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L'Antica Stirpe
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L'Antica Stirpe

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Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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«Quelle sono le astronavi madri?» balbettai rivolgendomi ai piloti e indicandole con il dito.

Uno di essi che sembrava il capo e che sempre mi aveva rivolto la parola, confermò con la sua voce metallica e priva di emozioni: «Sono le nostre Ammiraglie,»

La nostra navetta si introdusse lentamente nel ventre gigantesco dell’Ammiraglia e quando i piloti spensero i motori notai che c’erano altre navette, da poco atterrate, come la nostra e poi un intero esercito di alieni armati di bastoni metallici; alcuni di essi volavano su minuscoli aeromobili muniti di pedana e di un manubrio simile a quello di un monopattino. Non erano veloci ma agili nei loro spostamenti. Erano tutti lì per darci il benvenuto?

«Siamo prigionieri, forse schiavi o carne da macello» bisbigliai ai miei amici che, a guardarli, sembravano più bianchi delle bianche lenzuola. Fu grande la nostra sorpresa quando scoprimmo che c’erano altri prigionieri come noi, terrestri, i quali erano spintonati rudemente da quei mostri con l’armatura.

«Non siamo soli» fu il nostro laconico commento e poi la nostra attenzione cadde su quei disgraziati. Nella quantità, variamente vestita forse ad indicare etnie diverse, notammo anche delle donne, insolitamente giovani come la maggioranza degli uomini. Qua e là notammo qualche soggetto dalla capigliatura brizzolata e con qualche ruga e questo ci fece pensare che gli alieni catturassero le loro prede con una strategia mista, a volte mirata, a volte casuale.

«Che ne sarà di noi?» piagnucolò Gilda spintonata e invitata a raggiungere un folto gruppo di terrestri, forse verso qualche prigione.

«Dobbiamo cercare di stare insieme noi tre, di non disperderci, questo per rendere meno penoso il nostro destino» disse con voce bassa Mario cercando un accordo comune.

Ci trovammo tutti riuniti in una grande stanza poco illuminata da pannelli di pietra fosforescente; c’erano dei buchi sul pavimento, forse per l’evacuazione degli escrementi, cuccette nere imbottite, in bell’ordine, e pannelli a muro con sportelli, luci e pulsanti colorati. La loro funzione più tardi ci fu nota. Notammo che all’ingresso non c’erano cancelli ma piccole luci pulsanti poste sul pavimento all’entrata e questo ci fu presto spiegato. Erano degli smaterializzatori di materia organica. In parole povere: la fuga non era consentita, chi osava pagava con la propria vita l’audacia o l’incoscienza del suo gesto.

Eravamo belli e fritti.

Ci scambiammo informazioni con non poche difficoltà. Infatti tutti quanti, meno una percentuale esigua dei presenti, era di etnia diversa. Diversa etnia significava diverso linguaggio. Una moderna torre di Babele siderale. Così il dialogo diventava un vero problema.

Sempre più ci assillava l’interrogativo del perché di questo rapimento di massa, sentivamo in ogni istante l’angoscia per la perduta libertà, dell’abisso che ormai ci separava dalla nostra cara, vecchia Terra, per i perduti affetti e interessi, per gli stili di vita individuali. Era come morire o vivere in un limbo dove non c’era più confine tra il sentirsi vivi o sentirsi spettri vaganti in una esistenza sfumata, eterea, senza più passato e senza più futuro. Una condizione questa che ci lasciava stremati, ci svuotava da ogni interesse alla vita. Gli occhi lucidi, lo sguardo spento, ci guardavamo cercando in qualcuno qualche traccia di vitalità. Dopo aver mangiato ci prese una strana sonnolenza. Non riuscivamo a tenere gli occhi aperti e presto ci rendemmo conto di avere assunto un narcotico. Ci addormentammo profondamente. Difficile dire del tempo trascorso, forse ore, chissà quante. Quando ci svegliammo gli alieni erano tra di noi con i loro bastoni metallici. Più erano vicini più sentivamo un senso di repulsione, come specie diversa, incompatibile. Ci invitarono ad alzarci con fare brusco poi - e per noi fu una sorpresa - ci informarono sul viaggio. Dunque avevano un po’ di considerazione, non ci vedevano come animali. Un alieno, forse un capo - e lo riconobbi tra tanti per il distintivo particolare sull’armatura -, lo stesso che ci aveva rapiti, ci parlò traducendo in molte lingue terrestri. Il che voleva dire che ci conoscevano da tempo e che avevano avuto modo di studiare i nostri linguaggi.

«Terrestri, vi avvertiamo dello scopo di questo viaggio, la destinazione e il luogo dove ci troviamo. Stiamo per raggiungere i confini del vostro Sistema Solare. Più in là, incontreremo una singolarità dello spazio che ci inietterà in un corridoio spaziale: un buco nero. Lo attraverseremo per uscire dall’altra parte dell’Universo, a noi noto, e questo per abbreviare i tempi del viaggio. Le nostre astronavi viaggiano ad una velocità inimmaginabile per voi, quindi quando arriveremo a destinazione saranno passati solo pochi giorni mentre sul vostro pianeta molto di più. La destinazione: Un pianeta ancora giovane, abitabile, pieno di opportunità e da noi chiamato Terra 2. Così abbiamo deciso. Dunque, la vostra condizione sarà quella di coloni, non quella di schiavi. Questi ultimi li adoperiamo nelle miniere o in altre estrazioni e sono prigionieri nelle guerre galattiche. Li usiamo come manodopera per il nostro pianeta madre che è Orbiter dell’impero dell’Antica Stirpe, nostra culla della vita e scopo per l’inseminazione pilotata delle specie.»

Me ne stavo sempre vicino ai miei compagni di sventura, Mario e Gilda e non mi ero perso neppure una parola di quel mostro. A sentirlo, imprecai soffocando la mia voce, per non farmi sentire dagli altri.

Quell’essere aveva usato la parola “inseminazione” a me familiare, il che voleva dire che considerava tutti gli esseri viventi alla pari delle piante, ovvero che non aveva scrupoli a interferire con la vita dei viventi... Questo mi fece pensare di avere a che fare con un essere privo di coscienza, almeno come la intendevo io e la sua appartenenza ad una civiltà galattica molto più antica della nostra e tecnologicamente più progredita. Cominciai a pensare sul significato della parola COSCIENZA e mi convinsi che essa è artificiosa. Quello che a noi terrestri può sembrare ripugnante, a un’altra specie può sembrare normalità. Poi mi chiesi quali le possibilità delle variabilità della vita sul pianeta degli Orbiteriani e intendevo per vita anche quella vegetale ma mi convinsi che non avrei mai avuto familiarità con il pianeta di origine di quella specie, ma con quello in cui ero destinato con i miei compagni e dove avrei vissuto tutta la vita. Cercai di immaginarli a passeggio in una cittadina terrestre. Quali le possibili reazioni della gente e dei Governi? Mi chiesi ancora se avessero il culto dei morti e degli dei a cui affidare il loro spirito, tutte domande senza risposta perché mi sembrava chiaro che - visto le diversità genetiche - non fosse possibile il dialogo. Diversità genetiche... Questo aspetto del problema mi incuriosiva e mi chiedevo come fossero realmente gli Orbiteriani tolta la loro armatura. Mi sembrò strano il fatto di vederli tutti uguali nell’aspetto come delle copie stampate mentre sulla Terra esiste la diversità nell’aspetto fìsico delle persone, ed intendo, la statura, la costituzione, la forma del volto. Dai particolari anatomici, mani e piedi colpirono la mia attenzione e perciò esclusi che fossero mammiferi.

* * *

Un fremito scosse il povero vecchio, i suoi occhi fissarono allucinati il vuoto, la voce si fece tremante, piena di terrore. Urlò, si dimenò come in preda a un attacco epilettico. L’infermiere corse rapidamente a bloccarlo mentre il giornalista osservava la scena visibilmente spaventato.

L’infermiere spiegò: «Questa è un’altra crisi, se continua così non resisterà a lungo. Per favore, torni la prossima settimana; per oggi... ha fatto il pieno di incubi.»

Il giornalista annuì e per un attimo sostò, vivamente impressionato, a guardarlo mentre veniva portato via di peso, le sue urla ancora nelle orecchie. Scosse la testa come per riassumere un sentimento di pietà e se ne andò.

Una settimana dopo, trovò Dario in condizioni discrete e in grado di proseguire il suo racconto.

«Allora dimmi, che cosa accadde a tutti i terrestri prigionieri de-’ gli alieni?» domandò con curiosità crescente il giornalista.

Il malato esitò come per trovare il filo di quel racconto interrotto bruscamente e per squarciare il velo dei ricordi (o degli incubi?).

Prima di proseguire, si assicurò che il giornalista gli avesse comprato una nuova confezione di cioccolata di cui era assai ghiotto.

* * *

«... il viaggio proseguì senza alcun problema, non ci fu riferito il passaggio al corridoio spaziale (o buco nero) e non avvertimmo nessuna turbolenza nell’assetto di volo. Soltanto dopo aver attraversato (diffìcile fu per noi la durata) il personale di bordo dell’astronave ci informò. Più tardi ci furono serviti i soliti cibi sintetici e razioni di acqua, in contenitori cilindrici che sembravano di metallo ma leggeri e al tempo stesso resistenti agli urti.

Ci riunirono in una grande stanza e poche volte riuscii a esplorare altri vani dell’astronave che mi parve così gigantesca da superare la più grande nave corazzata. Mi ricordo ancora quando la vidi dall’esterno, fuori nella spazio, così immensa da togliere il fiato... L’interno sembrava senza limiti, stranamente dotata di infrastrutture, di congegni da non poter essere paragonata a nessun mezzo aereo o navale, e poi la quantità di alieni, eserciti interi indaffarati chissà a quali lavori, il tutto dava l’impressione di una città nello spazio. Quello che colpiva in quella massa enorme era il rumore dei motori ma anche delle calzature dei soldati sul pavimento metallico, il ronzio sinistro proveniente da dietro qualche pannello alle pareti o il vociare confuso, incomprensibile di quella gente. Piena di scale, di montacarichi, di ascensori, di tubi posizionati a livello dei tetti, dei corridoi, delle carlinghe e poi c’erano quei curiosi tubicini trasparenti pieni di fasci di luce che vi correvano all’interno, che attraversavano i giganteschi vani e i vari piani dell’astronave.

Dimenticai almeno per il momento l’interesse per la struttura dell’astronave e mi concentrai sul destino di noi tutti futuri coloni di un ignoto pianeta. Eravamo tutti adulti, non c’erano bambini come se gli alieni non fossero interessati a umani troppo giovani. Mi chiesi il motivo di questo tipo di selezione. Forse non consideravano i bambini idonei per i loro esperimenti di inseminazione? Non trovavo altra spiegazione che questa ipotesi ma forse “loro” erano estranei alla logica terrestre e poi era così diffìcile ipotizzare che fossero mammiferi.

‘Chissà come ragionano’ mi ripetei. ‘Sono mostri, soltanto quello.’

Il mio amico Mario accarezzava di tanto in tanto i capelli della sua ragazza e parlava dolcemente a voce bassa, cercava di tranquillizzarla ignorando gli sguardi curiosi degli altri terrestri che occupavano con noi quel vano dell’astronave. Fino a quel momento nessuno ci aveva rivolto la parola, poi un tipo quasi vecchio ci avvicinò con fare amichevole. Parlava un italiano con forte accento straniero, disse di essere tedesco ma di conoscere qualche lingua perché insegnante. Ci raccontò le fasi del suo rapimento, gli affetti perduti, le avversità della guerra che volgeva al termine verso la disfatta del regime tedesco e di altri fatti di ordinaria vita. Ascoltandolo come uomo, mi resi conto di non provare alcun odio verso di lui, egli era un tedesco, sì nemico degli italiani ma nella nostra situazione tutto questo aveva perduto qualsiasi significato. Era anche lui prigioniero di una potenza molto superiore a quella della sua nazione: per questo motivo lo considerai alla pari di un qualsiasi uomo, di qualsiasi etnia, di qualsiasi politica. Lassù nello spazio, a miliardi di chilometri dalla Terra ogni attrito, ogni diversità spariva di fronte all'ignoto e all’estrema fragilità umana.

C’era qualche altro tedesco e poi altre etnie che non mi pare il caso di elencare. Il viaggio durò parecchio, forse giorni e giorni. Non riuscendo a quantificare il tempo trascorso consideravamo il numero dei pasti e delle ore di giorno, ipotizzando in modo approssimativo il tempo trascorso.

Ci trovavamo tutti riuniti in un vano, uomini e donne, vecchi e giovani, con le nostre fragilità. Dovevamo dimenticare il senso del pudore e le intimità anche quelle relative ai bisogni corporali.

Gli alieni sembravano non conoscere il significato di certe regole come l’igiene, le intimità e gli altri diritti dell’uomo. Nonostante la grandiosità dei loro mezzi, del loro grado di civiltà, erano insensibili a taluni diritti, a talune priorità. Questo fatto lo avevamo percepito tutti e a tutti non ci era permesso di lamentarci.

Mentre stavamo tutti a riflettere sulle comuni sciagure, un gruppetto di alieni ci fece visita. Erano in tre e tra questi proprio quello che sembrava un capo, che aveva quel distintivo, che ci aveva rapiti. Si rivolsero proprio a noi con fare brusco, ci invitarono a seguirli. Io, Mario e Gilda provammo ancora maggior paura, temendo chissà cosa, ricordo il mio respiro affannoso, il battito impazzito del mio cuore. Ci portarono in un laboratorio, almeno così sembrava, ci stesero su delle cuccette, ci legarono, poi ci fecero entrare con un movimento automatico della cuccetta all’interno di una macchina che sembrava un forno. Al suo interno si accendevano luci e si udivano preoccupanti ronzìi.

Dopo questa esperienza, ci tirarono fuori sempre in modo automatico, ci liberarono e l’alieno con il distintivo disse: «Terrestri, ora vi toglieremo un po’ della “linfa” vitale dal braccio e alcune cellule della pelle per i nostri studi, nient’altro.»

Osservai da vicino quel suo viso appena abbozzato dalla maschera, scrutai quei piccoli fori all’altezza degli occhi come per incontrare il suo sguardo, poi osservai il tronco dell’alieno che sembrava non umano ma piuttosto la corazza chitinosa di un insetto, il suo addome, le estremità tipiche degli insetti o non so di che altro, mi soffermai a riflettere. Mentre tornavamo con gli altri terrestri prigionieri apparivo assente, come se inseguissi chissà quali tortuosi ragionamenti. L’illuminazione, quella idea fulminante che chiarisce qualcosa, quella lampadina che sembra si accenda nella testa all’improvviso o dopo chissà quanti periodi di stasi interpretativa, l’illuminazione venne in un lampo e mi lasciò stupefatto.

Ma l’idea mi sembrò assurda, così assurda da non potermi fidare, così, per cercare comprensione nell’altrui intelligenza, rivolsi la parola ai miei amici, i quali erano assenti, quasi intorpiditi dalla stanchezza e da tutti gli stress della prigionia.

«Non è un vivente» esordii e la voce mi tremava per l’emozione. «Non è un vivente» ripetei con maggiore forza nelle parole.

Mario e Gilda mi guardarono con sospetto come chi scopre un’anomalia comportamentale.

«Cominci a dare i numeri?» mi chiese Mario visibilmente impressionato. «Chi non è un vivente?»

«Loro, gli alieni» chiarii io balbettando per la forte emozione.

«E che cosa sono?» chiese Mario.

«Fantasmi?» aggiunse Gilda prendendomi in giro.

«No di certo, soltanto... soltanto dei robot» aggiunsi come uno che si trovi al limite della sopportazione e tiri fuori la verità che conosce, a lungo taciuta.

«Dei robot, tutti questi eserciti di alieni... dei robot?» Mario era sarcastico, lo si leggeva negli occhi, nel ghigno. Quel ghigno che però presto sparì, perché l’amico evidentemente aveva iniziato a pensare. Allora il suo sguardo si fece cupo.

«Forse, forse non hai torto. Sono tutti come delle copie, come dei sigari della stessa marca...»

Gilda da parte sua si lasciò sfuggire un grido di spavento, subito soffocato, poi riprendendosi un po’ dalla sorpresa, dalla scoperta così sensazionale ma maggiormente allarmata: «Dei robot che manovrano gigantesche astronavi e noi in balia delle macchine...»

Chiamai il tedesco e segretamente gli rivelai la mia scoperta. Gli dissi di passare la voce a quanti erano in grado di capirlo. Ora eravamo in molti a conoscere la verità, gli altri di altre etnie, che non riuscivano a capirci per ragioni di linguaggio, ci guardavano preoccupati.

Il tempo era diventato piatto, inesistente, quasi artificioso e non riuscivamo a farne una stima, neppure approssimativa.

Poco più tardi rividi quell’essere con il distintivo che sembrava un capo. Allora mi avvicinai a lui e, forse per lo stress, gli dissi sprezzante: «Tu... non sei un vivente.»

L’alieno, sorpreso di quella, frase, indugiò a lungo, guardandomi diritto negli occhi, poi la sua voce metallica tuonò: «Come lo hai capito?»

«Non respiri... non sei un vivente» spiegai. «Che cosa sei?»

La risposta non si fece attendere.

«Non sono un organismo biologico ma un’intelligenza artificiale.»

Io, incuriosito, ribattei: «Parlami dei tuoi costruttori...»

«I miei Creatori - li chiamò proprio così - mi hanno assemblato in un laboratorio con una potenzialità intellettiva superiore agli altri miei simili. I Creatori inoltre diedero vita ai soldati e ai generali. Uno di questi sono io.»

Sempre più incuriosito, chiesi: «Da quanto tempo esisti come intelligenza artificiale?»

«Ti sembrerà quasi impossibile; ebbene io esisto da 2 milioni di anni.»

«Non è possibile, niente può durare così a lungo.»

«E invece sì. Adesso che mi sono presentato dimmi... qual è il tuo nome?»

«Mi chiamo Dario» risposi «e questi miei carissimi amici sono Mario e Gilda. Hai un nome?»

«Sì» rispose l’alieno con fare cordiale «mi chiamo Korih A05. Generale A05.»

Un po’ intimidito domandai: «Ti devo chiamare Generale A05?»

«Per te sono A05 e sono disponibile ad altre domande.»

«Come fanno i tuoi circuiti a durare così a lungo?» gli chiesi sempre più curioso.

«Non durano così a lungo, sono sostituiti se entrano in avaria. Disponiamo di elementi di ricambio e di bravi robot tecnici addetti all’assemblaggio» ciò detto, salutò militarmente piegando il braccio verso il petto e si allontanò da noi forse per i suoi impegni di lavoro.

Discutemmo a lungo tra noi su quanto avevamo appreso da quello straordinario essere e della nostra destinazione. Parlammo della destinazione ma a nessuno venne in mente di menzionare possibili scenari da incubo come a nessuno venne in mente possibili problemi connessi alla navigazione. Perché? Non avevamo esperienza, non potevamo immaginare situazioni al cardiopalma. E invece qualcosa accadde...

Ad un certo punto, ricordo che avvertii qualche scossone. Non ci feci caso e così non notarono niente di insolito gli altri terrestri ma gli scossoni si ripeterono, a volte violenti a volte appena percepibili. Che cosa stava accadendo? Mentre ci interrogavamo senza riuscire a capire il motivo, ecco che giunse, nel locale dove eravamo reclusi, un alieno. Ci parlò con un doppio linguaggio, quello alieno e quello in traduzione.

«Stiamo attraversando una tempesta di meteorite.»

«Siamo in pericolo?» esclamai spaventato.

«Direi che la situazione è seria.»

Un terrestre domandò: «Ma da dove provengono?»

L’androide rispose: «Dai resti di un piccolo pianeta esploso.»

«Ma non possiamo cambiare rotta?» propose un francese.

L’alieno eluse la domanda e si limitò a rassicurarci: «Abbiamo uno scudo deflettore in grado di respingere con onde antigravitazionali le masse più piccole in linea di collisione.»

«E i meteoriti più grandi?» chiese sempre il francese.

Non ci fu risposta e da quel silenzio capimmo la reale portata del pericolo. L’alieno si allontanò ma poco dopo, continuando la situazione grave degli scossoni all’Ammiraglia, si presentarono davanti a noi quattro alieni che ci invitarono a seguirli. Ci assegnarono un altro vano dell’astronave, completamente chiuso da pareti con spessi vetri e, nel chiuderci dentro, azionarono dei meccanismi di mantenimento.

«Questa è la camera di sopravvivenza» ci spiegò uno di essi «così chiamata perché provvista di ossigeno per organismi viventi e in grado di mantenervi in vita in caso di grave impatto da meteoriti. Noi non respiriamo, quindi non corriamo pericolo in caso di squarci all’aeronave.»

«Riuscirete a riparare gli eventuali danni da impatto?» chiesi preoccupato.

Uno degli androidi rispose: «Possiamo. Abbiamo macchine che possono intervenire all’esterno della struttura...»

La mia amica Gilda si informò: «Quando ci farete uscire da questa. .. come la chiamate? Camera di sopravvivenza?»

«Passato il pericolo» rispose uno degli alieni.

Quando se ne furono andati, qualcuno si rassegnò al peggio, altri si disperarono, soltanto pochi manifestarono uno schietto ottimismo. Tra questi, il professore tedesco.

Fu lui a infonderci coraggio con queste parole: «Amici miei, compagni di sventura... anche se leggo nei vostri sguardi, nella vostra mente uno stato di comprensibile agitazione, nonostante tutto vi invito a riflettere. Questi alieni sono troppo intelligenti per farsi fregare da quattro pietre impazzite, quindi, ne sono certo, sopravviveremo.»

Purtroppo però il nostro ottimismo, o almeno il tentativo di sdrammatizzare gli eventi, non fu sufficiente. Comunque salvammo la pelle. Ecco come andarono le cose...

Le meteore picchiavano e picchiavano contro lo scafo della gigantesca Ammiraglia con tanta violenza da rischiare di sfondarla. E questo accadde realmente. Lo capimmo nell’udire un forte suono intermittente risuonare all’interno dell’Ammiraglia, poi una grande confusione di androidi che andavano e venivano, linguaggi concitati e incomprensibili. Sembrava di trovarsi su di un transatlantico che stesse affondando con la relativa confusione generale.

Io, osservando tutto quell’andirivieni concitato, dissi ai miei compagni, angosciato: «È fatta, siamo fregati» poi chissà perché cominciai a gridare, cercando di attirare l’attenzione dei soldati-robot.

Uno di essi mi notò e si avvicinò alla camera di sopravvivenza, mi fece segno di indossare una maschera d’ossigeno attaccata alla parete con un lungo tubo e di girare verso destra la manopola d’ossigeno, poi rivolgendosi agli altri, disse: «Indietro, indietro!»

Istintivamente tutti indietreggiarono e l’alieno manovrò attraverso un pannello di comandi posto sulla parete esterna alcuni pulsanti. Una porta a vetri discese dal soffitto e isolò tutti ad eccezione di me che avevo indossato la maschera d’ossigeno. A quel punto si aprì la porta esterna. Respiravo con quell’attrezzo attaccato a un tubo ma non mi potevo muovere. L’alieno mi fece segno di pazientare, poi da un armadio prese una bombola d’ossigeno e una maschera con boccali e mi fece segno di indossarla. Trattenni il respiro e mi separai da quella di emergenza fìssa per indossare quella individuale, poi gli chiesi con apprensione: «Che sta succedendo?»

«Ti porto con me, seguimi nella cabina comandi. Lì vedrai, così da poter informare i tuoi simili.»

Lo seguii senza più aggiungere nulla. Ricordo soltanto il battito del mio cuore impazzito e... nient’altro. Mi portò nella cabina comandi e mi fece sedere su un seggiolino dallo schienale alto, di metallo, munito di braccioli. Mi guardai attorno. C’erano alieni dappertutto, il locale era molto grande e guardando in una precisa direzione, come uno schermo cinematografico vidi l’esterno dell’astronave. Mentre osservavo rapito lo spazio profondo, sentii lo scatto di una cinghia metallica chiudersi sul mio torace. Capii di essere stato legato.

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