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Danza macàbra

Danza macàbra
Amico e maestro dilettissimo,
Firenze, 25 gennaio 1894.Intitolando al chiaro nome di Lei questa mia commedia, io pago un debito antico e per me sacro.
Chè di tutte le cose belle e buone che sono sulla terra, l'amicizia – intesa e praticata come la intendevano e praticavano gli antichi romani – è la più alta, la più gentile, la più sacra! oso anche dire la più vera.
E Lei è stato sempre per me un amico, un fratello.
De' molti e salutari suoi consigli ho fatto in ogni tempo tesoro: e se ho potuto dare al teatro italiano qualche commedia non del tutto infelice, a Lei, a Lei solo, lo devo.
Confessandomene in pubblico, adempio un dolcissimo dovere; e dandole il caro nome di maestro, dirò solo, e a mala pena, ciò che il cuore mi detta.
Da Lei ho imparato ad amar l'arte sul serio: da Lei mi son venute le prime norme dello scrivere per il teatro: dalla lettura delle sue dottissime critiche l'insegnamento più utile e più salutare.
S'abbia, dunque, con la povera offerta di questa mia Danza macàbra – che la buona critica italiana ha giudicata degna figliuola delle Rozeno – , tutto il mio cuore e tutta la mia ineffabile gratitudine.
Con affetto di discepolo, di amico, di fratello m'è soprammodo caro dichiararmi
Affezionatissimo
CAMILLO ANTONA-TRAVERSI.Al cortese che mi legge,
Bologna, 1.º decembre '93.Dimorando in Roma, dove passo i migliori mesi dell'anno, ho assistito, in questa fine di secolo, a molte tragiche vicende; ma nessuna di esse ha tanto commosso la mia fantasia, quanto lo sfasciarsi delle colossali fortune delle principesche famiglie romane.
Qual immensa rovina: qual crollo formidabile di tutto un passato storicamente importante: quale sfacelo doloroso e terribile delle maggiori glorie avite, delle più nobili tradizioni, delle più colossali ricchezze, della vetusta opera di tanti secoli!
Chi, or sono pochi mesi, con la mente e il cuore pieni degli storici ricordi delle maggiori famiglie del superbo Patriziato romano, si raggirava – muto e silenzioso – per le sale ampie e solenni de' lor palazzi, un giorno così sfolgoreggianti di una folle ricchezza, non dubbia testimonianza di un fasto, ch'ebbe i più grandi splendori; e, oggi, deserti d'ogni arazzo, d'ogni tappeto, d'ogni mobile, d'ogni oggetto di lusso, d'ogni quadro, d'ogni vaso antico, d'ogni stemma nobiliare, d'ogni segno della grandezza di un tempo; non isfuggiva, certo, a un senso di sacro terrore e d'incommensurabile pietà.
Perchè si può essere, fin che si vuole, figli di questi giorni, così densi di nobili aspirazioni verso un presente più umano, più civile, più sociale, più vicino alla religione predicata da Cristo, e riaccostantesi assai più a' veri fini della natura e del consorzio civile; ma non è possibile, per chi serbi almeno la scorza d'uomo, non sentirsi profondamente commosso dinanzi alla maestosa rovina di tanti secoli di nobiltà, di ricchezza e di gloria!
Certo la caduta del grande Patriziato romano è uno de' più benefici effetti del tempo che è il nostro. Quando una casta – sia pur storicamente gloriosa – ha percorso il ciclo assegnatole nel tempo, è legge salutare e naturale che si consumi e perisca; rinnovellandosi sotto altra forma, con altri aspetti; dando vita a nuove usanze, a nuove idee, a nuovo e assai più confacente decoro.
Il crollo di tutto un passato di dispotismo, d'ingiustizia, di sfida a ogni benessere umano e civile, di prepotenza, di assolutismo, d'ignoranza e di superstizione volgare, non può non riempire di giubilo ogni anima assetata dell'eterno Vero: ogni cuore anelante a quella morale e sociale rigenerazione della impoverita e sofferente Umanità. Ma, ripeto, l'artista e l'uomo di cuore non possono, al tempo stesso, vedere sparire, senza un senso di dolorosa mestizia e di sincero rimpianto, tutti i tesori artistici che, per tanti secoli, formarono il maggiore e miglior ornamento di tanta gente secolarmente grande e superba.
Portare sulla scena una di queste storiche famiglie romane: mettere i Vecchi di fronte a' Giovani: colpire gli uni e gli altri in ciò che era, sino a poco tempo fa, il lor più nobile retaggio; e in pieno petto: rappresentarli ne' loro stessi vizj: dipingerli, qual sono, per la maggior parte ignoranti, giocatori, scavezzacolli, sfaccendati, filibustieri: coglierli nelle non possedute virtù pubbliche e private: mostrare come i Giovani siano stati travolti dalla Borghesia, dalla quale si fecero afferrare senza preparazione di sorta alcuna: mettere a nudo la miseria intellettuale, la fastosa prosopopea, le meretricie debolezze, i vizj delle lor dame: fare, in una parola, che si distruggano per forza propria, anzichè per il nuovo impulso de' tempi novissimi; e non isfuggire insieme a quel giusto senso di commiserazione che pur devono e non possono non destare, parve a me, confesso, argomento de' più importanti per un commediografo moderno.
Innamorato di un tal argomento: raccolti in Roma tutti i documenti necessarj: studiate, da vicino, le cagioni di tanta aristocratica e imperversante rovina, m'accinsi animoso all'opera; non senza dubitare – confesso qui candidamente – delle povere mie forze e dell'ingegno poverissimo.
Il lavoro, da quando nacque nella mia mente, e si tradusse sulla carta, andò soggetto a innumerevoli trasformazioni. A mano a mano che davo vita a' personaggi da me studiati nella vita, m'imbattevo in difficoltà tecniche, non facilmente superabili. Si può voler essere veristi fin che si vuole sulla scena; e dichiarar guerra aperta a ogni convenzione, a ogni mezzuccio volgare: si può essere, come io sono, sacerdote della dea Verità; tendere al Vero umano semplicemente; ma non è possibile sfuggire del tutto alle dure pretensioni e alle fatali strettoje sceniche: di qui, solo di qui, difficoltà senza numero, che solo coloro i quali hanno scritto almeno una volta per il teatro, possono intender di leggieri.
In tanto, il mio ottimo Cesare Rossi – che, dopo il successo delle mie Rozeno, da Lui e da' bravi attori della sua Compagnia portate trionfalmente per i maggiori teatri d'Italia, aveva riposto in me e nell'arte mia la più cieca fiducia – non mi dava tregua; e mi tempestava di lettere e di amichevoli sollecitazioni. E, come lui, così i suoi attori, miei carissimi amici, interpreti assai degni delle mie povere, ma sincere, commedie. Io, afflitto anche da una grave malattia d'occhi, cagionata dal soverchio lavoro notturno, facevo orecchi di mercante; e non cessavo, in tanto, dall'accarezzare e fermar meglio nella mente i personaggi, cui vagheggiavo toglier dalla vita per trasportare, senza ipocrisia e non senza coraggio civile, sopra la scena.
Io promisi, almeno per quanto è consentito alla volontà umana, di consegnare all'illustre Attore la mia Danza macàbra perchè la rappresentasse, nel mese di ottobre, al teatro Alfieri di Torino. E, detto fatto, mantenni la parola data.
Questa volta – grazie al cielo e al buon successo continuato delle Rozeno – non ebbi a soffrir davvero, nè ad aspettare più d'un anno, per vedere questa mia Danza brillare, od oscurarsi, all'incerto lume della ribalta.
Uso a mantenere la mia parola, da Bologna, dov'era in cura de' miei poveri occhi, mandai il copione della Danza a Torino: e una cara lettera di Cesare Rossi m'avvertì che la commedia sarebbe stata messa subito in prova e studiata con gran diligenza e infinito amore.
«Il tuo lavoro – mi scriveva l'illustre Attore – pare a me, e a' miei Compagni, superiore per tecnica e pensiero alle Rozeno: resta solo a vedere se avrà, per il pubblico, la stessa teatralità. Te lo metto subito in prova, e ti aspetto a Torino.»
Non avevo fatto leggere a nessun amico, e a nessun critico, la mia Danza: e ciò non per sentimento d'immodestia o soverchia fiducia nelle mie forze; sì bene perchè intimamente persuaso che qualunque suggerimento, o consiglio, se da me trovato giusto, m'avrebbe costretto a mancare alla parola data, e alla andata in iscena a Torino; che i giornali avevano già annunziata.
Ebbi solo la ventura d'incontrare a Bologna, di passaggio, un amico carissimo, l'egregio prof. Zuliani, il ben noto e stimato critico dell'Italie e del Diritto; che già tanto conforto mi aveva dato quando scrissi le Rozeno. Lo pregai di volermi dare un'ora sola del suo tempo: ciò ch'egli fece con la solita tradizionale bontà. Udita che ebbe la mia Danza, m'abbracciò e confortò a spedirla, senz'altro, a Cesare Rossi. E io, lieto e rassicurato, conoscendo il grande valore e la sincerità dell'amico mio, feci così com'egli mi disse.1
Dopo quindici giorni di prove intelligenti e assidue sul vasto palcoscenico dell'Alfieri – prove che, se pur ce ne fosse stato bisogno, mi fecero capir meglio di quanta bontà e di quanto zelo siano animati i nostri Attori – andammo in iscena, dinanzi al pubblico delle grandi occasioni, la sera del 14 ottobre.
L'aspettativa era molta; perchè il fine e spassionato pubblico torinese, non che la critica, che in quella città è maestra di cortesia e di sapere, aspettavano da me, se non certo un capolavoro (ben altro ingegno e ben altra coltura ci vorrebbero!), un lavoro almeno dagl'intendimenti moderni e sociali.
La mia buona stella, e la squisita bontà del gran pubblico torinese, accorso in folla al teatro Alfieri, non che la somma valentia de' miei interpreti, fecero sì che il successo si determinasse sino dal primo atto; e si accalorasse a mano a mano che l'azione, negli atti seguenti, si disegnava nettamente.
Il secondo atto piacque; e, come il primo, mi procacciò varie chiamate al proscenio. Ma il grande successo, quello che fa venire le lacrime agli occhi e ti fa benedire al pubblico e all'arte, si determinò al calare della tela sull'atto terzo.
Non dimenticherò mai di aver visto quella folla, che poche ore prima paventavo tanto, sollevarsi in piedi e applaudirmi con tale assordante rumore e tale scrosciar di battimani, da commuovermi sino alle lacrime.
Come fu benedetta per me quell'ora, quel momento indimenticabile! Come mi sentii, in quell'istante, felice, pienamente felice! Come avrei voluto ringraziare tutti quegli spettatori a uno a uno, e dir loro quanto mi sentivo grato e commosso!
Il quarto atto coronò il lieto successo di tutto il lavoro, e mi procacciò altre numerose chiamate alla ribalta.
La battaglia era, dunque, vinta; interamente vinta. Il pubblico di Torino aveva, d'un tratto, afferrato l'intimo intendimento del mio lavoro; e aveva, con maravigliosa prontezza, colmato le lacune e riempiti i vuoti.
Io era, ripeto, come poche volte m'avvenne nella vita, felice, interamente felice!
La mattina di poi, i valorosi Cauda, della Gazzetta di Torino; Abbate, della Gazzetta del Popolo; Vittorio Banzatti, della Gazzetta Piemontese; Domenico Lanza, della Gazzetta della domenica confermavano, non solo il successo completo, ma lo ravvaloravano con le loro buone osservazioni critiche, mettendo in rilievo così i pregj, come i difetti dell'opera.
Le repliche furono nove, e sempre più liete.
Ma avrebbe un altro gran pubblico italiano apposto il suggello della propria firma al successo torinese? Ecco il dubbio che mi travagliava, e sminuiva la mia legittima contentezza.
Alla distanza di un sol mese, venne il giudizio de' Veneziani: un altro gran pubblico, noto per la severità e imparzialità sua: che giudica a teatro secondo il proprio sentire, e non si lascia dominare, nè persuadere, da' successi teatrali delle altre città; antico e fedele custode della gloriosa tradizione goldoniana. E fu un giudizio anche più entusiastico di quello datomi da' Torinesi. M'ebbi, al Goldoni, numerosissime chiamate, e ricordo ancora lo scrosciare degli applausi unanimi che echeggiarono e risonarono per ben otto volte nell'ampia sala dello storico teatro.
Le repliche, anche a Venezia, si seguirono con crescente successo; e, ciò che più giova, con piena e sincera soddisfazione de' Veneziani.
Gli egregj critici Toni (Munaro) della Venezia, Ricchetti dell'Adriatico, Mazzacolin dell'Arte drammatica, scrissero, sulla mia Danza, articoli magistrali, assai lusinghieri per la commedia, per l'autore, e per gl'interpreti.
A giudizio così de' critici di Torino, come di Venezia, io, senza far torto agli altri nostri Attori, non troverò, facilmente, chi possa e sappia incarnare il mio Principe Lanfranchi, come Cesare Rossi. E, di vero, sin dal primo comparire in sulla scena del magnifico Attore, il pubblico capì di avere dinanzi a sè un Principe romano autentico. L'atteggiamento aristocratico della persona; l'abito elegante e severo; la truccatura felicissima, nell'aristocratica semplicità sua; il modo tutto signorile di porgere; la misurata e non istudiata commozione nelle scene capitali del terzo e del quarto atto, arrivarono a ciò che, in gergo teatrale, dicesi una vera e propria creazione.
Anche questa volta, dunque, come per le Rozeno, m'ebbi nel sommo nostro Attore, non già un interprete, sì bene un vero e proprio collaboratore.
Teresina Mariani, che m'ha sempre portato fortuna, e condotto sempre con l'arte sua alla vittoria – ricordo, a chi nol sappia, che l'ebbi a prima interprete nel Matrimonio d'Alberto, ne' Cugini, ne' Tordi e fringuelli, e, da ultimo, nelle Rozeno, da lei a dirittura create – fu una Duchessa Silvia quale non avrei certo potuto sperare nè più efficace, nè più calda, nè più vera. Ebbe – specie nelle due scene finali del secondo e del terzo atto, e nella gran-scena del quarto col vecchio Principe – slanci, inflessioni di voce, impeti di sincerità e di passione, da trascinare il difficile pubblico veneziano e torinese a un applauso caldo, sincero, spontaneo.
Anche questa volta vado dunque debitore a questa Gentile, che in pochi anni ha percorso luminosamente sì grande cammino nella spinosa via dell'arte sua, le maggiori e più durevoli soddisfazioni.
Devo anche – è giustizia riconoscere – buona parte degli unanimi applausi avuti, all'arte semplice, sobria, efficace, corretta di Carlo Rosaspina; che incarnò l'Ingegnere Salvetti con quelle doti che fanno di lui uno de' nostri primissimi attori. Nelle scene finali del primo e secondo atto, e in tutto l'atto terzo – fatica speciale del primo attore – ebbe momenti d'impeto, di passione, di sincerità da meritarsi gli applausi più entusiastici.
Vittorio Zampieri fu, come sempre, efficacissimo, e – ciò che più giova nella Danza – singolarmente efficace. Il Tombari; N. Masi; U. Piperno; la gentile coppia Guasti; le brave signorine Annita Bergonzio e Maria Volante; gli egregj Mugnaini e Cantinelli; il sempre misurato e valoroso Colombari, recitarono da que' bravi attori che sono, e diedero non piccolo rilievo alle mie scene.
Difficilmente, confesso, troverò degl'interpreti più coscienziosi e più amici dell'Autore.
A tutti i miei affettuosi e sinceri ringraziamenti.
E, ora, alla mia Danza un augurio paterno: – possa essa, con simili o con altri non meno valorosi interpreti, danzare, per lunghi anni, sulle maggiori o minori scene d'Italia! —
Sia anche questo il tuo augurio, o caro amico lettore!
Camillo Antona-TraversiATTO PRIMO
Gran salone di ricevimento nel palazzo Lanfranchi. – Architettura del Rinascimento. – Nel fondo, a destra dello spettatore, porta altissima, formata di quattro colonne di marmo, e capitello di marmo, che comunica in una Galleria di quadri.
A sinistra, un camino artistico, anch'esso di marmo.
Al di sopra, in modo da coprire tutta la parete, grande arazzo. – Porte laterali. – Grandi portiere. – Mobili artistici e di lusso. – Lampadari di Venezia, con candele, e lampade a olio colorate. – Fiori. – Quadri.
Tra i mobili del fondo, in un angolo, un piccolo porta liquori con bottiglie e bicchieri.
Le poltrone, e i sofà devono esser disposti in modo da consentire a' personaggi di formare i gruppi.
SCENA I
All'alzare della tela, Giacomo e Ambrogio stanno accendendo le candele e i lumi del Salone e della Galleria. – Tommaso, in frak e cravatta bianca, entra dalla destra dello spettatore, seguito da Vittorio che ha in mano lettere e carteTomm. (ai servi) Accendete da per tutto… anche la Galleria… (a Vittorio) Vediamo… ho altro da dirle?.. (pensa) Ah, sì!.. (levando di tasca una carta) Bisogna spedire questo telegramma… e poi… poi non c'è più nulla!.. Può andare a dormire… (ridendo) e questo è l'ultimo ordine che le do!..
Vitt. L'ultimo!?
Tomm. Sì!.. Il Principe aderisce al desiderio da lei manifestato… e la impiega negli Ufficj della Società per il quartiere Lanfranchi…
Vitt. (con gioja) Davvero!? —
Tomm. Lui stesso… gliene darà domani la lieta notizia.
Vitt. (con espansione) Che lei, signor Tommaso ha voluto anticiparmi?.. Grazie!..
Tomm. (sempre ironico) È proprio contento di lasciarmi… di sottrarsi al mio giogo?!..
Vitt. (con sollecitudine) Le rincresce?!
Tomm. Di perderla?!.. Oh, no!.. Anzi mi fa piacere…
Vitt. (maravigliato) Come!?
Tomm. Non per lei… che, in fondo, è un bravo ragazzo…; ma perchè posso così impiegare un giovinetto intelligente… attivo… un vero lavoratore… che mi sta molto a cuore…
Vitt. Allora…
Tomm. Tutti contenti… e buona fortuna!.. (lo saluta con la mano).
Vitt. Oh, non mi congedo!
Tomm. Perchè?
Vitt. Dovrò vederla ancora, signor Tommaso, parecchie volte in questi giorni… La signora Duchessa mi ha dato una quantità di commissioni…
Tomm. Quali?
Vitt. Oh, le solite!.. Una lista di famiglie povere da visitare… per riferire, poi, sul vero stato… e sulle vere cause della loro miseria…
Tomm. (di cattivo umore) Dia a me… ci penserò io!
Vitt. Non vorrei che la signora Duchessa…
Tomm. (imperioso) Ho detto che ci penso io!
Vitt. Preme tanto alla signora Duchessa… e lei, signor Tommaso, è così occupato!
Tomm. Dia qui!.. Se lei deve stare al banco… è chiaro che non può correre la città per fare inchieste sul vero stato de' mendicanti…
Vitt. (consegnandogli la carta) Ha ragione… eccole la nota…
Tomm. Vada subito alla posta… altrimenti, troverà chiuso.
Vitt. Vado… (via a destra).
Amb. e Giac. (si avvicinano a Tommaso).
Tomm. (leggendo la nota rivolto a' servi) I soliti accattoni!
Amb. e Giac. (lo ascoltano ridendo e approvando) Già!..
Tomm. (c. s.) La vedova… con quattro marmocchi… l'operajo… ch'è caduto dalla fabbrica… La puerpera che non ha latte… L'artista a cui manca lavoro… ci sono tutti!.. (con sarcasmo). E tutti cantano miseria!.. La Duchessa se ne commuove… e manda il signorino… a verificare… e il signorino dice sempre sì, sì… perchè, trattandosi di elemosina, gli riesce facile… (con malignità) maneggiar quattrini!.. Ma è finita anche questa cuccagna!.. Da qui in avanti le informazioni sopra tutti questi morti di fame, le darò io!.. (Ambrogio e Giacomo ridono forte) Silenzio!.. Viene il Marchese… (I servi si ritirano in fondo, e tutt'e tre assumono un contegno rispettoso).
SCENA II
Gustavo, in frak; e dettiGust. (entrando dalla sinistra) Auff!.. Come mangia male il patriziato romano!.. Questa cucina bastarda, caro signor Tommaso, mi ha impinzato… senza nutrirmi!.. Delle pietanze romane… condite all'inglese… da un cuoco francese!..
Tomm. Al quale fanno perdere la testa!.. Il principe la vuole in un modo… La Duchessa, in un altro… Don Fabrizio dà un ordine!.. Il Duca gli contraddice!
Gust. E… tutti insieme… cospirano per far mangiare male i loro invitati!.. L'ho detto anche a tavola… I padroni ne hanno riso… ma è la verità!.. Se il Principe Lanfranchi non ha più nemmeno una buona tavola, non vedo che cosa possa giovarmi l'essere suo nipote!..
Tomm. Il signor Marchese ha voglia di scherzare!..
Gust. No… dico sul serio!.. Danaro non me ne dà!.. Dunque!?
Tomm. (ridendo) Oh, oh!.. Sempre di buon umore!..
Gust. E… almeno… ci fosse del cognac bevibile!..
Tomm. Ne abbiamo… e dell'eccellente, signor Marchese!
Gust. Allora… non è quello che servite in tavola!?
Tomm. Voglio portarglielo io stesso… (fa per andare)
Gust. (trattenendolo, col gesto) No!.. Me lo faccia portare… ma lei resti… perchè vorrei dirle una parola…
Tomm. (tra sè) Ci siamo!.. (fa cenno ad Ambrogio che esce e torna col cognac servendo Gustavo).
Gust. (avvicinandosi a Tomm.) E così?!..
Tomm. (con sussiego) Ecco… se si tratta d'un migliajo di lire… avrei trovata la persona…
Gust. Ma io ho bisogno di 5000 lire!.. Quanto alla terza persona… via… son ferravecchi!.. Le pare?! (sorseggiando il cognac) Eccellente davvero questo cognac!
Tomm. Ferravecchi!.. Come se il signor Marchese non sapesse che io sono un povero maestro di casa… a 60 scudi il mese!
Gust. (subito) E gl'incerti…
Tomm. Oh, ma molto incerti!
Gust. (sorridendo ironicamente) Già, già… anche quando s'amministra da 15 anni uno de' più grandi patrimonj di Roma!
Tomm. Mi son lasciato indurre a prestare qualche risparmio… che avevo fatto…; ma non mi ci prendono più!.. Lei sa bene che la settimana scorsa m'avrebbero sequestrato i mobili… per una cambiale protestata col mio avallo… se non fosse intervenuto il Principe… tanto buono!
Gust. Tre volte buono!.. Perchè a me, quell'affare del sequestro… non l'avrebbe dato a bere!.. È stato… sì, un colpo da vero maestro… di casa… ma a me… ripeto…
Tomm. (fingendo dolore) Mi maraviglio come il signor Marchese… possa credere a certe calunnie!
Gust. Calunnie!?.. Perchè?!.. Prima d'ogni altra cosa, si cercava di dissipare certe voci… di certi prestiti dati a grosso interesse… co' danari del Principe… dunque niente di male!.. E poi ho fatto una piccola inchiesta per mio conto… e il compiacente cugino della cambiale… potrebbe… nel caso…
Tomm. Insomma, cosa vuole che le dica?.. Dal momento che anche lei, per altro, non ci trova niente di male…
Gust. E le cinque mila lire?..
Tomm. Ebbene… sì… farò il possibile!
Gust. Sono parole un po' troppo vaghe!.. Mi occorrono questa sera.
Tomm. (spaventato) Questa sera?!
Gust. Già… altrimenti dovrei cavarmi il capriccio di parlare al Principe di quel tal sequestro… non foss'altro per sapere se, anche lui, è del nostro parere circa il… niente di male!..
Tomm. Ebbene… signor Marchese… a questa sera!..
SCENA III
Esther, con Enrichetto, dalla destra, attraversa la scena verso la sinistra. – Ambrogio e Giacomo portano l'occorrente per servire il caffè, deponendo tutto sulla tavola in fondo. – DettiGust. (a Tomm.) Oh, la bella Esther!.. (salutandola) Madamigella… come va il mio cuginetto?
Esth. (saluta Gustavo con civetteria e con affettata pronunzia francese) Sempre bene, signor Marchese.
Gust. (accarezzando Enrichetto) Lo accompagna dal nonno?
Esth. (sorridendo) Tutte le sere… alle frutta… La signora Duchessa… non lo vuole a tavola… prima…
Gust. Perchè Enrichetto è cattivo! (prendendolo in braccio) Dammi un bacio, birichino. (resta in disparte con Enrichetto).
Tomm. (a Esther, in maniera che odano i servi) Madamigella… una parola…
Esth. (rispettosa) Mi comandi, signor Tommaso…
Amb. (a Giacomo) Ora tocca a madamigella!..
Tomm. Lei è uscita oggi in carrozza?!
Esth. (con calma) Per ordine della signora Duchessa…
Tomm. (c. s.) E… ha fatto correre, per due ore, sotto l'acqua… una pariglia di ottomila lire!