombarde e Polacche, e che mescolato in queste trame di rivoluzione ne conosceva bene il fondo, gli avvertiva con bando pubblico, che la neutralità era stata rotta dai tradimenti di Battaglia, il quale, soggiungeva, pazzamente si era persuaso, che «Voi altri contadini, privi in tutto di arte militare, sareste i vincitori dei Francesi, la prima nazione dell'universo pel coraggio, e la scienza della guerra. Sappiate adunque, che il generale Buonaparte ha ordinato, che Battaglia sia messo in ferri, ed impiccato; che saranno pure impiccati coloro, che v'inciteranno alla ribellione; le vostre case saranno arse, le famiglie desolate: uscite d'errore, e presto, deponete le armi, portatele al comandante di Brescia; mandategli deputati; quando no, perirete tutti».
Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del manifesto per far credere ai popoli, ch'ei fosse vero; e quei ferri, e quelle forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi allora in Venezia, non era in potestà di Buonaparte nè di farlo arrestare, nè di farlo impiccare. La verità della storia richiede oltre a ciò, che noi scriviamo, che il provveditore non era nemmeno per venire in potestà del generale; perchè quando Buonaparte distrusse Venezia, domandò la prigionia e la morte di tutt'altre persone che di quella di Battaglia, ancorchè egli fosse il più colpevole di tutti verso i Francesi, se opera sua fosse stato il manifesto: che anzi Buonaparte accarezzò Battaglia, e se lo tenne molto caro. Noi sappiamo, che il provveditore era partigiano di qualche riforma negli ordini dello stato; ma che Buonaparte avesse altre cagioni di amarlo, noi non vogliamo nè affermare nè negare, ancorchè troviamo scritto, che questo Veneziano abbia servito ai disegni del generale Francese più di quanto la libertà, e l'independenza della sua patria comportassero.
Allontanava da se Battaglia l'infamia del manifesto con ismentirlo: lo smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava; perchè i tempi erano più forti delle protestazioni, ed era strana veramente, e compassionevole cosa il vedere, che gl'innocenti cercassero di giustificarsi appresso i rei di un delitto, che essi rei contro gl'innocenti avevano commesso, e che a loro per distruggergli imputavano; condizione unica per certo, che sia stata al mondo, e degna veramente della malvagità di quei tempi.
Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio dei Veneziani, era a Buonaparte spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed innocente stato. Restava, che le sue condizioni divenissero tanto sicure rispetto agli Austriaci, ch'ei potesse senza pericolo mandar fuori quello, che già da lungo tempo si era nell'animo concetto. A questo gli dava occasione la tregua sottoscritta coi legati dell'imperatore il dì sette aprile a Judenburgo; alla quale conclusione non si venne nè da una parte nè dall'altra, se non promessi, ed accettati i compensi a spese della repubblica Veneziana. Solo restava all'Austria qualche residuo di renitenza al consentire, per accomodar se, ad accettar le spoglie di un governo, dal quale non aveva ricevuto alcuna ingiuria, col quale era congiunta d'amicizia, e che anzi a motivo di questa sua amicizia si trovava ridotto a tali compassionevoli strette. A questo rimediava Buonaparte col far rivoltare lo stato dei Veneziani, anche sulla sinistra del Mincio; perchè se ripugnava all'Austria il nuocere a Venezia sotto il governo antico, bene sapeva che non le ripugnerebbe il nuocerle sotto il nuovo, odioso a lei pei principj, non congiunto con lei per alcun vincolo di amicizia. Non così tosto ebbe sottoscritto la tregua coll'imperatore, che incominciò le dimostrazioni ostili contro i Veneziani; il che mandò ad esecuzione in vari modi, ma che tutti tendevano al medesimo fine. Primieramente mandò il suo aiutante Junot con amare condizioni a fare un violento ufficio a Venezia non senza grave ferita alla dignità della repubblica. Arrivato Junot altieramente richiedeva per parte del generalissimo di essere udito incontanente in pien collegio dal serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi; era il sabato, in cui per antico costume non sedevano i magistrati, intenti in quel giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri. Avvertivanne Junot; ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane impazientissimo, insisteva dicendo, o l'udissero subito, o appiccherebbe le cedole della guerra ai muri. Credettero i padri, che il derogare all'uso antico fosse minore scandalo di quanto era capace di commettere quel soldato, e consentirono ad udirlo la mattina del sabato. Introdotto in collegio, dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre capi della quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di terraferma, ed i cinque agli ordini, leggeva, con parlare prima timoroso per la sorpresa, poi superbissimo per la natura, una lettera, che scriveva Buonaparte al doge il dì nove aprile da Judenburgo, ed era quest'essa: «Tutta la terraferma della serenissima repubblica di Venezia è in armi: in ogni parte sollevati ed armati gridano i paesani morte ai Francesi, molte centinaja di soldati dell'esercito Italico già sono stati uccisi; invano voi disappruovate le turbe raccolte pei vostri ordini. Credete voi, che nel momento in cui mi trovo nel cuore della Germania, io non possa far rispettare il primo popolo dell'universo? Credete voi, che le legioni d'Italia sopporteranno pazientemente le stragi, che voi eccitate? Il sangue de' miei compagni sarà vendicato: a sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi a molti doppi il coraggio ogni battaglione, ogni soldato Francese. Con empia perfidia corrispose il senato di Venezia ai generosi modi usati da noi con lui. Il mio aiutante, che vi reca la presente, è portatore o di pace, o di guerra. Se voi subito non dissolvete le masse, se non arrestate, e non date in mia mano gli autori degli omicidj, la guerra è dichiarata. Non è già il Turco sulle frontiere vostre, nissun nemico vi minaccia; d'animo deliberato voi avete inventato pretesti per giustificar le masse armate contro l'esercito; ma ventiquattr'ore di tempo, e non saran più: non siamo più ai tempi di Carlo Ottavo. Se, contro il chiaro intendimento del governo Francese, voi mi sforzate alla guerra, non pensate per questo, che ad esempio degli assassini, che voi avete armati, i soldati Francesi siano per devastar le campagne del popolo innocente e sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed egli benedirà un giorno fino i delitti, che avranno obbligato l'esercito Francese a liberarlo dal vostro tirannico governo».
Qui non è bisogno aggiungere discorsi per giudicare di così fatta intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il loro sovrano, non si sarebbero mossi, e non avrebbero ucciso i soldati Francesi, se gl'insidiatori con mandato espresso del generale di Francia non avessero seminato la ribellione. Del resto alcuni pur troppo furono uccisi, ma non a centinaia, come la solita buonapartiana gonfiezza ebbe allegato. Taccio la villania di parlare con tali espressioni ad un principe, in cui era raccolta tutta la nazione Veneziana. Se questa è grandezza, come alcuni stimano, io non so che cosa sia piccolezza.
A tale vituperio ed a tanta indegnità una sola risposta era da farsi, se pure la umanità e la civiltà l'avessero permessa, e quest'era di tuffar in mare Junot, e di correre subitamente all'armi per veder quello, che volessero i cieli definire. Bene dovevano i Veneziani, non tuffar Junot, ma sì impugnar l'armi; ma nè i tempi nè gli uomini erano abbastanza forti in Venezia. Ridotto il principe di sì antica e nobile repubblica a condizione tanto abietta, rispose pacatamente, delibererebbe il senato; avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e di amicizia verso la nazione Francese. Intanto le crudeli calunnie, l'incredibile insulto, le disgrazie imminenti avevano riempito l'animo dei circostanti d'orrore e di terrore.
Acerbe lettere scriveva il dì medesimo dei nove aprile il generalissimo a Lallemand: non potersi più dubitare, che l'armarsi dei Veneziani non avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia; non aver mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte le altre degli stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata contro di lui; meno ancora aver potuto comprendere come per calmare quel piccolo ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè quando si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli atti dei provveditori di Brescia, Bergamo, e Crema, in cui si affermava, essere la sollevazione opera dei Francesi, essere bugie inventate a disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato Veneziano; avere il senato usato la occasione, in cui egli innoltratosi nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per mandar ad effetto una fraude, che sarebbe prima d'esempio, se non fossero quelle ordite contro Carlo Ottavo, ed i Vespri Siciliani; essere stati i Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento, in cui i soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i Veneziani più fortunati di Roma: la fortuna della repubblica Francese stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune Veneziane.
Dette queste cose, annunziava le accuse contro i Veneziani: avere una nave Veneziana, a fine di tutelare una conserva Tedesca, combattuto la fregata Francese la Bruna; essere stata arsa la casa del console a Zante, insultato il console stesso; averne mostrato allegrezza il governatore; diecimila paesani armati, e pagati dal senato avere ucciso tra Milano e Bergamo cinquanta Francesi; piene essere, malgrado delle promesse di Pesaro, di soldati Verona, Padova, Treviso; arrestarsi in ogni luogo gli amici della Francia; porsi a guida degli assassini gli agenti dell'imperatore; gridarsi per ogni parte morte ai Francesi; furibondi i predicatori pubblicare da ogni cattedra la volontà del senato, stimolare contro la Francia; vera ed effettiva condizione di guerra essere tra Francia e Venezia; saperlo Venezia stessa, che altro modo non trovava di giustificarsi, che il disappruovare con parole quelle masse, che coi fatti armava e pagava: domandasse adunque Lallemand, concludeva, a Venezia, che risolutamente rispondesse, se avesse pace o guerra con Francia: se guerra, partisse incontanente; se pace, domandasse che i carcerati per opinione, e di non altro rei che di amare i Francesi, fossero rimessi in libertà; che tutti i presidj, salvo gli ordinarj, quali erano sei mesi prima, uscissero dalle piazze di terraferma; che tutti i paesani si disarmassero, e si riducessero alla condizione di un mese prima; provvedesse il senato, che le cose fossero in terraferma tranquille e sicure, e non pensasse solo alle lagune; gl'incenditori della casa del console a Zante si punissero, e la casa si ristorasse a spese della repubblica; il capitano che aveva combattuto la Bruna, si punisse, ed il costo della conserva nemica protetta contro i patti della neutralità, si rimborsasse: quanto alle turbazioni di Bergamo e di Brescia, offerisse la mediazione della Francia per ridur di nuovo le cose allo stato quieto.
Faceva Lallemand l'ufficio, i comandamenti di Buonaparte al senato rappresentando. Del quale chi vorrà considerare il tempo, e le circostanze, non potrà non sentirsi commovere a grave sdegno contro chi il moveva, ed a non poca compassione verso chi era mosso; perchè vi si accusava la repubblica di Venezia di oltraggi, quando l'estremo oltraggio già era stato, non solo da lungo tempo meditato, ma recentemente concluso contro di lei, vogliam dire la vendita de' suoi stati; si accusava il senato d'incendj, di omicidj, di tiri di cannone commessi da particolari uomini, che il senato voleva e riparare e compensare all'accusatore, se veramente egli avesse voluto essere riparato e compensato: si offeriva la restituzione di Bergamo e di Brescia, quando appunto Bergamo e Brescia erano state fatte ribellare dall'offeritore, e nominatamente Bergamo e Brescia date in mano all'imperatore; si comandava che si disarmassero i popoli Veneziani, perchè amavano meglio esser Veneziani che Francesi ed Austriaci, ed appunto si comandava che si disarmassero, perchè il comandatore potesse meglio, e più comodamente dargli in preda ad un dominio forestiero; muovevansi lagnanze sui predicatori, come se i predicatori avessero dovuto inculcare piuttosto la tirannide forestiera che la signorìa paesana, e non fosse loro lecito il difendere la patria contro un tradimento; si voleva che il senato mantenesse la quiete nella terraferma, non con masse incomposte, ma con genti regolari, e poi quando mandava genti regolari, i comandanti Francesi negavano loro i passi pei ponti, per le strade, per le fortezze, e gridavano volere Venezia far guerra alla Francia; si domandava finalmente che il senato non pensasse solamente alle lagune, ma avesse cura anche della terraferma, quando già si era accusato, e minacciato il senato, solo perchè aveva armato l'estuario, per modo che l'armare ed il non armare era da Buonaparte imputato a delitto al senato. Insomma chi conosce i patti di Leoben già offeriti molti mesi prima dal generale del direttorio all'Austria, già concertati nella tregua dei sette, poi solennemente stipulati nei preliminari dei diciotto, conoscerà facilmente di che sapessero le parole di Buonaparte. Quel volere poi che si liberassero i carcerati per opinione, fra i quali si annoveravano non pochi Bresciani, Bergamaschi e Salodiani, e lo stesso Gambara, presi combattendo con le armi in mano contro il proprio principe, era oltraggio di sovranità, incentivo di ribellione.
Rispondeva per bocca del doge il senato a Buonaparte: «Nella somma amaritudine che ha sentito il senato nel conoscere dalle vostre lettere, avere l'animo vostro concetto sinistre impressioni sulla ingenuità della nostra condotta, ci riesce di qualche conforto il vederci aperta la via di poterle pienamente dileguare con le pronte e precise nostre risposte. Vuole il senato, ed ha sempre voluto vivere in pace ed amicizia con la repubblica di Francia, e piacegli in questo punto ratificare solennemente questa sua risolutissima volontà. Nè potrebbe certamente una così aperta, e così solenne dichiarazione venir oscurata da accidenti, che con lei non hanno correlazione alcuna: poichè, sorta la fatale, e del tutto inaspettata rivoluzione nelle città nostre oltre Mincio, la fede e l'amore delle popolazioni le fece correre spontaneamente all'armi col solo intento di frenar la ribellione, e di respingere le violenze dei sollevati. A questo unico fine implorarono esse dal proprio governo assistenza, e presidj; che se in tanto turbamento di cose sorsero alcuni accidenti disgustosi, alla confusione inevitabile debbono unicamente, non alla volontà del governo attribuirsi. Tanto è alieno da essi il senato, che, per allontanare anche il più rimoto pericolo, ha con recente manifesto comandato ai sudditi, che contro i sollevati non istessero ad usar le armi, se non nel caso della propria difesa. Ma essendo noi su tale argomento disposti a secondare con le opportune risoluzioni i vostri desiderj, bene conoscerà la equità vostra, che al tempo medesimo diventa necessario che l'amore volontario delle popolazioni fedeli verso di noi, e la comune nostra tranquillità siano guarentite da insulti esterni, e da perturbazioni interne. Vuole, ed è pronto il senato a soddisfarvi dell'altra richiesta, per castigo e consegna di coloro che han commesso uccisioni sulle persone dei vostri soldati, e sarà per noi diligentemente ordinato, che siano conosciuti, arrestati e secondo i meriti loro castigati. Per conseguire più acconciamente, ed a contentezza d'ambe le parti tutti i raccontati effetti, mandiamo due legati a voi, dai quali intenderete la somma compiacenza nostra, e insieme quanto grato ci sarebbe, che voi interponeste l'efficace vostra autorità presso al vostro governo per ricondurre all'ordine, ed al primiero stato le città d'oltre Mincio, che si sono da noi allontanate. Con questo vi confermiamo di nuovo, e protestiamo la costanza, e la sincerità dei nostri sentimenti verso la vostra repubblica, in un con la molta osservanza, in cui abbiamo la vostra illustre e riputata persona».
Deputava il senato per alleggerire i sospetti, e per intrattenere Buonaparte dell'estremo fato della patria, Francesco Donato censore, e Leonardo Giustiniani, savio alla scrittura uscito. Intanto funeste novelle consentanee all'aspetto delle cose presenti, ed annunziatrici di ultima ruina, arrivavano da Vienna e da Parigi. Avvisava l'ambasciador Grimani, apparir segni che la repubblica avesse ad esser data in preda all'Austria; in questo adoperarsi la corte di Napoli per istornar la tempesta da lei; adoperarvisi la Spagna, adulatrice di Francia, e desiderosa che il duca di Parma acquistasse un incremento di territorio col titolo di re: avervi anche le mani mescolate il re di Sardegna, in cui rimaneva l'antica cupidità di allargarsi in Italia; affollarsi tutti intorno a Francia, adularla, prometterle, esortarla a male opere; non aver più amici la repubblica debole, esser fatta bersaglio alle potenze, bramose tutte di prendersi quel d'altrui; starsene cupa e silenziosa l'Austria; esser disposta ad accettare il prezzo; pure splendere ancora un raggio di speranza, se si mantenesse intero ed incorrotto l'antico governo; cambiarlo, aver ad essere la morte della repubblica. Così i potentati Italiani stessi, in preda ancor essi alla cupidigia del volere appropriarsi quel d'altrui, non giudicavano quanto fosse a proposito della salute d'Italia il non lasciar perire Venezia.
Simili cose scriveva il nobile Querini da Parigi, ma come se velate da maggior dissimulazione alle orecchie sue pervenissero; perchè ora erano minacciose le parole del direttorio, ed ora dolci; ora accusava Venezia, ed ora la scusava, e da tante ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre l'ambasciadore Veneto, se non se che si macchinava qualche gran trama contro la repubblica, e che era pericolo che l'Austria, per consentimento della Francia, se la rapisse. Ma perchè non mancasse alcuna lagrimevole condizione in così grave e così vicino pericolo, fu provato da gente vendereccia di sottrarle denaro sotto promessa di salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si appresentava al nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare la repubblica; che in quel punto stava deliberando il direttorio, se convenisse spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano forte al senato, o di condurle a compimento con dare fomento ed ajuto ai ribelli; che due direttori erano in favore della repubblica, due contro, il quinto in pendente; che quello era il tempo di spendere per la salute comune; che ove il senato volesse dar sette milioni di franchi, Venezia sarebbe preservata; che di presente abbisognavano seicento mila franchi pel direttore titubante, con altri cento mila pei beveraggi agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità di obbligare il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi dal Viscovich, che la cosa era alle strette, che quello non era tempo da perdere, che se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la morte della repubblica, si lasciava tirare a dir del sì per somma sua divozione verso la patria, e sottoscriveva biglietti per seicento mila franchi sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito, finchè non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a Buonaparte, intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma, e ridurre le città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini; bensì gli fu consegnata una carta col titolo in fronte, e colla marca del direttorio esecutivo, e sottoscrizione del segretario di Barras, per cui si affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta dal direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a Venezia: mandavasi al console in Genova, s'intendesse con Pallavicini, perchè obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione l'ambasciatore di quello che avesse a succedere; ma vedendo le cose della terraferma andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich della restituzione dei biglietti. Negava il Dalmata la restituzione. Furono presentati a Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il cambiamento dello stato, acciocchè ne effettuasse il pagamento: gli protestava; fu carcerato, ed esaminato per ordine del direttorio per querela di aver voluto corrompere il governo Francese. Questa fu veramente un'arte cupa; perchè, se vi fu corruzione, e certamente in qualcheduno fu, ella non andò già da Querini ad altri, ma da altri a Querini.