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Autres Mondes. Histoire Du Monde De Monad
Aggiornamento al: 21/12/2021
UN LUMINARE PSICOLOGO (Indovinello)
Mi basta sentirvi avvicinare alla mia porta per capire il vostro carattere ed il vostro stato d’animo. Frettolosi, agitati; o più rilassati ma magari pensosi e assorti. Tutti - uomini, donne, bambini - portate con voi un turpe inconfessabile segreto, o almeno questo è quello che credete.
E capisco che portarsi da soli questo peso, questa macchia, direi pure questa incombenza possa essere anche molto gravoso per qualcuno di voi.
Ma non temete. Venite pure da me, e mettetevi comodi (in genere la gente preferisce stare seduta, devo dire). Io so comprendervi, accettare e condividere i vostri sfoghi e i vostri sforzi, con la massima discrezione e riservatezza. Se chiedete in giro, tutti vi diranno che vanno via da me alleggeriti, soddisfatti e ricaricati, chi più e chi meno, e certamente quando escono si sentono meglio di quando sono entrati.
E che disponibilità, poi, da parte mia: accolgo e ricevo individualmente chiunque, senza pregiudizi; e senza neppure bisogno di appuntamento, ventiquattro ore al giorno. Però se qualche volta trovate chiusa la mia porta è perché sono già impegnato, non siate troppo impazienti e abbiate la cortesia di aspettare tranquillamente il vostro turno senza disturbare chi è in seduta.
Se accetto carte di credito? Veramente non mi faccio neanche pagare! Ma se proprio è una vostra esigenza, sì, volendo accetto carte di tutti i tipi, anche carte di credito. Ma soprattutto carta igienica!
(Firmato: un gabinetto)
ALL'AMANTE SEGRETA (Lettera-indovinello di un vecchio)
Vorrei incontrarti in una gelida notte d’inverno, quando il freddo pungente scoraggia dall’uscire di casa persino i più giovani e gagliardi, ma sotto le morbide e calde coperte del mio letto si sta da re; in uno di quei momenti in cui non penso a niente eppure, chissà perché, mi sento contento, soddisfatto, appagato dalla vita; o in cui addirittura potrei, distrattamente, pensare di essere ancora un vero uomo anziché un vecchio; di poter correre, mentre a stento posso camminare; di poter amare, mentre a stento posso badare a me stesso.
Allora, nel tepore del mio letto, vorrei abbracciarti, stringerti forte ma teneramente e non lasciarti più, serenamente uniti e inseparabili.
Io sono qui, pronto, in tua attesa; ma vieni al momento giusto, senza suonare e senza strepito, e soprattutto non dimenticarti di fare tutto quello che devi fare prima, seguendo il giusto ordine dei tuoi appuntamenti: tanto io non sono geloso, né mi scandalizzo delle tue infedeltà.
E non siate gelosi neppure voi, miei cari amici e familiari: non vi tradisco. È una scappatella che prima o poi ci concediamo tutti a una certa età, una debolezza della vecchiaia; un appuntamento a cui prima o poi non mancherete neanche voi, che pure adesso vorreste biasimarmi. Vi tradisco solo col corpo, ma il mio spirito non vi abbandonerà mai. E vi prometto che presto ci rivedremo tutti quanti: è solo questione di giorni, … mesi, … anni: chi prima e chi dopo.
MI HAI CONVINTO!
Carissimo Alessandro. Non pensavo che alla fine ci saresti riuscito. Tu che nella tua vita hai cercato innumerevoli volte di convertirmi, di convincermi a credere. Coi tuoi ragionamenti filosofici, coi tuoi discorsi sulla fede, sulla religione, sulla natura umana. Di convincere me, che proprio di Dio non ne ho mai voluto sapere, ateo fino al midollo; direi quasi fino al profondo dell’anima, se solo all’esistenza dell’anima ci avessi mai creduto.
Ricordo con piacere interi pomeriggi trascorsi insieme a discorrere, tu ed io, su questo argomento: non so tu, ma io sempre divertendomi. Tu che portavi sempre nuove argomentazioni alle tue tesi e nuovi affondi; ed io che, padrone del gioco, immancabilmente li respingevo in maniera definitiva ed inappellabile.
Beh, questo finché tu eri qui con noi, nel mondo dei vivi. Poi ci hai lasciato nel modo improvviso ed inaspettato che purtroppo sappiamo, poverino - anzi, poverini noi. Ho pensato persino che morire fosse stato il tuo ultimo ed estremo tentativo per convincermi, per convertirmi; di salvarmi, di redimermi. E invece no, non ci sei riuscito neanche in quell’occasione. Al tuo funerale ho pianto non uno spirito che ci aveva lasciato, ma un corpo che aveva perso la sua vitalità; un ammasso di cellule in disgregazione che con la vita aveva perso anche la sua capacità di pensare, di parlare, di emozionarsi; e di emozionare anche me.
Da allora era trascorso molto tempo, ed io alle tue misere spoglie ormai in decomposizione già non ci pensavo più da un pezzo. Anche il ricordo di te si stava affievolendo nella mia mente, con la vita che giorno dopo giorno scorreva in me incessantemente, proponendomi di volta in volta situazioni sempre nuove e interessanti.
Quella notte indimenticabile ricordo che feci uno strano sogno. Sognai che mentre dormivo mi squillava il cellulare. Doveva essere di certo un sogno, perché una cosa del genere a notte fonda non mi era mai successa in tutta la mia vita. Ma era un sogno strano: uno di quelli che sembrano veri ma la cui stranezza, mentre li vivi, ti sembra la cosa più naturale del mondo.
Svegliato dalla suoneria, semplicemente mi alzo e prendo in mano il cellulare. Prima di rispondere leggo il nome del chiamante: sei tu, Alessandro. Ma anche questo non mi è parso strano.
“Ciao Ale”, ti dico.
“Ciao Pino. Senti. Ascoltami bene: devi fare molta attenzione alla tua moto. Stanno venendo per cercare di portartela via”.
“La mia moto? Portarmela via?”. Istintivamente riattacco, e facendomi luce col cellulare mi sposto in fretta nel salone - che affaccia sul cortile - e mi avvicino alla finestra. Da lì, due piani più sotto, di solito le moto di tutti noi del condominio si possono vedere distintamente.
Piove, il vento inquieto agita con forza i rami degli alberi e solo il debole chiarore di una falce di luna illumina quell’angolo del cortile. C’erano cinque o sei moto e alcune bici, ma il mio scooter rosso non c’era. La cosa mi sembra strana, anche se non mi stupisce più di tanto. Me l’hanno già portato via? Ma chi? Chissà perché proprio non mi sono ricordato che ormai da diversi anni la moto non ce l’ho più: dopo l’incidente l’ho venduta e mi è rimasta solo la bici.
Guardando il cortile provo una sensazione insolita. Mi sento come uno strano tremore dentro. Dev’essere il cellulare che vibra, forse mi sta arrivando un messaggino. Ma come vibra! Non smette di tremare. Forse mi stai richiamando, ma per qualche motivo non sento la suoneria. Ma adesso lì vibra tutto: anche le ciabatte ai miei piedi, il pavimento, le pareti.
Un albero crolla sulle moto e le butta tutte a terra, come birilli. Urla che provengono da chissà dove. Vetri che si infrangono. Poi un boato.
Sembrava un sogno ma non lo era. O forse lo era, ed io sono nottambulo. Chissà, magari lo sono sempre stato senza mai accorgermene.
Improvvisamente sono sveglio, sono tornato alla realtà. E’ un terremoto. La casa sta crollando. No: resiste, almeno la parte che affaccia sul cortile, al di qua del muro portante. Al di là, oltre la soglia del salone, si è fatto il vuoto. L’aria fredda e umida adesso entra liberamente, è come se fossi all’aperto.
D’istinto mi precipito fuori, giù per le scale. Ripensandoci, non so se ho fatto bene; ma c’erano altre persone che scendevano di corsa, alcuni urlando. Ricordo che, infreddolito, prima di uscire ho preso al volo un cappotto dall’attaccapanni nell’ingresso; ma non ricordo invece se ho chiuso la porta di casa alle mie spalle. E poi giù, tutti fuori in cortile bagnandoci sotto la pioggia, a guardare da debita distanza quanto restava delle nostre case. Tutti, o quasi, in pigiama, tutti quelli che ce l’avevamo fatta. Altri, invece, abbiamo poi saputo che sono rimasti intrappolati nei loro letti sotto le macerie, sorpresi nel sonno.
La bici, anche lei distrutta, mi è stata veramente portata via, ed anche mezza casa; ma la mia vita quella no, c’è ancora. E questo lo devo solo a te, mio caro Alessandro, che mi hai svegliato e portato fuori pericolo giusto in tempo.
E come posso spiegare adesso, da ateo e materialista, ciò che mi è successo? Che giustificazione posso trovare a quanto accaduto senza dover citare l’intervento del tuo spirito, o di un altro spirito superiore? Non posso certo darne il merito alle tue cellule ormai inerti, né al mio cellulare impazzito, o forse al tuo; e neppure potrei attribuirlo ad uno strano comportamento del mio cervello bizzarro. Nemmeno tirare in ballo la sola fortuna mi sembra una spiegazione ragionevolmente soddisfacente.
Stavolta non posso che darti ragione: mi hai davvero instillato stabilmente nella mente il ragionevole dubbio che possa esistere un essere superiore, come quello che tu chiami Dio. Peccato che tu non sia qui con me per poter godere di questa tua vittoria, per ascoltare questa mia definitiva capitolazione ai tuoi principii. Ma forse, se il tuo spirito esiste, i miei pensieri li percepisce ugualmente.
Però, nel dubbio, attivo il mio cellulare per scriverti in un messaggino che mi hai finalmente convinto, e poi te lo mando.
LA MADRE DI TUTTE LE BATTAGLIE
Quel pomeriggio, di ritorno a casa, lo spettacolo che si presentò ai miei occhi fu qualcosa di indescrivibile e veramente impressionante.
Corpi senza vita di soldati giacevano qua e la, ammonticchiati alla rinfusa uno sull'altro. Ce n'erano i più diversi: la maggioranza in divisa mimetica da combattimento, ancora con le armi in pugno, ma alcuni anche in uniformi più eleganti e solenni, non saprei ben dire di quali milizie o nazioni. Un trombettiere di colore con la tromba ancora stretta tra le mani; un cavaliere ancora abbarbicato alla sua cavalcatura abbattuta. Si sarebbe detto che fossero stati investiti da una violenta tromba d'aria, da un ciclone improvviso ed imprevedibile che li avesse colti alla sprovvista. E poi pezzi di tutto un po' dappertutto: pentole e padelle, ombrellini e vestiti, brandelli di giornali e riviste, e pezzi di chissà che altro mai. Un paio di automobili nei posti e nelle posizioni più impensabili, più innaturali. Una di esse, capovolta, aveva ancora le ruote in movimento e il motore acceso: il suo ronzio sembrava l'unico segno di vita in quel silenzio così innaturale. Più in là, di traverso, mi parve di scorgere un camion dei pompieri abbandonato.
Mi mossi lentamente e con attenzione, guardando dove mettevo i piedi. Ma ad un tratto, con mio raccapriccio, mi balzò alla vista, con la sua foggia unica e inconfondibile che ben conoscevo per averlo visto in innumerevoli occasioni, quel cappellino rosa vezzoso che indossava sempre la piccola Giuditta, forse l'amica più cara di mia figlia. Già, mia figlia. Un pensiero improvviso, fulminante ed angoscioso: dov'era adesso il mio caro, piccolo dolce tesoro? Stava bene, al sicuro? E con chi?
“Elisa! Elisa!”, chiamai più volte ad alta voce, con apprensione. Nessuna risposta. Allora cercai disperato anche per tutto il resto della casa: niente. Poi mi ricordai. La mattina Elisa era rimasta a casa coi nonni, insieme a quel suo amichetto un po' vivace. Adesso saranno dalla zia, pensai: è tutto a posto.
Raccolsi i soldatini e gli altri giocattoli e rimisi a posto la stanza alla meglio. Peccato solo per la bambola Giuditta, la preferita di Elisa, a cui proprio non riuscii a riattaccare la testa col suo elegante cappellino.
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