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Scala E Cristallo
quest’ultima ha un nome: per me, si chiama sensi di colpa.
I sensi di colpa mi avevano sempre provocato gli incubi,
e, infatti, essere sempre stata, durante la mia vita, molto
comprensiva con i bambini, mi aveva portato al successivo
incubo a occhi aperti.
Le pupille vedevano materializzarsi un bambino che mi
inseguiva, ma non era un bambino sorridente: aveva le unghie e
i denti, zanne che potevano mordere e strappare. La piccola
creatura poteva lacerarmi. Piangeva ma il suo pianto era quasi
un raccapricciante latrato, e io ne ero terrorizzata, sudavo e
tremavo. Ero sempre stata emotiva, infatti mi rappresentava
bene la descrizione del feeler, in questo caso spaventato.
I feeler sono emotivi ed empatici. Amano la vita
tranquilla, i sorrisi e i bambini; affetti dai sensi di colpa,
si ritirano a guscio dentro se stessi.
Io non potevo ritirarmi dentro me stessa perché il bambino
inferocito mi inseguiva e piangeva, urlava come l’ululare del
vento.
Avevo paura di affrontare la bestia e la mia innocenza che
non avevo preservato. Non avevo salvato quello che avrei
dovuto salvare e la mia coscienza mi perseguitava e mi
inseguiva, e io non potevo fare niente se non scappare, ancora
una volta.
Non avrei avuto il cuore di prendere a pugni un bambino,
così correvo, ma mi ritrovavo a correre con degli stivali dai
tacchi scomodi. Questi mi provocavano un dolore sordo a ogni
passo, mi laceravano tormentandomi la pelle e mi aprivano
velocemente vesciche. Erano un tormento senza fine.
Poi caddi sui gomiti e presi ad avanzare con ancor più
fatica sul pavimento di legno marrone scuro, scivoloso e
ostile, gelido come gli occhi del bambino che mi inseguiva.
Sapevo di meritarmeli, quegli occhi, non avevo difeso
abbastanza i bambini nella vita, non li avevo amati abbastanza
e attraverso questo ennesimo mostro loro tornavano a farmi
visita. Una visita amara ma costruttiva: dovevo pagare il
prezzo dei miei errori ed ero pronta a riconoscerli.
Dopo quell’inseguimento ci fu un’altra sconvolgente
visione: una bambina che rimbalzava contro i muri e io non
riuscivo a evitare che si facesse male. Era scivolosa, coperta
di olio, e cambiava direzione. Era imprevedibile.
Rappresentava esattamente la confusione che avevo dentro.
Non sapevo se proteggere lei o salvare me stessa dal
mostro che mi stava ancora inseguendo, il bambino che ululava
chiedendomi perché, tentando di ghermirmi e chiamandomi MAMMA.
Spaventosa parola per me che, sebbene ami i bambini, non
ho mai considerato seriamente la possibilità di essere mamma e
di costruirmi una famiglia. L’ho sempre vista come una cosa
lontana nel futuro, lontana da me, limitante per la mia
personalità e anche, odio doverlo ammettere, distruttiva per
il corpo femminile così delicato. Teneri sono i bambini che
hanno bisogno di cure, e ogni volta che vedevo le figlie delle
mie amiche muovere i primi passi mi aggiravo pensierosa,
temendo che la peste di turno rompesse qualcosa o si facesse
male; poi ci sono bambini e bambini. Ci sono bambini che non
nascono normali.
Voglio dire, tutti abbiamo la nostra individualità, ma ci
sono bambini che maltrattano gli animali e questo è un primo
segno preoccupante. Molti serial killer da piccoli
maltrattavano gli animali, ed era proprio il caso del bambino
che mi rincorreva in quel posto sudicio, quella baracca
legnosa piena di celle.
Percepivo dalla sua violenza, dal modo con cui rompeva le
cose, che non aveva ricevuto amore, ma sentivo anche che il
seme del male era insito in lui: era stato abusato e ora si
divertiva ad abusare. Era il male che si spargeva come una
malattia che non lasciava scampo, che ti rincorreva e che
avrebbe finito con il distruggerti lentamente soltanto
toccandoti. Era angosciante e sempre presente. Non potevo
continuare a scappare, dovevo reagire, tuttavia non sentivo
ancora le gambe sufficientemente forti, anche se, prima o poi,
una decisione doveva essere presa.
La decisione era vitale, non potevo lasciare che il
bambino mi distruggesse, ma dovevo anche fermare la bambina
che continuava a scivolarmi e a rimbalzare contro i muri.
Dovevo studiare un piano, una strategia per rendere
innocuo il mostro e salvarla.
Nel frattempo mi facevano anche male le spalle: era una
mia tipica reazione allo stress.
La tensione nervosa, per esempio, prima degli esami
all’università, mi portava a contrarre i muscoli delle spalle
con risultati pessimi per le scapole e per i muscoli
cervicali.
Tuttavia dovevo fare qualcosa, dovevo dannatamente fare
qualcosa.
Mi spostai, in modo che la bambina non sbattesse contro il
muro ma contro di me; speravo che dopo un po’ di tempo con
l’inerzia si sarebbe fermata. Le lacere corde che la
brandivano erano disarticolate, in parte spellate e non
integre; tuttavia erano resistenti. Tentai di tagliarle con il
temperino preso dalla mia sacca, ma lei tendeva a sfuggirmi di
mano ed era molto viscida a causa dell’olio spesso e
impenetrabile. Una sostanza oleosa simile al bitume.
Era scuro e quell’impresa mi causava fatica. Mi sentivo
osservata dal bambino che mi stava rincorrendo, sentivo i
brividi sulla schiena e temevo la morte in ogni instante, in
ogni mio singolo respiro… Il bambino era la mia coscienza e
non mi dava pace.
La coscienza è quella cosa che tiene sveglio di notte e ti
fa osservare a lungo un soffitto sempre uguale.
Ti fa percorrere passato e futuro in un attimo, vedi tutta
la vita in un attimo e poi devi decidere, devi decidere
secondo coscienza.
E decisi: avrei tentato di salvare la bambina. Potevo
morire io, potevo essere fatta a pezzi ma dovevo superare la
prova; dovevo cambiare ed essere più forte.
La forza si impara anche cammin facendo e io volevo che
fosse così per la mia vita, non volevo più scappare se non
quando fosse stato strettamente necessario. Qualcosa in me
stava cambiando e alla fine, forse, era giusto così. Era un
desiderio di pace e giustizia che paradossalmente mi spingeva
a lottare, un misto di bontà e dignità che è insito nei
guerrieri buoni delle storie che mi raccontavano da piccola.
Era la non accettazione del male, mai e senza nessun
compromesso, perché di compromessi per troppa bontà ne avevo
presi troppi ed ero ricorsa alla fuga, all’umiliazione e a un
deprimente sentimento di bassa autostima. La depressione non
la volevo più, volevo combatterla. Volevo salvare la bambina
che ciondolava, perché in quel pendolo di incertezze vedevo me
stessa, in bilico tra una decisione e l’altra, confusa e
insicura.
Dovevo agire istintivamente quando la bambina sarebbe
arrivata a metà percorso. Avrei tentato di tagliare la corda,
il problema era: con cosa?
Avrei potuto provare con il temperino con cui tagliavo la
carne secca oppure interi rami delle piante di bacca di cui
andavo tanto ghiotta. Era un piccolo temperino ed era
abbastanza malconcio… dovevo però agire in fretta ed essere
precisa, perché avevo un altro mostro non lontano da me.
Mi lanciai a testa bassa, pensando che poteva essere mia
figlia e che avevo il dovere morale di salvarla, o almeno di
provarci. Il coltello tagliò rapidamente la prima parte della
corda poiché macilenta, ma poi si fermò.
Più provavo e meno riuscivo a tagliare.
Sentivo ridere alle mie spalle e provavo un gelo dentro di
me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare
le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e
capii che l’oscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e
che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi
verdi e terribili.
Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.
Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la
rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e
riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.
E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno
potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.
Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,
ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non
avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola
che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più
niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa
bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso
uccidimi se ti va… fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il
mio sangue?».
Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse
la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo
superato la prova e che stavo diventando più forte.
La forza l’avevo temprata dentro di me forgiandola con la
pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a
ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma
anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è
forse questa l’origine di ogni insicurezza e l’anello comune a
tutta l’umanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci
spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.
Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire
e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte
non vedevo l’ora di misurarmi con esse, ma dall’altra sentivo
ancora il brivido gelido della paura verso l’ignoto. Ciò
nonostante proseguii con i miei stivali consumati verso altre
sfide e altri territori.
I territori tormentati tipici di una tundra nordica
sembravano alle spalle, con il loro denso odore di betulla e
gli alti abeti perseguitati dalla neve invernale. I
sempreverdi, che prima erano tutti intorno a me, si diradarono
per lasciare spazio a un misterioso labirinto.
Mi ritrovai improvvisamente vicino a intricate rovine che
portavano tanti anni quanti erano gli strati di licheni che le
coprivano. Erano malandate ma disegnavano ancora i loro
contorni. Se volevo addentrarmi nel labirinto, dovevo seguire
la direzione di quelle rovine; pazientemente, con tenacia e
spirito di sacrificio, dovevo piegare la mia volontà a quella
del fato. Il fato non doveva essere stato molto generoso
finora vista la sequenza di sfide che avevano indurito il mio
spirito e la mia pelle, irrobustendo il mio fisico ma
affaticandomi terribilmente.
La fatica era una sensazione che ben conoscevo, un’amica e
una compagna di tutti i giorni. Era come una donna che non
mente: bella e terribile allo stesso tempo. Non altrettanto
seducenti erano le scritte che trovavo sui muri, scritte
terribili e pentacoli che sembravano tracciati con resti umani
e sangue.
Controllando le scritte mi spaventavo sempre di più:
dicevano di non entrare e di non avventurarmi, di non provare
quel cammino terribile; dicevano di lasciare i propri desideri
perché non si sarebbero avverati, perché semplicemente saremmo
morti.
Tracce umane, teschi e corpi martoriati non troppo
distanti da me. Mi sentivo osservata e spiata. Tutto, proprio
tutto sarebbe potuto accadere in quel momento.
Da sola attraversavo quel nuovo territorio ostile fatto di
sabbia, piccoli spazi lastricati e muschio che cresceva tra le
crepe delle antiche rovine.
In quelle rovine vi erano teschi abbandonati, alcuni con i
capelli ancora impigliati, capelli oramai ingialliti dal
tempo.
All’improvviso, uno scricchiolio sospetto e poi uno
schianto. Davanti a me apparve una porta girevole, che spinsi.
E cosa trovai mi lasciò senza parole.
Era me stessa. Era me stessa, ma in un certo modo diversa.
Era me stessa, era me stessa che vedevo e non ci potevo
credere. Finalmente avrei avuto qualcuno con cui parlare e
confrontarmi. Avrebbe potuto dirmi da dove veniva, cosa
faceva.
Lei mi assomigliava in tutto, solo era vestita più
elegantemente. Aveva affrontato molte peripezie, come me, ma
non altrettanto pericolose. Trovandosi in un bel giardino, in
una dimensione lontana, era caduta ed era incappata nella
porta dimensionale che avevo aperto. Era così passata da un
mondo all’altro, trovandosi confusa e sotto shock per la
novità.
Ora eravamo in due in quel mondo parallelo, eravamo due
eroine nella notte, nel gelo di quelle agghiaccianti rovine.
Eravamo due ma pur sempre due gemelle, due piccole anime nella
notte, due candele accese che potevano aiutarsi l’un l’altra o
decidere di morire facendosi competizione.
La competizione femminile era qualcosa di micidiale, che
aveva portato le donne a prendersi per i capelli per l’amore
di un fedifrago o a perdere il lavoro per chi non era riuscita
a ingraziarsi il capo; la competizione era potente e micidiale
come fiale di veleno. Non potevo che temerla.
Valutavo attentamente gli atteggiamenti del mio clone,
della mia gemella, ma lei si dimostrò sempre molto affabile e
comprensiva. Mi seguiva sempre e aveva un atteggiamento
gentile e aperto nei miei confronti. Mentre ci avventuravamo
sempre più all’interno delle rovine, la nostra sintonia
cresceva.
Quel breve attimo di tranquillità, quel breve istante in
cui mi ero resa conto che non ero più sola, che potevo avere
un futuro, fu però presto sconvolto.
I MOSTRI DELLE CAVERNE
Era mostruoso, rumoroso e si nutriva di paura. Aveva il
corpo arrossato con le vene in vista per la bruciatura totale
della sua pelle. Era altissimo, circa quattro o cinque metri,
con robusti e grandissimi piedi che si muovevano facendo il
rumore di un masso che si frantuma per terra. Aveva la bocca
piena di denti per mordere e amava la carne umana.
Era vissuto lì per secoli, e nascosto aspettava giovani e
anziani al centro delle rovine, nel punto dove divenivano più
articolate; era vissuto nelle rovine fin da quando esse erano
un castello fantastico. Era il figlio non voluto di una
violenza ed era stato maledetto fin dal primo momento. Era il
frutto di uno stupro combinato con ben sette maledizioni
antiche. Aveva gli occhi gialli e luccicanti e poteva vedere
al buio, fiutare al buio.
Aveva fatto un patto con un’altra creatura demoniaca: un
mostro che odiava l’innocenza.
I loro nomi erano Dannazione, il risultato delle
maledizioni, e Vendetta, colui che odiava l’innocenza.
Vendetta era un killer silenzioso, raffinato, intelligente
e psicopatico che, vedendosi morire sul rogo, aveva fatto un
patto con Dannazione prima di essere bruciato vivo. Dannazione
era stato in grado di riprendere le ceneri di Vendetta e
riportarlo in questo mondo. Quest’ultimo, dopo la bruciatura
sul rogo, era tornato con una sete di sangue sempre maggiore.
Vendetta indossava una maglia a brandelli su cui si poteva
leggere ancora il suo nome: era scritto in gesso bianco e
contornato con il rosso delle sue vittime.
I due killer sentirono subito la presenza di due umani e
si nascosero nell’oscurità senza proferir parola, senza un
solo momento di esitazione. Conoscevano la nostra paura, erano
in grado di fiutarla, e percepivano nell’aria ogni odore,
insicurezza. Sapevano già che c’erano due anime buone vaganti
che avevano perso l’orientamento.
Io e l’altra me eravamo felici di essere insieme ma
proprio quella sensazione ci tradì, nel senso che inizialmente
avevamo perlustrato con timore le antiche rovine con i merli
rovinati e decadenti, ma poi, forse, ci eravamo fatte prendere
dall’entusiasmo ed eravamo andate avanti, ma senza una mappa.
Molte volte ci eravamo ritrovate in vicoli ciechi, e alla
fine, dopo aver girato in tondo più volte, ci eravamo rese
conto di esserci perse.
Non sapendo più come tornare indietro dovevamo cercare di
uscire. Le rovine erano sempre meno danneggiate e più
compatte, come se fossimo entrate in un’ala relativamente più
nuova. I muri erano spessi, grigi e umidi, l’acqua colava dal
soffitto creando delle pozze per terra.
Dentro quel dedalo vi erano grandi stanze semivuote,
grigie, umide e oscure. A volte la condensa si depositava sul
muro, altre si formava una nebbiolina distante da noi.
Incuriosite, cercavamo di capire cosa originasse la nebbia e
perché ci sentissimo terribilmente spiate.
In quel dedalo misterioso due sentimenti opposti
permeavano le nostre anime: timore e voglia di esplorare.
La volontà di esplorazione di nuovi territori è una spinta
che si avverte specialmente durante la pubertà, e in qualche
modo noi eravamo di nuovo delle adolescenti, nostro malgrado
alle prese con nuove esplorazioni.
Le nostre emozioni erano contrastanti ma sapevamo che,
sebbene il pericolo fosse imminente, eravamo esseri umani e
dovevamo mangiare. Erano giorni di magra ma avevamo ancora
delle riserve di carne secca perché quando l’altra me stessa
era fuori dalle rovine, aveva cacciato e raccolto bacche.
Ci ritirammo in un angolino a masticare quella parca mensa
che ai miei occhi non poteva che essere prelibata. I nostri
denti funzionarono come lame che tagliano tutto e la nostra
pietanza scomparve in fretta. Ripulimmo la zona e continuammo
il nostro pellegrinaggio sperando di non fare brutti incontri.
Durante il viaggio avevamo ripreso a vedere immagini orrende
disegnate, scritte che ci spingevano ad andare via, a
scappare, ma dove potevamo scappare?
Dove potevamo trovare un rifugio? Come potevamo uscire da
quel dedalo?
Proseguimmo e fortunatamente trovammo armi e proiettili;
li prendemmo pensando che in futuro avrebbero potuto esserci
utili.
Rinvenimmo anche una sorta di accampamento distrutto.
Sembrava fosse stato attaccato e che i cadaveri fossero stati
trascinati via: si vedevano chiaramente le strisce di sangue
provocate dal trascinamento dei corpi, tuttavia non trovammo
nessuna delle vittime.
Raccogliemmo tutte le armi possibili e anche il piccolo
kit del pronto soccorso: non sapevamo cosa ci aspettava e per
questo ci volevamo preparare. Se avessero voluto uccidere
queste due donne sole, be’, avrebbero dovuto faticare.
Eravamo armate e, sperando di aiutare quelli che erano
stati attaccati, avanzammo seguendo le strisce di sangue.
Tuttavia, presto iniziammo a temere il peggio per i poveri
malcapitati: dovevano aver perso molto sangue e la loro fine o
era già avvenuta oppure era molto vicina.
Seguimmo le strisce di sangue lungo la grande stanza, poi
passammo a un luogo più stretto e oscuro. Solo alcune fiaccole
illuminavano la strada, ma noi avevamo già deciso il nostro
percorso e ci facemmo forza l’una con l’altra.
Dall’angusto corridoio si presentava un passaggio più
ampio con soffitti altissimi che conteneva al centro un altro
stanzone murato. Lì per lì non vedemmo l’entrata, e fu questa
la nostra fortuna perché, sentendo il nostro odore, i mostri
uscirono per cercarci senza sapere esattamente dove fossimo, e
noi potemmo nasconderci subito lungo una roccia.
Erano orrendi e sporchi, macchiati di sangue.
Semplicemente agghiaccianti. Stavano litigando, lo capivo
perché si lanciavano strani raggi e palle infuocate che
percuotevano i loro corpi; se colpiti, si lamentavano con urla
baritonali e terribili.
Non erano urla comprensibili a noi, ma ipotizzavo avessero
iniziato a litigare e farsi i dispetti probabilmente perché
era troppo tempo che erano da soli e si annoiavano.
La lotta continuava e iniziavano a non fiutare più l’aria,
ma solo a litigare tra di loro sempre in modo più
appassionato. Forse avevano perso interesse per noi.
Si stavano facendo male l’uno con l’altro: era il momento
di attaccare e di cercare eventuali sopravvissuti. Avremmo
potuto ancora salvarli o tentare di farlo, pensavo speranzosa.
Tuttavia non vi erano molte speranze, ma se fossero stati
attaccati da poco, magari il kit di pronto soccorso avrebbe
potuto aiutarci.
Decidemmo quindi di prendere i mostri alle spalle e di
sparare mirando alle loro ferite; di indebolirli, se non
ucciderli.
Immaginavo chiaramente il nostro impegno, il nostro
avanzare silenzioso.
Iniziammo a sparare un secondo prima che si accorgessero
di noi. Le nostre pallottole, nonostante le loro dimensioni
mastodontiche, erano dolorose. Gli scaricammo addosso tutto
quello che potemmo, ma poi tutto finì male.
Vidi la fine, la vidi negli occhi scuri della donna che
era stata mortalmente ferita ed era esattamente uguale a me;
potevo vedere con i suoi occhi e percepire la vita che la
stava abbandonando lentamente. Tuttavia dovevo andarmene. Lei
capì che dovevo scappare e nei suoi occhi vidi il perdono e la
comprensione. La mia fuga era capita, giustificata.
Nei giorni a venire avrei sognato e sentito tutto il
dolore di quella creatura provenuta da molto lontano che
giammai avrei rivisto, la mia stessa immagine proveniente da
una dimensione diversa. Avrei sentito il gelido impatto
generato dal vortice infuocato che mi risucchiava, avrei
sentito il contatto con il freddo pavimento rudimentale, avrei
guardato in alto sapendo che non c’era più speranza in questo
mondo.
Nonostante tutto i mostri erano ancora vivi e potevano
farmi del male: dovevo lasciare da sola la mia compagna di
avventure appena trovata.
Per cercare di ucciderli lei si diede fuoco, facendo
saltare in aria i proiettili che erano rimasti. Ciò creò un
immenso dolore ai mostri che sembrarono urlare, gemere e
ruggire di rabbia e frustrazione e dolore. Li avevo visti in
ginocchio con la coda dell’occhio e dentro di me sperai di