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Lia
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La cosa si rivelò meno facile del previsto. Prima di tutto, era giorno di mercato nel Cortile della Mezzanotte, e a causa della neve le bancarelle erano tutte ammassate sotto i portici. Bisognava scavalcare ad ogni passo mucchi di castagne, noci, fichi secchi, gabbie di uccelli da cortile, e schiere di uccelli selvatici morti, portati dai cacciatori delle colline: gente dalla pelle scura, che sedeva accovacciata sui talloni, avvolta nei mantelli marroni con cui si mimetizzavano per meglio cogliere le loro prede, e che li rendevano simili a cumuli di terra. Dai ganci infissi nelle volte penzolavano file di salsicce fresche, tranci di carne affumicata di natura incerta. E per fortuna, molti a causa della neve avevano rinunciato a venire; in compenso, i cittadini di Morraine erano accorsi numerosi, allarmati dalla medesima neve. I venditori cercavano di approfittarne, e il vociare delle contrattazioni risuonava sotto le volte.

Ma dov’era l’androne che cercavo? Il primo androne, cioè, poiché da questo se ne dipartiva un altro, più stretto, che raggiungeva il cortile senza nome. La luce del giorno e la confusione del mercato rendevano tutto diverso. Mi fermai frastornato. Era come la ricerca della torre, pensai. Non l’avrei mai trovato. Una ragazzina mi si avvicinò offrendomi vasetti di miele, ma desistette subito. Dietro un mucchio di pelli appese, scorsi un arco di pietra sormontato da una testa di unicorno. Mi feci strada fra buoi, conigli, castori, ghibetti, volpi, tutti ridotti a piatti simulacri, da cui emanava l’odore acre della concia. Mi addentrai nell’androne. Ecco: a destra un arco tanto basso che alzando la mano quasi riuscivo a toccarne la sommità. In fondo, sulla parete di sinistra, si scorgeva un vago riflesso di luce. Ricordavo che il passaggio piegava bruscamente a destra. Come se si perdesse nelle viscere stesse di Morraine...

La neve, adesso, ricopriva per intero il selciato del cortiletto, e formava quasi una barriera all’uscita del corridoio, che alla luce del giorno appariva ancora più simile a un pozzo.

Mi fermai sotto l’arco. Non si sentiva il più piccolo rumore: come se Morraine fosse diventata una città morta... no: immersa in un sonno magico, come in una favola che mi era stata raccontata da bambino.

Alzai gli occhi. Un uccello nero attraversò obliquamente il quadrato di cielo grigio. Da un davanzale si staccò una falda di neve, che atterrò con un tonfo fragile. La finestra era protetta da una inferriata, dietro cui si intravedevano dei vetri sporchi, come di una stanza disabitata da molto tempo.

Anche alla luce del giorno non si scorgeva alcuna porta nel perimetro del cortile. Il muro del fianco destro era interrotto verticalmente da un contrafforte, che ricordavo di aver incontrato avanzando a tentoni nel buio. Era anche la direzione verso cui avevo visto sparire le impronte dell’alchimista.

Adesso il manto di neve era uniforme, e provavo una vaga riluttanza a disturbarlo.

Iko, mi dissi: è solo un cortile. E mi spinsi in mezzo alla neve.

Giunto al centro del cortile vidi: un gradino che spuntava dalla neve, nell’angolo fra il contrafforte e il muro; una porticina di legno annerito, larga non più di tre palmi, sopra il gradino; sopra la porta, molto in alto, una fenditura larga altrettanto, che saliva fino al tetto (anzi: i tetti, come se ci fossero due case separate!); e in fondo alla fessura, una torre che poteva o non poteva essere quella da cui ero fuggito qualche mese prima, e che avevamo cercato invano per tutta Morraine.

Dopo un tempo indefinito, ma sufficiente perché la neve sciogliendosi mi penetrasse nelle scarpe, mi avvicinai al contrafforte, e ripetei più o meno i gesti della sera prima. La mia mano passò dalla pietra dello spigolo a quella del muro, saltando la porta.

Tirai un sospiro. Un mistero, almeno, era risolto. Restava da spiegare come avesse fatto l’alchimista ad aprire la porta, che appariva priva di qualsiasi serratura. La spinsi, con una certa riluttanza, ma non si mosse di un’unghia. Fantasticai di qualche meccanismo segreto e tastai il muro intorno alla porta, e anche il gradino fin sotto la neve, trovando solo pietre molto corrose, con la malta fra gli interstizi quasi del tutto dilavata.

Mi resi conto che quella doveva essere una delle costruzioni più antiche di Morraine.

Alzai gli occhi, con un senso quasi di vertigine, e guardai nel varco fra i due edifici. Era un corridoio strettissimo... anzi... cercai nella memoria la parola che dovevo aver letto sui libri, perché non si usa a Morraine... un vicolo. Un uomo dalle spalle larghe avrebbe potuto percorrerlo solo di sbieco. La lunga striscia di cielo, fra i muri privi di finestre, sembrava una spada sul punto di calare.

Tornai al centro del cortile, da dove si poteva scorgere la torre. Forse era davvero quella del Cortile Segreto: la posizione corrispondeva. La piccola porzione visibile non mostrava comunque alcuna corda.

Un’altra falda di neve, cadendo vicino, mi fece sobbalzare. Mi guardai alle spalle. Il vetro di una finestra mandò un bagliore di luce grigia, come se si fosse mosso.

Non c’era altro da fare, lì. Con un senso di sollievo, abbandonai il cortile senza nome e ritrovai il consueto trambusto di Morraine.

(10) LA MAPPA


L’insegna diceva semplicemente:

ARNO BORISSEIN

Libri nuovi e usati

Sotto era dipinto il gufo, o la civetta, che già avevo visto. Nella vetrina erano esposti volumi polverosi, alcuni aperti per mostrare le illustrazioni. Molti erano in lingue straniere o in alfabeti sconosciuti. Non riconobbi nessun titolo.

Tirai un sospiro ed entrai.

Nessuna traccia del proprietario. Dalla porta socchiusa del retrobottega filtrava una luce. Mi avvicinai al bancone. Le mappe non erano state ancora rimesse al loro posto, e giacevano ammucchiate in un angolo. Allungai una mano.

– I libri usati non si cambiano.

Ritirai la mano di scatto, come se fossi stato scoperto a rubare. Il libraio era apparso da tutt’altra direzione che il retrobottega, forse da dietro qualche scaffale.

– Cosa credevi che fosse? – L’uomo indossava lo stesso abito della sera prima. Che non era eccessivamente pulito, come del resto la sua bottega.

Finalmente capii di cosa stava parlando.

– No, non volevo cambiarlo – dissi. – Cercavo... dei libri di teatro.

Arno Borissein mi guardò con sospetto. – Nuovi o usati?

– Usati...

– In questo caso, devi cercarteli da solo. Sono tutti alla rinfusa. – Indicò con un ampio gesto della mano la scaffalatura dove già avevo rovistato la sera prima. – Non posso certo metterli in ordine. La gente crede che fare il libraio sia facile. Nulla di più errato! Ci sono milioni di titoli, antichi e moderni; decine di migliaia di autori. Stampatori, editori, lingue e alfabeti. Occorre discernimento e cultura, pazienza e acume. E poi, di fronte al modesto prezzo di poche lire, o di misere piastre, storcono il naso! Ma un libro è stato pensato e scritto in lunghe notti di veglia; la carta macerata e pressata, i caratteri composti, ordinati, impressi. Le pagine cucite e rilegate. Il volume trasportato per mare e per terra, fino alla bottega del povero Arno di Morraine. Può essere letto e riletto da un numero illimitato di persone per un numero illimitato di volte. Eppure lo pagano una volta sola! – Alzò le mani al cielo, come chiamandolo a testimone di un’ingiustizia.

Io mi dedicai allo studio dei libri usati. Titoli ed autori mi erano per la maggior parte ignoti. Alcuni che suscitarono la mia curiosità li estrassi e li sfogliai. Arno Borissein, nel frattempo, aveva deciso di fidarsi di me e si era nuovamente eclissato.

Nel ripiano più basso scorsi un titolo promettente: Tragiche Historie. Si trattava di una raccolta di canovacci, scheletri di tragedie, senza alcuna grazia di stile o ricchezza di concetti, ma non privi di un fascino che derivava dalla loro essenzialità. Una cosa la rendeva preziosa ai miei occhi: la presenza, fra le sue pagine, della storia di Teseius e Phenissa.

Portai il volume sul bancone, per sfogliarlo meglio, e i miei occhi furono nuovamente attratti dalle mappe. Alcune erano arrotolate, altre ripiegate più volte; la carta era spessa, ma in genere ingiallita, con i bordi frastagliati; alcune mostravano i fili di un tela sottostante, che serviva a renderle più resistenti. Una sola appariva in buono stato; la presi, e la riconobbi subito: era quella che aveva studiato da ultimo l’alchimista.

Quando la toccai, mi parve di avvertire un brivido lieve: era liscia ma leggermente morbida, come un velluto finissimo. L’aprii, sperando di vedere il mare azzurro e profondo... I colori erano vividi, come appena stampati, ma dopo tutto era una normale mappa, e per di più illeggibile, a causa dei caratteri stranieri. Provai a inclinarla in varie maniere rispetto alla luce della lampada, ma la mappa continuò a negarmi le sue meraviglie.

Non mi ero ancora deciso a ripiegarla, quando riapparve Arno Borissein.

– Fai attenzione. Le mappe sono fragili.

– Questa... quanto costa? – mi sorpresi a chiedere.

– Ancora non hai deciso cosa vuoi? Ti avverto: è cara. Appartiene alla Prima Era. Non meno di otto lire!

Era una cifra esorbitante, per una mappa inutile, e lo feci notare al libraio.

– Inutile! – Arno alzò le mani al cielo. – Che ne sai tu?

Prese il volume delle Tragiche Historie. – Forse che queste servono a qualcosa? Ma la gente accorre a vederle, paga per sentirle recitare su un palcoscenico, magari da attori privi di talento!

L’argomento era doloroso, e preferii lasciarlo cadere. Tuttavia c’era qualcosa che non mi convinceva nel ragionamento di Arno.

– Le commedie sono fatte per essere recitate, le mappe per trovare dei posti – obiettai.

Arno Borissein sbuffò esasperato. Ma dopo un attimo, come fra sé, mormorò: – Alla fine, il teatro e le mappe sono solo degli espedienti per sognare.

Di nuovo Arno Borissein se ne andò, ed io di nuovo rimasi solo. La mappa mi attirava in maniera incomprensibile. La spostavo sul bancone, mi rimettevo nella posizione di due sere prima, cercando inutilmente l’abisso del mare e l’asprezza degli scogli e il tremolio delle foglie. Forse, dopo tutto, aveva ragione Arno, e me l’ero solo sognato...

Entrò un cliente. Arno lo servì, poi tornò da me con aria impaziente. E ancora una volta, come mi stava accadendo troppo spesso negli ultimi tempi, mi accorsi di aver parlato prima di pensare.

– Chi era quel signore che voleva acquistarla, l’altro giorno? – Arno ci mise un momento prima di rispondere. Il tempo che impiega una falda di neve per cadere da un tetto.

– Ah... l’Adepto. – Alzò le spalle. – No, non voleva comprare nessuna mappa. È sempre così. Chiedono le cose più strane, fanno perdere tempo, poi non comprano niente.

Non capii se parlava in particolare dell’alchimista, o in genere dei suoi clienti.

– Ma... viene spesso?

– Oh, no. Molto raramente. Rimangono quasi sempre chiusi in casa. I maestri, poi, non si fanno mai vedere.

Stavo per chiedere dove rimanevano chiusi, ma poi pensai che non ce n’era bisogno.

E alla fine, dopo aver molto mercanteggiato, uscii dalla bottega di Arno Borissein con la mappa e le Tragiche Historie, al prezzo complessivo di cinque lire e sei piastre. Che era più o meno tutto quello che avevo in tasca.

Chiuso nella mia stanza, mi misi a studiare la mappa. Era diventata quasi un’ossessione per me. La guardavo sotto ogni angolazione, alla luce del sole e della luna, dalla lampada ad olio e della candela. Niente...

O quasi.

Mi ero messo in testa l’idea impossibile di decifrarne la lingua sconosciuta. Avevo compilato un elenco di segni, che raggiungeva un numero esorbitante per qualsiasi normale alfabeto. Molti dovevano essere simboli, e infatti comparivano più volte sulla mappa vera e propria, e di solito una volta sola nelle iscrizioni lungo i bordi. Ma c’erano singolari discrepanze che rendevano impossibile riconoscere una vera e propria legenda. Alcuni segni, poi, si presentavano in forme diverse ma simili: mere varianti grafiche, o lettere diverse? In base all’oggetto indicato, decifrai in via ipotetica tre parole: fiume, monte, e baia.

Avevo diviso la mappa in settori, che non corrispondevano peraltro a quelli tracciati sulla carta, e che presentavano una bizzarra e apparentemente inutilizzabile combinazione di linee verticali, orizzontali e radiali: queste ultime che si dipartivano da due centri situati in maniera apparentemente arbitraria.

La notte era inoltrata e l’olio della lampada stava per finire. Chiusi gli occhi per la stanchezza. Forse mi assopii per qualche momento. Quando li riaprii, volavo. Sotto di me c’era il mare, attraversato da una striscia abbagliante di sole nascente. C’era l’isola verdeggiante, a forma di testa di cigno, con una laguna che si insinuava formando quasi il suo occhio, un molo e bianchi fili di strade. Al centro dell’isola, sul punto più alto, un grande edificio circolare, forse un tempio. Accanto ad esso, una guglia sottile gettava una lunga ombra sulle cime degli alberi.

Ero un uccello che scendeva ad ali distese, in una lenta spirale. Vidi le ombre girare lentamente, l’isola avvicinarsi... sbattei le palpebre, e il mare tornò ad essere di carta.

Il lucignolo della lampada sfrigolava. Emise ancora qualche scintilla e si spense.

Una lenta luce biancastra cominciò a filtrare dalla finestra: la luce della neve sotto un cielo notturno e nuvoloso.

Quel mare, pensai, poteva essere agli antipodi esatti di Morraine.

(11) STORIE TRAGICHE


L’anno giunse al punto più basso della sua ruota. Nella Notte del Grande Cerchio d’Ombra, com’è tradizione, i bambini di Morraine ricevono doni, portati da una fanciulla cieca

Quell’anno ebbi una cintura di cuoio, con una borsa, che ho poi usato per buona parte delle mie peregrinazioni; carta e inchiostri colorati; un flauto in legno di bosso intagliato, che non ho mai imparato a suonare con qualche competenza.

Qui il viaggiatore scosse la testa con rimpianto.

E altre cose che non ricordo.

Ah, sì: da una zia alcune lire, con cui tornai nella bottega di Arno Borissein, uscendone con certi romanzi a poco prezzo e una malconcia Storia Universale dei Viaggi, ossia Atlante delle Terre Antiche e Moderne, ricco di mappe su cui cercai invano la mia isola.

Ogni volta che avevo qualche soldo in borsa (che mi accadeva quando lavoravo meglio o più del solito nella bottega di mio padre, oppure grazie alle misteriose leggi della generosità degli adulti), andavo da Arno, o in un paio di altre botteghe che avevo scoperto nel frattempo, dove vendevano libri di seconda mano.

La sera, mi ritiravo nella mia camera a leggere.

La chiamo camera, anche se in verità non lo era, esattamente. Forse vi interesserà sapere com’era fatta

All’angolo sud-ovest del Cortile del Nano si leva una torre massiccia, non tanto importante da meritare un nome. A ridosso di questa, una fetta di tetto era stata rialzata da qualche nostro antenato, onde ricavare le stanze dove abitavamo. Qualcuno, in seguito, aveva trasformato parte di questo tetto in una terrazza. E mio padre, quando nacqui, aggiunse la mia stanza. Così cresce Morraine: non allargandosi, ma innalzandosi e aggiungendo con grande parsimonia cellule al proprio tessuto di tetti. C’è da aggiungere che noi di Morraine, forse proprio perché viviamo tutti in una stessa casa, ci teniamo molto a potercene stare da soli, quando vogliamo. Ed è un privilegio che i genitori, appena possono, cercano di accordare anche ai loro figli. Io poi ero il primo.

Così mio padre, quando avevo compiuto appena qualche mese, andò insieme a parenti ed amici sulle colline ai piedi dell’Yiril, dove solitamente si procurava il legno per la sua bottega, e abbatté un pino non troppo alto. Ne ricavò due robuste travi, che a forza di braccia, di muli e di un carretto trasportò a Morraine. Nella sua bottega le scorticò, le piallò, le lavorò. Dal Cortile del Nano le travi vennero issate sul tetto con grande concorso degli abitanti del cortile stesso, e posate di sbieco fra il muro della nostra casa e due sostegni sporgenti dalla torre: una per reggere il pavimento, l’altra il tetto. E così, quando fui un po’ più grande, mi ritrovai con una stanza trapezoidale, il letto che occupava uno dei lati (e per quanto ne so lo occupa ancora), un armadio quello opposto, un piccolo tavolo sotto la finestra, che guardava il sorgere del sole. Non avevo da lamentarmi: esistono stanze ancora più piccole o più bizzarre, a Morraine.

La forma della mia stanza e la sua storia, devo dire, non sono affatto importanti per capire gli eventi successivi del racconto. Servono solo a farvi immaginare meglio quel ragazzino magro e sgraziato, mentre alla luce di una lampada studia la mappa che genera sogni di uccello.

Una di quelle sere, in mancanza di meglio, affrontai perfino i Fiori di bianco prato. Scoprii così che il prato in questione era il foglio e i fiori le parole. Appresi anche che si trattava di una metafora. O forse di un enigma: la distinzione non era del tutto chiara. Malgrado la prosa arcaica, trovai la lettura non priva di interesse, in parte grazie alla moltitudine vertiginosa di esempi, in parte grazie a quel fascino inquietante che è proprio dell’astuzia combinatoria.

Concepii così il primo germe di un piano temerario, ma come si vedrà in seguito non del tutto infruttuoso.

Ricordavo, infatti, a proposito di quel penoso tentativo di rappresentazione, su cui nessuno di noi era più tornato, che l’unico mio contributo a non aver suscitato imbarazzo era stato l’adattamento della ridondante versione del Mago di Qom in nostro possesso. Di qui la mia idea: se non sapevo recitare, la strada della scrittura non mi era preclusa! E chissà, un giorno Lia avrebbe perfino potuto recitare i miei versi!

Visto in questa nuova luce, l’acquisto del tutto casuale dei Fiori, seguito da quello, più deliberato, delle Tragiche Historie, acquistava l’apparenza di una predestinazione. Quale occasione migliore per mettere alla prova le mia capacità poetiche, che fornire le ossa dell’eloquenza, la carne della passione, il respiro del sentimento, a quegli scarni canovacci? Come vedete, avevo già cominciato a pensare per immagini.

Rilessi da capo i Fiori, e cominciai ad addentrarmi nei sentieri impervi della versificazione. I metri teatrali, nelle terre dove si parla la lingua yld, richiedono per tradizione un intreccio fra quantità e rima, reso complicato dal fatto che sono ammesse molte, ma non arbitrarie, licenze poetiche.

Si trattava poi di scegliere l’opera in cui cimentarmi. Scartai subito il Teseius e Phenissa, non osando misurarmi col ricordo, ancorché impreciso, di ciò che avevo udito recitare dalle labbra di Lia. Il Mago di Qom lo evitai per ragioni facilmente comprensibili. Altre trame erano troppo lunghe, altre ancora non eccitavano la mia fantasia.

Mi decisi alla fine per La schiava di Palaphon, storia di un amore infelice e di un mago: una combinazione che mi attirava per le affinità che immaginavo con le vicende di Lia. Una mago prevedibilmente crudele aveva rapito una fanciulla. Di lei si innamora un suo discepolo; il mago gliela concede, come dono per la sua fedeltà. Anche la fanciulla, forse, si innamora di lui. Ma quando scopre di attendere un figlio dal mago, preferisce darsi la morte.

Poiché la tragedia mi appariva eccessivamente cupa, decisi di introdurre qualche brano più leggero. Ispirandomi al burattino che avevo visto danzare per Lia, scrissi un intermezzo comico, in cui un buffone cerca di far sorridere la fanciulla.

Rileggendo il manoscritto dopo qualche tempo, scoprii che quella era la scena migliore (forse l’unica degna di essere salvata) della mia versione di Palaphon.

Suppongo avessi allora intuito, pur senza rendermene conto, che se il teatro deve essere uno specchio della vita, allora non può mai essere né del tutto tragico né del tutto comico.

Che non sarà forse un pensiero così originale, ma allora a me venne per la prima volta.

(12) LA FALENA LUNARE

Esitando, le giornate si fecero più lunghe. Qualche volta dalla pianura dell’Araq, il fiume che scorre parecchie leghe a occidente di Morraine, giungeva un vento che sibilava fra le fessure delle finestre, ma portava il profumo appena percettibile, e forse solo immaginato, della primavera.

– Quale maschera indosserai? – mi chiese Jues un pomeriggio, mentre sedevamo tutti e tre nella nostra soffitta, ascoltando il vento che si insinuava nelle feritoie per i colombi, insieme ai raggi obliqui di un sole arancione. La domanda era particolarmente seria. Quell'anno, per la prima volta, noi tre avremmo indossato le nostre vere maschere.

E io dissi: – Una falena lunare.

– Tutte le falene sono lunari – disse Lucibello. – Escono di notte.

– Una falena lunare è una falena che vive sulla Luna – precisai io.

– E come sarebbe fatta? – chiese Jues.

Qui ebbi qualche esitazione. – Non lo so bene, ancora.

– E come farai a saperlo? Andrai sulla Luna? – mi prese in giro Lucibello.

Non mi degnai di rispondere.

– Ma cosa significa? – chiese Jues.

Questa era la domanda più difficile.

Dovete sapere che a Morraine nel Mese-delle-Maschere si celebra la Festa delle Maschere.

In quasi tutti i paesi che ho conosciuto esiste una festa di questo tipo; alcuni sostengono che sia la più antica del mondo, poiché per quanto lontano si risalga nel tempo conosciuto, gli uomini hanno sempre amato indossare una maschera. Una maschera, per sua natura, serve a nascondere il volto. Ma noi, a Morraine, riteniamo che una maschera debba essere più vera del volto che copre. Come uno specchio magico, che svela la verità.

Ma poiché la verità, soprattutto su noi stessi, è insopportabile se affrontata quotidianamente, essere saggi è lecito solo una volta all’anno.

Tale, benché bizzarra, è la Festa della Maschere di Morraine.

Ma ciò non le impedisce di apparire a un qualsiasi viaggiatore che la osservi (e molti giungono appositamente anche da città abbastanza lontane in questa occasione) non molto diversa dai normali carnevali.

Perché dunque questa immaginaria falena lunare si era impossessata di me?

In primo luogo perché era immaginaria, in secondo perché era lunare, in terzo perché era una falena. Questo fu quanto spiegai ai miei due amici, che com’è ovvio non rimasero molto soddisfatti della risposta.

– Il fatto che sia immaginaria significa che stai inseguendo una chimera – suggerì Jues.

– Questo lo sapevamo anche prima – sbuffò Lucibello, prevedibilmente.

– Ma perché lunare?

– Perché è lunatico. Cioè matto!

– E la falena?

Lucibello batté le mani. – Perché vola solo di notte. Cioè nei sogni!

Io ero rimasto zitto.

Le spiegazioni dei miei due amici non erano prive di fondamento. Ma al contempo, non erano del tutto vere, o almeno così mi pareva. Quale fosse la verità, d’altra parte, sfuggiva anche a me.

Mi misi comunque al lavoro.

Alcuni si costruiscono le maschere interamente da soli. Pochi se le fanno fare su ordinazione da artigiani specializzati. Molti utilizzano quelle dell’anno prima, o quelle dei loro padri, o dei loro nonni, e così via per molte generazioni. Nessuno le affitta: la maschera, come ho detto, è un affare troppo personale. Si può mentire agli amici o ai parenti; non alla propria maschera.

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