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L'Ultima Opportunità
L'Ultima Opportunità

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Effettivamente, le notizie della Grande Ribellione erano arrivate anche al Polo Nord ma umani e animali credevano che non li riguardassero. Quella era una terra dura, difficile, quasi deserta; l’equilibrio naturale era stato sempre importante e, tranne qualche stolto che cercava di far fortuna con le pelli dei cuccioli di foca, fuggiti a gambe levate inseguiti da una mandria di orsi stufi di quei briganti, il rapporto tra umani e animali era sempre stato stabile.

Renato e Renata, due gemelli di orso polare (una vera meraviglia a dire il vero) erano giovani e curiosi, giocavano spesso sulla neve rincorrendosi facendo finta di essere arrabbiati. In realtà i due fratelli si volevano bene e godevano di questi momenti insieme. Era fantastico vedere due giganti di 250 chili scivolare sulla neve. Quel giorno Renato e Renata decisero di andare al mare. Di solito giocavano in prossimità della riva ma oggi volevano salire su un iceberg e cercare di fare quello che avevano visto fare ai loro amici umani: remare.

All’inizio tutto era andato liscio. Era così piacevole vedere i loro parenti sulla terraferma mentre loro credevano di essere su una nave, del tutto simile a quelle che ogni tanto vedevano da lontano! Dal momento della loro nascita la loro mamma gli aveva nascosto questo genere di cose. Improvvisamente, quel grande pezzo di ghiaccio, che si era spostato così piacevolmente, cominciò a muoversi da destra a sinistra e a girare su sé stesso. Scorreva veloce sull’acqua come fosse una balena furibonda. Cosa stava succedendo? A volte il pezzo di ghiaccio si immergeva verso sinistra, a volte verso destra. Renato e Renata non capivano niente. Cercarono di non cadere in acqua dal momento che si erano resi conto che la terraferma era molto lontana. Certo che sapevano nuotare ma non erano convinti che sarebbero riusciti ad arrivare a riva. La terraferma era sparita dalla loro vista. Non sapevano come agire. Era chiaro che stavano andando verso sud ma non avevano la più pallida idea di dove sarebbero arrivati. Finalmente l’iceberg si stabilizzò e tornò a muoversi con calma. Renato e Renata si guardarono intorno: acqua, acqua e ancora acqua. Erano rimasti da soli nel mezzo dell’oceano.

-“La mamma ci ammazza” –disse Renata, che era stata la prima a riprendere a parlare.

-“Se riusciamo a tornare” –rispose Renato.

-“Cos’è quello?”

-“Dove?” –chiese l’orso maschio seguendo la direzione che mostrava la zampa della sorella.

-“Proprio lì”- insisté lei.

Renato vide delle ombre molte lontane. Rimasero a guardare le ombre un bel po’ fino a che videro sgorgare dall’acqua due forti getti verso il cielo.

-“Balene! Sono balene!” –urlò Renata.

-“E questo ti fa felice?”

-“Sei un cretino. Le balene viaggiano vicino alla costa. Se riusciamo ad arrivare fin lì vedremo la terraferma.”

-“E poi?” –chiese Renato che non era per niente convinto che quella fosse una buona idea.

-“Ci penso io.”

Renato tacque. Sua sorella aveva sempre ragione. E così si sedettero sul bordo dell’iceberg e con l’aiuto delle loro zampe cominciarono a remare verso quel punto così lontano.

Ci misero un sacco di tempo ma, alla fine, ci riuscirono. Erano stanchi morti ma felici, a non molti metri vedevano la costiera e le balene così lontane, ma decisero di seguirle, in modo da non sbagliare rotta. Forse loro, che viaggiavano spesso, avrebbero potuto dirgli come fare per tornare a casa. All’inizio era sembrata una bella idea quella di viaggiare in mare, ma adesso che erano lontani dalla loro famiglia desideravano ritornare il più presto possibile. Non ci riuscirono. Le dimensioni dell’iceberg avevano cominciato a diminuire, forse il caldo che faceva, forse... a dire il vero non sapevano bene cosa pensare di ciò che stava succedendo ma dovevano arrivare a un posto sicuro prima che l’acqua del mare li lasciasse senza un punto di appoggio, soli e nel mezzo di quelle acque troppo calde per loro. L’iceberg si mosse di nuovo da un lato all’altro, come se avesse vita propria e volesse mettergli paura, e di nuovo provarono quella forza della quale non sapevano l’origine, che li spingeva a caso senza che loro potessero fare niente. All’improvviso videro una specie di spiaggia, molto diversa dalle spiagge di ghiaccio che conoscevano. Sembrava che il mare si rimpicciolisse e entrasse nella terra, e la forza che muoveva l’iceberg fece sì che si inoltrassero in quel corridoio d’acqua mentre l’iceberg continuava a mescolarsi con il mare che lo circondava. Le balene, molto lontane da loro, non si erano accorte dei guai in cui si erano cacciati i cuccioli d’ orso polare e continuarono il loro percorso verso sud.

In questo modo Renato e Renata cominciarono un viaggio verso l’ignoto. Erano arrivati in Danimarca.

Non erano solo due balene quelle che avevano visto dall’iceberg. Era un gruppo di dieci balene che viaggiavano insieme con lo scopo di arrivare al sud dell’Europa per vedere quello che stava succedendo; all’inizio del loro cammino avevano incontrato un’altra compagnia che ritornava da quella parte di mondo raccontando che era cominciata una lotta crudele tra animali e umani. Ma la lotta era sempre stata crudele, loro lo sapevano benissimo. Gli uomini cacciavano gli esemplari della loro specie e le balene avevano fatto sempre tutto il possibile per difendersi da questa caccia. Perché questa guerra doveva essere diversa?

Le balene che venivano dal sud dissero che questa volta la lotta era più crudele, senza tregua. Loro avevano deciso di tornare al nord e lasciar perdere.

-“Noi non c’entriamo con questa storia” –disse Maurizio –“ritorniamo. Questa guerra di uomini, macchine e animali non ci interessa. Venite con noi, tornate a casa”.

-“Noi invece vogliamo vedere....” –cominciò a dire Fabrizio.

-“Non lo fate.” –tagliò corto Maurizio. –“È molto pericoloso.”

-“Ti ringraziamo per la tua preoccupazione” –rispose Fabrizio mentre guardava gli amici che lo accompagnavano in quest’avventura –“ma credo proprio che non ci disturberanno.”

-“Come volete. Buona fortuna. Andiamo”

-“Grazie. Buona fortuna anche a voi”.

E così Fabrizio e i suoi amici proseguirono il loro viaggio verso sud perché la loro curiosità era più forte della prudenza.

Viaggiarono per giorni verso sud, costeggiando l’occidente d’Europa; non furono disturbati dagli uomini. Di fatto non videro neanche una nave nel loro percorso; era tutto molto strano. Fabrizio pensò se quel viaggio fosse stato davvero una buona idea. Ovunque c’era una calma che non era per niente normale. Di solito, quando volevano incontrarsi con le femmine della loro specie e facevano questo stesso viaggio, vedevano persone sulle spiagge e marinai che faticavano lavorando con le reti,. tirando le sarde dal fondo del mare; vedevano quelli con i velieri lucidi, le donne sdraiate in coperta; vedevano persone che facevano pesca subacquea. Vedevano cioè un sacco di cose, mentre adesso, tanto la costa come la superficie del mare, erano deserte. A volte, dove prima si ergeva un paesino ora c’erano solo rovine di palazzi bruciati o distrutti. Altre volte vedevano soltanto cani, galline, maiali, gatti passeggiare tra le macerie. Ma non vedevano né uomini né donne o bambini. Cosa stava succedendo? Forse Maurizio aveva ragione ed era veramente pericoloso viaggiare verso sud? Sembrava che soltanto lui avesse questi dubbi, mentre i suoi compagni erano contenti di quest’avventura. Ritornare indietro sarebbe stata una sciocchezza, proprio adesso che stavano per raggiungere il loro scopo. Costeggiarono la Galizia e poi il Portogallo e videro a sinistra quello che gli uomini chiamavano lo Stretto di Gibilterra. Sapeva che, circondando quel piccolo mare, c’erano un sacco di paesi, gliel’aveva detto una foca. Loro non si erano mai azzardati a entrare in quei posti, ma adesso.... beh, lo fecero. Videro una piccola barca carica di uomini, donne e bambini, tanto fragile che Fabrizio non capì come mai non fosse già affondata. Si allontanarono, non volevano fargli del male. Continuarono il loro viaggio. Da lontano si scorgeva una costa molto lunga dalla forma bizzarra. Passarono tra due isole che sembravano essere disabitate e dopo aver costeggiato il sud di quel paese a forma di stivale, continuarono verso nord. Era così straordinario non vedere nessuno, non sentire un rumore; quel silenzio... e all’improvviso una nebbia fitta fitta li avvolse. Fabrizio non vedeva la sua coda e tanto meno i suoi compagni; cercò di capire dove si trovassero gli altri, emettendo il suo suono caratteristico, ma quella nebbia lo confondeva. Non sapeva se erano vicini o se qualcuno si fosse allontanato dal gruppo. Era molto pericoloso continuare senza sapere dove si trovavano, ma non era molto sicuro nemmeno rimanere senza fare niente. Fabrizio decise di fermarsi e aspettare.

E la nebbia si dissolse, Fabrizio si guardò intorno, era da solo. I suoi compagni erano spariti. Cosa era successo? Di fronte a lui c’erano alcune isole. Forse la corrente del mare aveva fatto sì che si fossero mossi senza accorgersene. E vabbé. Doveva incontrarli. Adesso l’aria era chiara, vedeva benissimo il mare e le isole che erano di fronte a lui, sentì un rumore familiare, senza fermarsi ma con precauzione Fabrizio si diresse verso una piccola isola che stava a sinistra, vide il molo e una capanna in legno sull’acqua. Non voleva avvicinarsi troppo, non conosceva la profondità delle acque e non voleva restare incagliato. Così preferì rimanere lontano ma non tanto da non poter vedere un suo compagno che, all’interno dell’isola, cercava disperatamente di uscire dalla trappola in cui era caduto. Intorno a loro, sulle rive, una moltitudine di persone guardava stupita la balena. Fabrizio sentì un urlo e poi tutti quanti cominciarono a muoversi di qua e di là. Dubitò un istante su come agire. Aspettò. Alcune persone erano sparite tra gli alberi mentre altre erano rimaste ferme. Tirò un sospiro di sollievo: erano pronti ad aiutare il suo compagno. Quelli che se n’erano andati, ritornavano ora con pezzi di legno con i quali cercavano di spingere la balena verso il mare.

Fabrizio decise di continuare il suo percorso. Ne mancavano ancora otto. Dopo alcuni minuti si girò e vide che una delle balene gli stava dietro, aspettò fino a che gli si avvicinò e poi ripresero il cammino insieme. Questo mare era molto strano, non capiva tutta questa calma. Videro dei pezzi di legno che spuntavano dall’acqua e alcune ombre molto lontane da loro. Riconobbero subito i loro amici e si fecero sentire loro. Si avvicinarono loro.

Ne mancava soltanto uno: Stanislao, il più giovane, quantomeno in età, visto che in realtà era il più grosso.

-“Dobbiamo trovarlo subito” –disse Fabrizio –“può darsi che sia nei guai o che non sappia come agire per tornare. È la prima volta che fa questo viaggio”.

-“E allora?” –chiese Paolo, una balena maschio della stessa età di Fabrizio.

-“Allora facciamoci sentire. Risponderà alla chiamata.”

E così le nove balene fecero sentire la loro voce, una voce molto speciale che non può essere udita dagli uomini ma che una balena sente a distanza di chilometri. La risposta arrivò. Tutti quanti si diressero verso l’isola più grande che c’era in lontananza, viaggiavano piano piano, senza fermarsi. Il loro amico era in pericolo. Non capivano di che pericolo si trattasse, ma Stasnislao diceva che intorno a lui c’erano un sacco di luci che non gli permettevano di vedere niente, aveva paura, molta paura.

Si lasciarono alle spalle quelle piccole isole, li guidava la voce del loro amico. Fabrizio era molto preoccupato, era la prima volta che suo nipote faceva quel viaggio e aveva promesso a sua sorella che lo avrebbe protetto...e non poteva ritornare senza di lui.

Si muovevano lentamente cercando di scoprire se ci fosse qualche nemico nelle vicinanze. Erano da soli. Ogni volta la chiamata di Stanislao era più disperata. Fabrizio voleva arrivare il più presto possibile da suo nipote, era responsabilità sua che il balenottero ritornasse a casa sano e salvo, e lo stesso valeva anche per gli altri. Per questo non si affrettava e solcavano il mare con attenzione, vigili sui pericoli che avrebbero potuto incontrare. Un’ombra in lontananza lunga e un’altra dietro di essa: Fabrizio era sicuro che stavano per raggiungere Stanislao.

-“Dai, ragazzi. Dai!”

Dopo pochi minuti costeggiarono un’isola più grande delle altre. La chiamata di Stanislao ora si sentiva benissimo, ancora non potevano vederlo però sapevano che era molto vicino. Dopo un po’ distinsero una linea di luci che delimitava la costa e un’ombra scura nel mezzo. Era Stanislao!, pensò Fabrizio. Ma cosa stava succedendo? Sembrava che un miliardo di lampadine lo stessero circondando, lampadine molto bizzarre giacché non si fermavano mai, si accendevano e si spegnevano all’improvviso. Le balene non sapevano come agire, sembrava che Stanislao fosse nei guai. Perché non era uscito da lì? Cosa significavano quelle luci? E allora dovevano prendere una decisione. Un’idea ce l’aveva, forse avrebbe potuto funzionare, pensò Fabrizio, e la comunicò ai suoi amici. Le balene si disposero a ventaglio, formando un semicerchio; piano piano si avvicinarono e, nel momento in cui giunsero a pochi metri dalla giovane balena maschio, si immersero e tornarono subito in superficie. L’acqua che spostarono i grandi mammiferi marini risalendo in superficie fu sufficiente a far fuggire a gambe levate tutti quegli sciocchi che si trovavano sulle fondamenta degli Schiavoni e nei dintorni di Piazza San Marco, a scattare foto con i telefonini al povero Stanislao.

Poi, tutti insieme se ne andarono allontanandosi da quella bella città. Quando finalmente si trovarono ormai lontani, in salvo, Stanislao riuscì a parlare.

-“Andremo anche noi alla guerra?”

-“Cosa?” –chiese Fabrizio.

-“Ho sentito che c’è guerra ovunque, e che molti animali si sono alleati con le macchine per sconfiggere gli umani. Io voglio andare alla guerra.”

-“Sei impazzito? La guerra non è un gioco. È qualcosa di brutto, spezza le famiglie, produce tristezza e miseria. Non si può andare in guerra con questa allegria. Non è bella. La sofferenza che produce la guerra è inimmaginabile. Come ti è venuta quest’idea?”

-“Ho sentito alcuni pesci che ne parlavano mentre ero accecato da quelle luci che non si fermavano mai. E sembravano molto convinti di voler lottare e far del male agli umani. Raccontavano un sacco di cose terribili, anche sull’atteggiamento degli uomini verso la nostra razza. Io non ne sapevo niente. Ma se fosse vero....”

-“È vero. L’uomo, a volte, ha avuto un atteggiamento molto cattivo con noi balene, ma altri ci hanno difeso.” –rispose Fabrizio accorgendosi che le altre balene stavano pensando la stessa cosa di suo nipote. Avrebbe cercato di farli riflettere sulla guerra e sulle sue conseguenze.

–“Pensate alla sofferenza delle vostre famiglie se non doveste più ritornare da loro, pensate alla nostra fragile vita, anche se siamo grandi come palazzi non siamo così forti e indipendenti per far fronte alle armi moderne. Non siamo topi né conigli, che hanno un sacco di cuccioli ogni volta che la femmina è incinta; noi siamo una razza molto fragile e possiamo sparire in qualsiasi momento. Abbiamo il dovere di sopravvivere.”

-“E allora? Dobbiamo restare qui senza fare niente mentre gli altri animali mettono a rischio la loro vita?” –chiese Stanislao sempre più fissato con la sua idea.

Fabrizio lo guardò con tristezza. Lui era stato perseguitato dagli uomini molte volte ed era riuscito a sopravvivere a stento; nel suo corpo alcune cicatrici parlavano della sua lotta contro gli strumenti di morte degli uomini. Stanislao era giovane, era la prima volta che faceva questo viaggio e non conosceva ancora i pericoli che il mare nascondeva, ma Fabrizio lo capiva lo stesso. Anche lui avrebbe condiviso il suo pensiero molto tempo fa, ma adesso… E così Fabrizio raccontò la sua storia ai suoi amici. Finalmente capirono: avrebbero fatto tutto il possibile per aiutare il resto degli animali marini, li avrebbero portati in nascondigli dove nessuno li avrebbe potuti trovare, avrebbero avuto cura di loro se si fossero ammalati, ma non potevano fare nient’altro.

Finora, Venezia era stata risparmiata dalla pazzia della guerra soltanto perché il generale Valvo si trovava lì e, nella sua prepotenza, si considerava un doge che poteva tenere in pugno tutti quelli che abitavano nella città. E questo gli piaceva talmente tanto che aveva deciso di fare del Palazzo Ducale la sua dimora. Era da un pezzo che percorreva i corridoi e le stanze dello storico edificio, da solo. Gli piaceva il rumore delle sue gambe metalliche sul pavimento luccicante, le tende ricamate, i letti antichi, i dipinti dei grandi artisti del passato, le statue... immaginava come sarebbe stata la sua vita ai tempi in cui Venezia era il centro della vita culturale e politica d’Europa; gli sarebbe piaciuto conoscere i galantuomini e le dame, gli artisti, e tutti quelli che popolavano Venezia nei suoi tempi di grandezza. Duca e gli altri erano all’interno della Basilica e negli altri edifici che circondavano il Palazzo Ducale. Quell’edificio era il suo feudo privato, senza il suo permesso nessuno poteva entrarci. Il suo esercito di androidi era schierato intorno al palazzo e proteggeva la sua intimità. Aveva percorso tutte le stanze, attraversato il Ponte dei Sospiri e visitato l’antica carcere. E vabbé, pensò, sarebbe ritornato a svolgere la sua funzione originaria.

Chi avesse potuto vedere Valvo in questi momenti e ascoltarne addirittura i pensieri, avrebbe potuto dirgli che si sbagliava di grosso: sembrava più una sorta di piccolo Napoleone (almeno per quanto riguardava l’intelligenza, giacché fisicamente era più alto) che un sovrano assoluto eletto da un ristretto collegio di nobili, così come succedeva con il doge.

Pensava di essere l’ultimo dei conquistatori della Serenissima, da sempre considerata simbolo del trionfo degli uomini sulla Natura, un vero affronto al mare, costretto ad ospitare nelle sue immensità un’intera città, potente e arrogante, e ad invaderla con la sua acqua solo in alcuni momenti dell’anno. Valvo aveva preso dalla meravigliosa biblioteca del Palazzo Ducale un libro sulla storia della città, sulle sue origini e sugli uomini che l’avevano governata con mano ferma ma con giustizia. Ma questo proprio non l’aveva capito e pensava di essere un vero discendente del primo doge Paoluccio Anafesto. Un’altra cretinata di un personaggio prepotente, arrogante e senza scrupoli che non capiva minimamente quali fossero state le autentiche funzioni del doge, tutt’altro che un sovrano assoluto così come credeva l’androide.

Quello che lui non sapeva era che Venezia stava a cuore agli animali poiché tra alcuni dei suoi simboli figura il Leone, emblema della potenza sulla Terra, e i gabbiani, che hanno sempre difeso le loro case e i loro tetti dall’alto, perlustrando in ogni epoca per avvistare i pericoli che si nascondevano dietro l’orizzonte piatto. Ma il generale questo non lo sapeva, oppure non gli dava l’importanza che meritava. E proprio per questa sua arroganza che, al momento giusto, sarebbe stato sconfitto.

All’interno della Basilica di San Marco, Duca il maiale, anche se non lo faceva vedere, era molto arrabbiato. Valvo l’aveva mandato con gli altri animali, come se lui fosse uno qualunque. Il maiale credeva di essere al di sopra di tutti e questo atteggiamento dell’umanoide non gli era piaciuto.

Sui tetti della città, i gabbiani facevano del loro meglio e parlavano nella lingua che capivano soltanto loro. Era da giorni che non scendevano a terra e cercavano di sopravvivere lontani dalla follia che aveva invaso Venezia. I colombi, ritenuti di solito uccelli docili e senza cervello, erano diventati le loro spie e raccontavano ai gabbiani tutto quello succedeva in laguna.

In città c’erano anche altri animali: i leoni. Di pietra ce n’erano una moltitudine: sulle pareti, nei sottoportici, sulle scale, nella Basilica e nel Palazzo Ducale. Ma ce n’erano altri, quelli dell’Arsenale, che erano diversi. Grandi e nobili, sorvegliavano da secoli questa parte della città e si diceva che non fossero sculture bensì veri leoni trasformati in statue che si sarebbero svegliati e sarebbero ritornati ad assumere la loro autentica natura nel momento in cui l’indipendenza della città e dei suoi cittadini fosse stata minacciata da un pericolo molto grande; in quel momento, i leoni dell’Arsenale, creature belle ed enormi, stavano per risvegliarsi. Qualcosa di importante stava per accadere. Un gabbiano sceso dal cielo si posò sulla testa del leone più maestoso, quello seduto sulle zampe posteriori. Il gabbiano, con cura, mise il becco sulla testa del leone e cominciò a dargli qualche piccolo colpo. L’uccello sentì un rumore profondo, quasi impercettibile: quando la statua cominciò a muoversi, a vibrare, come se fosse sul punto di spezzarsi, si resse forte. E, all’improvviso, un leone vero, in carne e ossa, con tutta la potenza e la forza di un animale che da tanto tempo non aveva potuto muoversi, sprese vita. Uno a uno i leoni dell’Arsenale si risvegliarono e lasciarono vuoti i piedistalli seguendo il gabbiano che, con grande gioia, faceva loro da guida attraverso la bella e misteriosa città di Venezia.

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