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Scala E Cristallo
Scala E Cristallo

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Scala E Cristallo

Язык: Итальянский
Год издания: 2020
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quest’ultima ha un nome: per me, si chiama sensi di colpa.

I sensi di colpa mi avevano sempre provocato gli incubi,

e, infatti, essere sempre stata, durante la mia vita, molto

comprensiva con i bambini, mi aveva portato al successivo

incubo a occhi aperti.

Le pupille vedevano materializzarsi un bambino che mi

inseguiva, ma non era un bambino sorridente: aveva le unghie e

i denti, zanne che potevano mordere e strappare. La piccola

creatura poteva lacerarmi. Piangeva ma il suo pianto era quasi

un raccapricciante latrato, e io ne ero terrorizzata, sudavo e

tremavo. Ero sempre stata emotiva, infatti mi rappresentava

bene la descrizione del feeler, in questo caso spaventato.

I feeler sono emotivi ed empatici. Amano la vita

tranquilla, i sorrisi e i bambini; affetti dai sensi di colpa,

si ritirano a guscio dentro se stessi.

Io non potevo ritirarmi dentro me stessa perché il bambino

inferocito mi inseguiva e piangeva, urlava come l’ululare del

vento.

Avevo paura di affrontare la bestia e la mia innocenza che

non avevo preservato. Non avevo salvato quello che avrei

dovuto salvare e la mia coscienza mi perseguitava e mi

inseguiva, e io non potevo fare niente se non scappare, ancora

una volta.

Non avrei avuto il cuore di prendere a pugni un bambino,

così correvo, ma mi ritrovavo a correre con degli stivali dai

tacchi scomodi. Questi mi provocavano un dolore sordo a ogni

passo, mi laceravano tormentandomi la pelle e mi aprivano

velocemente vesciche. Erano un tormento senza fine.

Poi caddi sui gomiti e presi ad avanzare con ancor più

fatica sul pavimento di legno marrone scuro, scivoloso e

ostile, gelido come gli occhi del bambino che mi inseguiva.

Sapevo di meritarmeli, quegli occhi, non avevo difeso

abbastanza i bambini nella vita, non li avevo amati abbastanza

e attraverso questo ennesimo mostro loro tornavano a farmi

visita. Una visita amara ma costruttiva: dovevo pagare il

prezzo dei miei errori ed ero pronta a riconoscerli.

Dopo quell’inseguimento ci fu un’altra sconvolgente

visione: una bambina che rimbalzava contro i muri e io non

riuscivo a evitare che si facesse male. Era scivolosa, coperta

di olio, e cambiava direzione. Era imprevedibile.

Rappresentava esattamente la confusione che avevo dentro.

Non sapevo se proteggere lei o salvare me stessa dal

mostro che mi stava ancora inseguendo, il bambino che ululava

chiedendomi perché, tentando di ghermirmi e chiamandomi MAMMA.

Spaventosa parola per me che, sebbene ami i bambini, non

ho mai considerato seriamente la possibilità di essere mamma e

di costruirmi una famiglia. L’ho sempre vista come una cosa

lontana nel futuro, lontana da me, limitante per la mia

personalità e anche, odio doverlo ammettere, distruttiva per

il corpo femminile così delicato. Teneri sono i bambini che

hanno bisogno di cure, e ogni volta che vedevo le figlie delle

mie amiche muovere i primi passi mi aggiravo pensierosa,

temendo che la peste di turno rompesse qualcosa o si facesse

male; poi ci sono bambini e bambini. Ci sono bambini che non

nascono normali.

Voglio dire, tutti abbiamo la nostra individualità, ma ci

sono bambini che maltrattano gli animali e questo è un primo

segno preoccupante. Molti serial killer da piccoli

maltrattavano gli animali, ed era proprio il caso del bambino

che mi rincorreva in quel posto sudicio, quella baracca

legnosa piena di celle.

Percepivo dalla sua violenza, dal modo con cui rompeva le

cose, che non aveva ricevuto amore, ma sentivo anche che il

seme del male era insito in lui: era stato abusato e ora si

divertiva ad abusare. Era il male che si spargeva come una

malattia che non lasciava scampo, che ti rincorreva e che

avrebbe finito con il distruggerti lentamente soltanto

toccandoti. Era angosciante e sempre presente. Non potevo

continuare a scappare, dovevo reagire, tuttavia non sentivo

ancora le gambe sufficientemente forti, anche se, prima o poi,

una decisione doveva essere presa.

La decisione era vitale, non potevo lasciare che il

bambino mi distruggesse, ma dovevo anche fermare la bambina

che continuava a scivolarmi e a rimbalzare contro i muri.

Dovevo studiare un piano, una strategia per rendere

innocuo il mostro e salvarla.

Nel frattempo mi facevano anche male le spalle: era una

mia tipica reazione allo stress.

La tensione nervosa, per esempio, prima degli esami

all’università, mi portava a contrarre i muscoli delle spalle

con risultati pessimi per le scapole e per i muscoli

cervicali.

Tuttavia dovevo fare qualcosa, dovevo dannatamente fare

qualcosa.

Mi spostai, in modo che la bambina non sbattesse contro il

muro ma contro di me; speravo che dopo un po’ di tempo con

l’inerzia si sarebbe fermata. Le lacere corde che la

brandivano erano disarticolate, in parte spellate e non

integre; tuttavia erano resistenti. Tentai di tagliarle con il

temperino preso dalla mia sacca, ma lei tendeva a sfuggirmi di

mano ed era molto viscida a causa dell’olio spesso e

impenetrabile. Una sostanza oleosa simile al bitume.

Era scuro e quell’impresa mi causava fatica. Mi sentivo

osservata dal bambino che mi stava rincorrendo, sentivo i

brividi sulla schiena e temevo la morte in ogni instante, in

ogni mio singolo respiro… Il bambino era la mia coscienza e

non mi dava pace.

La coscienza è quella cosa che tiene sveglio di notte e ti

fa osservare a lungo un soffitto sempre uguale.

Ti fa percorrere passato e futuro in un attimo, vedi tutta

la vita in un attimo e poi devi decidere, devi decidere

secondo coscienza.

E decisi: avrei tentato di salvare la bambina. Potevo

morire io, potevo essere fatta a pezzi ma dovevo superare la

prova; dovevo cambiare ed essere più forte.

La forza si impara anche cammin facendo e io volevo che

fosse così per la mia vita, non volevo più scappare se non

quando fosse stato strettamente necessario. Qualcosa in me

stava cambiando e alla fine, forse, era giusto così. Era un

desiderio di pace e giustizia che paradossalmente mi spingeva

a lottare, un misto di bontà e dignità che è insito nei

guerrieri buoni delle storie che mi raccontavano da piccola.

Era la non accettazione del male, mai e senza nessun

compromesso, perché di compromessi per troppa bontà ne avevo

presi troppi ed ero ricorsa alla fuga, all’umiliazione e a un

deprimente sentimento di bassa autostima. La depressione non

la volevo più, volevo combatterla. Volevo salvare la bambina

che ciondolava, perché in quel pendolo di incertezze vedevo me

stessa, in bilico tra una decisione e l’altra, confusa e

insicura.

Dovevo agire istintivamente quando la bambina sarebbe

arrivata a metà percorso. Avrei tentato di tagliare la corda,

il problema era: con cosa?

Avrei potuto provare con il temperino con cui tagliavo la

carne secca oppure interi rami delle piante di bacca di cui

andavo tanto ghiotta. Era un piccolo temperino ed era

abbastanza malconcio… dovevo però agire in fretta ed essere

precisa, perché avevo un altro mostro non lontano da me.

Mi lanciai a testa bassa, pensando che poteva essere mia

figlia e che avevo il dovere morale di salvarla, o almeno di

provarci. Il coltello tagliò rapidamente la prima parte della

corda poiché macilenta, ma poi si fermò.

Più provavo e meno riuscivo a tagliare.

Sentivo ridere alle mie spalle e provavo un gelo dentro di

me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare

le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e

capii che l’oscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e

che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi

verdi e terribili.

Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.

Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la

rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e

riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.

E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno

potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.

Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,

ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non

avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola

che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più

niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa

bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso

uccidimi se ti va… fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il

mio sangue?».

Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse

la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo

superato la prova e che stavo diventando più forte.

La forza l’avevo temprata dentro di me forgiandola con la

pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a

ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma

anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è

forse questa l’origine di ogni insicurezza e l’anello comune a

tutta l’umanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci

spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.

Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire

e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte

non vedevo l’ora di misurarmi con esse, ma dall’altra sentivo

ancora il brivido gelido della paura verso l’ignoto. Ciò

nonostante proseguii con i miei stivali consumati verso altre

sfide e altri territori.

I territori tormentati tipici di una tundra nordica

sembravano alle spalle, con il loro denso odore di betulla e

gli alti abeti perseguitati dalla neve invernale. I

sempreverdi, che prima erano tutti intorno a me, si diradarono

per lasciare spazio a un misterioso labirinto.

Mi ritrovai improvvisamente vicino a intricate rovine che

portavano tanti anni quanti erano gli strati di licheni che le

coprivano. Erano malandate ma disegnavano ancora i loro

contorni. Se volevo addentrarmi nel labirinto, dovevo seguire

la direzione di quelle rovine; pazientemente, con tenacia e

spirito di sacrificio, dovevo piegare la mia volontà a quella

del fato. Il fato non doveva essere stato molto generoso

finora vista la sequenza di sfide che avevano indurito il mio

spirito e la mia pelle, irrobustendo il mio fisico ma

affaticandomi terribilmente.

La fatica era una sensazione che ben conoscevo, un’amica e

una compagna di tutti i giorni. Era come una donna che non

mente: bella e terribile allo stesso tempo. Non altrettanto

seducenti erano le scritte che trovavo sui muri, scritte

terribili e pentacoli che sembravano tracciati con resti umani

e sangue.

Controllando le scritte mi spaventavo sempre di più:

dicevano di non entrare e di non avventurarmi, di non provare

quel cammino terribile; dicevano di lasciare i propri desideri

perché non si sarebbero avverati, perché semplicemente saremmo

morti.

Tracce umane, teschi e corpi martoriati non troppo

distanti da me. Mi sentivo osservata e spiata. Tutto, proprio

tutto sarebbe potuto accadere in quel momento.

Da sola attraversavo quel nuovo territorio ostile fatto di

sabbia, piccoli spazi lastricati e muschio che cresceva tra le

crepe delle antiche rovine.

In quelle rovine vi erano teschi abbandonati, alcuni con i

capelli ancora impigliati, capelli oramai ingialliti dal

tempo.

All’improvviso, uno scricchiolio sospetto e poi uno

schianto. Davanti a me apparve una porta girevole, che spinsi.

E cosa trovai mi lasciò senza parole.

Era me stessa. Era me stessa, ma in un certo modo diversa.

Era me stessa, era me stessa che vedevo e non ci potevo

credere. Finalmente avrei avuto qualcuno con cui parlare e

confrontarmi. Avrebbe potuto dirmi da dove veniva, cosa

faceva.

Lei mi assomigliava in tutto, solo era vestita più

elegantemente. Aveva affrontato molte peripezie, come me, ma

non altrettanto pericolose. Trovandosi in un bel giardino, in

una dimensione lontana, era caduta ed era incappata nella

porta dimensionale che avevo aperto. Era così passata da un

mondo all’altro, trovandosi confusa e sotto shock per la

novità.

Ora eravamo in due in quel mondo parallelo, eravamo due

eroine nella notte, nel gelo di quelle agghiaccianti rovine.

Eravamo due ma pur sempre due gemelle, due piccole anime nella

notte, due candele accese che potevano aiutarsi l’un l’altra o

decidere di morire facendosi competizione.

La competizione femminile era qualcosa di micidiale, che

aveva portato le donne a prendersi per i capelli per l’amore

di un fedifrago o a perdere il lavoro per chi non era riuscita

a ingraziarsi il capo; la competizione era potente e micidiale

come fiale di veleno. Non potevo che temerla.

Valutavo attentamente gli atteggiamenti del mio clone,

della mia gemella, ma lei si dimostrò sempre molto affabile e

comprensiva. Mi seguiva sempre e aveva un atteggiamento

gentile e aperto nei miei confronti. Mentre ci avventuravamo

sempre più all’interno delle rovine, la nostra sintonia

cresceva.

Quel breve attimo di tranquillità, quel breve istante in

cui mi ero resa conto che non ero più sola, che potevo avere

un futuro, fu però presto sconvolto.


I MOSTRI DELLE CAVERNE

Era mostruoso, rumoroso e si nutriva di paura. Aveva il

corpo arrossato con le vene in vista per la bruciatura totale

della sua pelle. Era altissimo, circa quattro o cinque metri,

con robusti e grandissimi piedi che si muovevano facendo il

rumore di un masso che si frantuma per terra. Aveva la bocca

piena di denti per mordere e amava la carne umana.

Era vissuto lì per secoli, e nascosto aspettava giovani e

anziani al centro delle rovine, nel punto dove divenivano più

articolate; era vissuto nelle rovine fin da quando esse erano

un castello fantastico. Era il figlio non voluto di una

violenza ed era stato maledetto fin dal primo momento. Era il

frutto di uno stupro combinato con ben sette maledizioni

antiche. Aveva gli occhi gialli e luccicanti e poteva vedere

al buio, fiutare al buio.


Aveva fatto un patto con un’altra creatura demoniaca: un

mostro che odiava l’innocenza.

I loro nomi erano Dannazione, il risultato delle

maledizioni, e Vendetta, colui che odiava l’innocenza.

Vendetta era un killer silenzioso, raffinato, intelligente

e psicopatico che, vedendosi morire sul rogo, aveva fatto un

patto con Dannazione prima di essere bruciato vivo. Dannazione

era stato in grado di riprendere le ceneri di Vendetta e

riportarlo in questo mondo. Quest’ultimo, dopo la bruciatura

sul rogo, era tornato con una sete di sangue sempre maggiore.

Vendetta indossava una maglia a brandelli su cui si poteva

leggere ancora il suo nome: era scritto in gesso bianco e

contornato con il rosso delle sue vittime.

I due killer sentirono subito la presenza di due umani e

si nascosero nell’oscurità senza proferir parola, senza un

solo momento di esitazione. Conoscevano la nostra paura, erano

in grado di fiutarla, e percepivano nell’aria ogni odore,

insicurezza. Sapevano già che c’erano due anime buone vaganti

che avevano perso l’orientamento.

Io e l’altra me eravamo felici di essere insieme ma

proprio quella sensazione ci tradì, nel senso che inizialmente

avevamo perlustrato con timore le antiche rovine con i merli

rovinati e decadenti, ma poi, forse, ci eravamo fatte prendere

dall’entusiasmo ed eravamo andate avanti, ma senza una mappa.

Molte volte ci eravamo ritrovate in vicoli ciechi, e alla

fine, dopo aver girato in tondo più volte, ci eravamo rese

conto di esserci perse.

Non sapendo più come tornare indietro dovevamo cercare di

uscire. Le rovine erano sempre meno danneggiate e più

compatte, come se fossimo entrate in un’ala relativamente più

nuova. I muri erano spessi, grigi e umidi, l’acqua colava dal

soffitto creando delle pozze per terra.

Dentro quel dedalo vi erano grandi stanze semivuote,

grigie, umide e oscure. A volte la condensa si depositava sul

muro, altre si formava una nebbiolina distante da noi.

Incuriosite, cercavamo di capire cosa originasse la nebbia e

perché ci sentissimo terribilmente spiate.

In quel dedalo misterioso due sentimenti opposti

permeavano le nostre anime: timore e voglia di esplorare.

La volontà di esplorazione di nuovi territori è una spinta

che si avverte specialmente durante la pubertà, e in qualche

modo noi eravamo di nuovo delle adolescenti, nostro malgrado

alle prese con nuove esplorazioni.

Le nostre emozioni erano contrastanti ma sapevamo che,

sebbene il pericolo fosse imminente, eravamo esseri umani e


dovevamo mangiare. Erano giorni di magra ma avevamo ancora

delle riserve di carne secca perché quando l’altra me stessa

era fuori dalle rovine, aveva cacciato e raccolto bacche.

Ci ritirammo in un angolino a masticare quella parca mensa

che ai miei occhi non poteva che essere prelibata. I nostri

denti funzionarono come lame che tagliano tutto e la nostra

pietanza scomparve in fretta. Ripulimmo la zona e continuammo

il nostro pellegrinaggio sperando di non fare brutti incontri.

Durante il viaggio avevamo ripreso a vedere immagini orrende

disegnate, scritte che ci spingevano ad andare via, a

scappare, ma dove potevamo scappare?

Dove potevamo trovare un rifugio? Come potevamo uscire da

quel dedalo?

Proseguimmo e fortunatamente trovammo armi e proiettili;

li prendemmo pensando che in futuro avrebbero potuto esserci

utili.

Rinvenimmo anche una sorta di accampamento distrutto.

Sembrava fosse stato attaccato e che i cadaveri fossero stati

trascinati via: si vedevano chiaramente le strisce di sangue

provocate dal trascinamento dei corpi, tuttavia non trovammo

nessuna delle vittime.

Raccogliemmo tutte le armi possibili e anche il piccolo

kit del pronto soccorso: non sapevamo cosa ci aspettava e per

questo ci volevamo preparare. Se avessero voluto uccidere

queste due donne sole, be’, avrebbero dovuto faticare.

Eravamo armate e, sperando di aiutare quelli che erano

stati attaccati, avanzammo seguendo le strisce di sangue.

Tuttavia, presto iniziammo a temere il peggio per i poveri

malcapitati: dovevano aver perso molto sangue e la loro fine o

era già avvenuta oppure era molto vicina.

Seguimmo le strisce di sangue lungo la grande stanza, poi

passammo a un luogo più stretto e oscuro. Solo alcune fiaccole

illuminavano la strada, ma noi avevamo già deciso il nostro

percorso e ci facemmo forza l’una con l’altra.

Dall’angusto corridoio si presentava un passaggio più

ampio con soffitti altissimi che conteneva al centro un altro

stanzone murato. Lì per lì non vedemmo l’entrata, e fu questa

la nostra fortuna perché, sentendo il nostro odore, i mostri

uscirono per cercarci senza sapere esattamente dove fossimo, e

noi potemmo nasconderci subito lungo una roccia.

Erano orrendi e sporchi, macchiati di sangue.

Semplicemente agghiaccianti. Stavano litigando, lo capivo

perché si lanciavano strani raggi e palle infuocate che

percuotevano i loro corpi; se colpiti, si lamentavano con urla

baritonali e terribili.

Non erano urla comprensibili a noi, ma ipotizzavo avessero

iniziato a litigare e farsi i dispetti probabilmente perché

era troppo tempo che erano da soli e si annoiavano.

La lotta continuava e iniziavano a non fiutare più l’aria,

ma solo a litigare tra di loro sempre in modo più

appassionato. Forse avevano perso interesse per noi.

Si stavano facendo male l’uno con l’altro: era il momento

di attaccare e di cercare eventuali sopravvissuti. Avremmo

potuto ancora salvarli o tentare di farlo, pensavo speranzosa.

Tuttavia non vi erano molte speranze, ma se fossero stati

attaccati da poco, magari il kit di pronto soccorso avrebbe

potuto aiutarci.

Decidemmo quindi di prendere i mostri alle spalle e di

sparare mirando alle loro ferite; di indebolirli, se non

ucciderli.

Immaginavo chiaramente il nostro impegno, il nostro

avanzare silenzioso.

Iniziammo a sparare un secondo prima che si accorgessero

di noi. Le nostre pallottole, nonostante le loro dimensioni

mastodontiche, erano dolorose. Gli scaricammo addosso tutto

quello che potemmo, ma poi tutto finì male.

Vidi la fine, la vidi negli occhi scuri della donna che

era stata mortalmente ferita ed era esattamente uguale a me;

potevo vedere con i suoi occhi e percepire la vita che la

stava abbandonando lentamente. Tuttavia dovevo andarmene. Lei

capì che dovevo scappare e nei suoi occhi vidi il perdono e la

comprensione. La mia fuga era capita, giustificata.

Nei giorni a venire avrei sognato e sentito tutto il

dolore di quella creatura provenuta da molto lontano che

giammai avrei rivisto, la mia stessa immagine proveniente da

una dimensione diversa. Avrei sentito il gelido impatto

generato dal vortice infuocato che mi risucchiava, avrei

sentito il contatto con il freddo pavimento rudimentale, avrei

guardato in alto sapendo che non c’era più speranza in questo

mondo.

Nonostante tutto i mostri erano ancora vivi e potevano

farmi del male: dovevo lasciare da sola la mia compagna di

avventure appena trovata.

Per cercare di ucciderli lei si diede fuoco, facendo

saltare in aria i proiettili che erano rimasti. Ciò creò un

immenso dolore ai mostri che sembrarono urlare, gemere e

ruggire di rabbia e frustrazione e dolore. Li avevo visti in

ginocchio con la coda dell’occhio e dentro di me sperai di

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