La donna che amo
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Sasha Kaya

La donna che amo

1

Mi chiamo Franco. A inizio ottobre del 1997, compii ventun anni e mi trasferii a Torino. Diventai uno studente. Mio padre aveva smesso di finanziarmi le corse, malgrado fossi salito sul podio otto volte quella stagione. Ero a un passo da un futuro radioso nel mondo dell’automobilismo… a patto che riuscissi a trovare degli sponsor affidabili. Solo che non ce n’erano. E poi, c’era stato quello sfortunato incidente con l’auto di mio padre che avevo preso in prestito per un po’.

In breve, i miei avevano deciso che per i successivi tre anni avrei dovuto dedicarmi all’università. Secondo loro mi serviva una cosiddetta scuola di vita: vivere per conto mio, gestire un budget e cavarmela da solo nel quotidiano.

Mi diedero abbastanza soldi per affittare un bilocale in centro, ma io decisi di spenderli in modo diverso. Affittai una stanza in periferia, risparmiando, e così mi assicurai un gruzzoletto per tirare avanti nell’immediato. La stanza si trovava in un edificio di nuova costruzione e i proprietari, che erano anche i miei coinquilini, vi si erano trasferiti sei mesi prima: quindi si ricordavano ancora come ci si sente a stare in un posto nuovo.

Chi erano i proprietari dell’appartamento?, vi chiederete. Lei era meravigliosa, bellissima. Sembrava perfetta. Dal primissimo momento che la vidi, diventò la donna più straordinaria su cui avessi mai posato gli occhi: diversa da chiunque altro al mondo. Diversa da qualunque donna avessi conosciuto sin dall’infanzia. E lo credo bene: era straniera.

Veniva dalla Russia; la famiglia era originaria di San Pietroburgo. Si chiamava Adelina. Percepivo a malapena un accento quando parlava: viveva in Italia da più di cinque anni. Era bella, sì, ma non era solo una questione estetica… Ma che sto dicendo? Certo che era anche una questione estetica! Anche se non sono un poeta, ho qualcosa da dire sui suoi capelli. Erano neri e le ricadevano sulle spalle dolcemente ondulati, catturando la luce in uno scintillio bronzeo. Quante sere ho passato ad ammirare quel luccichio, a guardarla percorrere la strada verso casa, di ritorno dal lavoro. Non sapevo dove lavorasse, né cosa facesse il marito per vivere. Non lo chiesi e, all’inizio, non ero neanche curioso di saperlo. Magari lei era una cantante (c’era un pianoforte in casa) o forse un’attrice (aveva dei lineamenti molto espressivi e un fisico da ballerina). Lo invidiavo, suo marito. Poteva stringerla tra le braccia e non lasciarla andare mai. Anche se, a essere onesto, non glielo vidi mai fare.

L’appartamento era accogliente: era chiaro che fosse stata una donna di buon gusto ad arredarlo. Solo i poster di pugili alle pareti rovinavano l’impressione generale. Sulle mensole c’erano autografi incorniciati di atleti famosi insieme a qualche trofeo… Un pugile? Lui? Non era molto alto, e neanche muscoloso. Direi che sembrava addirittura flaccido. Non ero sicuro che il marito di Adelina avesse mai messo piede in una palestra. Io ero molto più alto e più largo di spalle – sono nettamente più alto anche dei miei. E lui? Sicuramente non era un atleta. Aveva la classica aria del tipico impiegato d’ufficio. Portava persino gli occhiali.

Era l’uomo più silenzioso e serio che avessi mai conosciuto. Non era sgarbato, solo fin troppo austero. Non mi sarei mai azzardato a raccontargli una barzelletta, neanche la più divertente del mondo: anche se gli fosse piaciuta, non l’avrebbe mai dato a vedere – il che mi avrebbe ferito. E se non gli fosse piaciuta o non l’avesse capita… be’, non testai se fosse un pugile o meno. Forse l’unica cosa che quell’uomo sapeva fare era aggrottare la fronte. Indossava sempre giacca e cravatta, non l’avevo mai visto senza. Ed era sempre perfettamente rasato, al punto che cominciai a chiedermi se la barba crescesse mai su quella sua pelle, liscia come fosse di un bambino. Portava una fede all’anulare sinistro: probabilmente non gli piaceva neanche. Aveva l’aria di un uomo che detesta qualsiasi tipo di gioiello. Dopo due mesi passati a convivere tra le stesse mura (o più precisamente, dopo due mesi senza scambiarci neanche una parola), capii una cosa: è per gente così che nascono i conflitti. C’è chi prova a discuterci apertamente, sperando di influenzare i tipi come lui: gli inamovibili. Altri agiscono alle loro spalle, contro la loro volontà – e finiscono per creare problemi ancora più grandi.

Non ricevevano mai ospiti quei due, il che mi portò a pensare che lui non avesse amici. Solo una volta, tornando dal supermercato un weekend, trovai Adelina sul divano in compagnia di un’amica. Sussurravano. Adelina indossava la sua solita giacca di pelle, mentre l’amica era avvolta in un elegante vestito rosso. Malgrado non fosse più tanto giovane (anche se in realtà non riuscii a guardarla per bene), capii che l’amica era una donna estremamente timida. Nel vedermi entrare, la poverina non seppe cosa fare con le mani e cercò di alzarsi goffamente dal divano. Non volevo disturbarle, così mi sbrigai a sistemare la spesa in frigo e mi chiusi in camera. La donna tornò diverse volte, ma questo lo venni a sapere dalla stessa Adelina, mentre rassettava e raccoglieva le cose che l’amica aveva dimenticato sul divano: trucchi, della lingerie che si erano mostrate a vicenda, gioielli… cosucce di questo tipo.

“Dov’è Adelina?” era la prima cosa che mi chiedeva sempre Valerio, quando ormai ci conoscevamo da un po’. Un giorno tornò dal lavoro molto teso e si agitò ancora di più quando non trovò la moglie in nessuna stanza di casa.

«È appena andata al supermercato» dissi, poi suonò il campanello. Valerio trasalì. Invece di andare ad aprire, corse verso il divano, dove giacevano i vestiti della smemorata amica di Adelina. Prese il primo capo che trovò, un reggiseno, e mi guardò con aria confusa. Lo rilanciò subito tra gli altri vestiti, disgustato, e si affrettò verso la porta. Non sapevo potesse muoversi così velocemente. Entrarono due donne di mezza età e lui mi presentò come coinquilino. Dalla loro conversazione, capii che Valerio era un insegnante di musica e canto presso una scuola. E chi l’avrebbe mai immaginato! Non avrei mai voluto un professore come lui, prendere un buon voto sarebbe stato impossibile. Non rimasi ad ascoltare e me ne andai in camera. All’improvviso però le due donne cominciarono a urlare in tono minaccioso e se ne andarono, sbattendo forte la porta.

Il mattino successivo, scoprii che a scuola di Valerio giravano delle voci su Adelina. Le due donne del giorno prima avevano deciso di presentarsi a casa sua per capirne di più. Quando avevano notato la lingerie sul divano, avevano concluso che si trattasse della tenuta da lavoro di Adelina. Che immaginazione! Quelle due sciocche si erano convinte che lei facesse la spogliarellista in un nightclub! E pareva ne avessero anche avuto conferma, dato che Adelina era stata vista uscire da un locale privato in più di un’occasione. Mi arrabbiai all’inizio, ma poi pensai che, tutto sommato, Adelina poteva davvero essere… una ballerina irresistibile. Si sentiva in difetto verso il marito: gli stava sempre attaccata, quando rientrava a casa. E ora Valerio rischiava di perdere il lavoro malgrado le ottime opinioni su di lui, malgrado la sua etica lavorativa e i successi passati.

***

«È solo gossip, niente di più. Farebbero meglio a studiare la luna. Cosa c’è sul lato opposto della luna, mi chiedo? Credo che i Pink Floyd ci abbiano fatto una canzone» disse Adelina una sera, qualche tempo dopo, facendo un gesto sprezzante verso il giornale per poi indicare la finestra.

Fuori, la luna splendeva radiosa. Adelina parlava a voce alta mentre si asciugava i capelli col phon. Indossava una vestaglia leggera. Il marito sedeva in poltrona, fingendo di leggere quello stesso giornale. Che ci facevo lì in quel momento? Be’, avevo accesso al soggiorno senza dover chiedere il permesso. Era evidente che a lui questa cosa non piacesse: continuava a guardarmi di sbieco, come se potesse muovere soltanto gli occhi.

«Oh, Franco, forse vuoi vedere la TV?» sorrise Adelina a un tratto, facendomi un cenno: era come se in me vedesse solo un bambino. E sembrava che la cosa mettesse il marito a proprio agio.


2

Arrivarono le vacanze di Natale e io non avevo alcuna fretta di tornare a casa. Dovevo dimostrare ai miei di essermi talmente abituato alla mia indipendenza da non poterne fare a meno.

Nel frattempo, il marito di Adelina era andato a Sanremo per lavoro. Non voleva partire e, se ricordo bene, aveva già rifiutato di andarci. Ma poi lei l’aveva convinto: «Devi andare. Hai bisogno di staccare. E poi so che in fondo vuoi farlo».

«Okay, ci penserò. Ci penserò sul serio» aveva risposto il marito.

Così, io e lei rimanemmo da soli. Mi comprai dell’acqua di colonia e lei… mi trattò come aveva sempre fatto. Ma una sera, quando vide la mia valigia e si rese conto che mi preparavo a partire, mi parlò in un modo speciale, di un argomento altrettanto speciale.

Non so, forse il vino le aveva dato troppo alla testa, e io dovrei ringraziarlo per averla spinta ad aprirsi in quel modo con me. Non esitai ad approfittare del suo umore loquace e scoprii che lavoro faceva.

«Sono una lottatrice professionista. Ho vinto decine di incontri consecutivi nella categoria donne».

Lei! Una lottatrice? Una sorta di pugile! Be’, sì… in effetti aveva braccia e gambe forti. Eppure… eppure se mi avesse detto che ballava in un nightclub davanti a un mucchio di uomini, l’avrei presa molto meglio. Quella fu la prima rivelazione della serata e, come avrei poi scoperto, neppure la più scioccante.

«Non competo più ora… alleno soltanto. Ma se mi avessi vista dieci anni fa…»

«Eri ancora a scuola allora, no?»

«Tu eri a scuola, io vincevo il titolo. Avevo ventitré anni».

Era più grande di quanto pensassi! Non avrei mai detto che avesse più di venticinque, trent’anni. Non che questo cambiasse qualcosa! Che differenza faceva?

«Mi hai fatto tornare alla mente quegli anni, e mi sono ricordata che oggi è il nostro anniversario…»

«Di matrimonio?»

«No» disse, nascondendo a stento un sorriso. «È stato prima che incontrassi l’uomo che tu conosci come mio marito».

«Non è lui tuo marito?»

Credevo stesse per dirmi che erano delle spie sotto copertura e che lei in realtà era assolutamente libera, ma…

«No, no. Lo è. È successo esattamente sette anni fa. Le mie amiche mi portarono fuori. Per farci due risate, dissero. Cose del genere non le vedi da dove vengo io».

«Cose di che tipo?»

Ero già curioso.

«Locali del genere».

«Che locali?»

«Posti dove gli uomini si vestono da donna e cantano».

Mi rispose come se dovessi reagire dicendo: “E allora? Noi siamo abituati ad andare in posti del genere nel weekend”.

«Quando lo vidi per la prima volta, era sul palco che cantava, e io ero seduta a un tavolo in quarta fila. Mi sentivo come se fossi ubriaca. Non bevo quasi mai, ma era evidente che stessi vivendo una sorta di ebbrezza magica. Sorridevo e non riuscivo a calmarmi. Non è che lui mi facesse ridere, è che mi dava gioia… E quando casualmente posò lo sguardo su di me, del tutto per caso e solo per qualche secondo, io mi nascosi sotto al tavolo. Un’energia così sfrenata diretta tutta su di me!».

«E com’è finita?» Ero ansioso di saperlo. Onestamente, riuscivo a stento a trattenermi dal ridere: come altro poteva finire quella buffa storia se non con un epilogo?

«È finita che cominciai a tornare in quel posto ogni venerdì. Era il culmine della mia settimana, il momento più felice. Un luogo dov’ero me stessa e, per tutti gli altri, una spettatrice che guardava dalla panchina. Ma all’improvviso lui cominciò a farmi sentire coinvolta in quello che succedeva: prese a guardarmi negli occhi sempre più a lungo. Te lo immagini! A fissare me! Negli occhi! E questo nonostante gli schiamazzi del resto del pubblico. La gente applaudiva, urlava, cantava a sua volta, invece io mi muovevo a stento, godendomi il momento in silenzio. Mi sedevo sempre allo stesso posto, il pubblico cambiava e nessuno poteva capire con esattezza a chi fosse rivolto lo sguardo di chi si esibiva. Se qualcuno si fosse girato a guardare, avrebbe visto una persona qualunque, non me».

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