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È L'Amore Che Ti Trova
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“Di solito, quando si prende un permesso, si fa una telefonata al proprio datore di lavoro per farglielo sapere. Rischi di perdere di nuovo il posto. Avresti almeno potuto avvertirmi, era il minimo che potessi fare. Mi sono preoccupata da morire.”

“Lilly, mi dispiace davvero. Hai ragione, ho sbagliato e avrei dovuto avvertirti. Sai come sono, tesoro. Adesso chiamo Jeff e gli spiego la situazione. Capirà. E non preoccuparti più così tanto per me e per il mio lavoro. Andrà tutto bene. Jeff è un vecchio amico. Ci conosciamo da anni.”

La giovane donna sospirò.

“Quando pensi di tornare?”

“Domani. Forse dopodomani. Non lo so, Lilly.”

Lei sapeva che lamentarsi sarebbe stato inutile e riattaccò dopo avergli fatto promettere di richiamarla. Ian aprì la finestra e gettò via il mozzicone della sigaretta. Si infilò i jeans e scese. Trovò Ryan sulla terrazza sul retro della casa, di fronte all’oceano.

“Allora, ieri sera?” chiese Ryan strizzando l’occhio.

“È stato magico.”

“Sei andato fino in fondo con lei? Ne è valsa la pena?”

Ian prese una sedia che stava di fronte al suo amico e lo guardò, con un sorrisetto compiaciuto.

“Ti cambierebbe qualcosa?”

Ryan scoppiò a ridere.

“Non sei riuscito a fartela?!”

“Quella ragazza è molto di più. Ha qualcosa che mi sfugge. Che mi attira. È una fottuta questione di anime. Il sesso viene dopo. Una fusione o qualcosa del genere…”

Ryan continuò a ridere mentre Ian scriveva un messaggio a Emma, proponendole di incontrarla la sera all’Ocean Bar come il giorno prima. Era nervoso, ma sicuro di rivederla. L’energia che scorreva tra loro era innegabile.

“E con Lilly, come la metti?”

***

Emma aveva potuto riposare un po’ nel tardo pomeriggio, nonostante una giornata zeppa di interviste con imprenditori e grandi nomi nel campo della moda. Era rimasta colpita nell’incontrare quei personaggi pittoreschi. Non aveva avuto molto a che fare con Candice e aveva semplicemente seguito Charlotte come un cagnolino.

Aveva ricevuto il messaggio di Ian e lo stava aspettando già da venticinque minuti all’Ocean Bar, come indicato. Era ansiosa e desiderosa di rivederlo. Il cuore le batteva forte. Il posto era molto più affollato del giorno prima e aveva dovuto intrufolarsi tra la gente per arrivare al bancone. Non ricordava più l’ultima volta che si era sentita così nervosa, era stato tanto tempo prima. Controllava regolarmente il telefono per vedere se Ian le aveva scritto per il suo ritardo.

Dopo quaranta minuti si rese conto che le aveva dato buca. I suoi occhi erano ormai offuscati dalle lacrime, che cercava invano di trattenere. Era delusa e fece il giro del locale con lo sguardo per assicurarsi che non fosse lì. Sapeva che era infantile piangere per una cosa del genere. Poi vide Candice da sola a un tavolo e soffocò le lacrime. Candice era facilmente riconoscibile perché il suo aspetto non quadrava con quello della maggioranza delle persone presenti. Era più matura della media e il suo stile era un po’ troppo di classe rispetto agli altri in bermuda, gonna e canottiera. Esitò tra andare a salutarla e rimanere seduta fingendo di non averla vista. Quella donna la terrorizzava. Aveva un temperamento per lei difficile da affrontare.

Dopo dieci minuti abbondanti, Emma si arrese di fronte alla triste evidenza che Ian non sarebbe mai venuto, anche se aveva sperato diversamente. Era arrabbiata, ma soprattutto delusa per essersi lasciata illudere da uno bravo a chiacchiere, che non avrebbe in ogni caso più rivisto quando sarebbe tornata nel Quebec. Ad ogni modo, era felice di non aver ceduto ai suoi impulsi e desideri. Decise quindi di andare a salutare Candice, che era ancora tutta sola al suo tavolo. Aveva davanti a sé un bicchiere mezzo pieno e molti altri vuoti. Emma si chiese per un attimo come fosse possibile che avesse bevuto così tanto, se la serata era appena iniziata. Nonostante la sua eleganza e il suo portamento, quasi altezzoso, i suoi occhi sembravano appannati e molto stanchi.

“Buonasera signora Rose, posso sedermi?” domandò Emma, appoggiando le mani sulla sedia di fronte a Candice.

Candice le offrì un sorriso caloroso, molto più espressivo del solito, da cui dedusse la possibilità che fosse già ubriaca. Poi la fissò dalla testa ai piedi, come faceva sempre. Questa volta si soffermò di più sul suo corpo.

“Certo, signorina”, rispose, con una voce impastata e uno sguardo vitreo.

Fu dopo averla sentita parlare che Emma ebbe la conferma che Candice era in uno stato avanzato di ebbrezza. Inizialmente ne fu sorpresa, poiché Candice era pur sempre una persona ossessionata dal potere e dal controllo, ma comprese rapidamente che ognuno ha le proprie debolezze.

“È sola ?” chiese Emma.

“La solitudine è la mia migliore amica. Cosa fa una bella donna come te senza un accompagnatore? Il tuo amante di ieri sera ti ha piantata in asso?”

Emma rimase di nuovo sorpresa per la confidenza con cui parlava.

“Voglio chiarire che non ho avuto una notte di sesso sfrenato, come lei sembra immaginare. Sì, mi aveva dato un appuntamento, ma non si è presentato.”

“Gli uomini sono sempre così affidabili. Merda!”

Emma non poté trattenere un sospiro. Fece un sorriso forzato a Candice, che bevve d’un sorso il bourbon rimasto nel bicchiere.

“Sicuramente aveva una buona ragione”, replicò Emma alzando le spalle.

In realtà stava cercando di convincersi.

“Nessuno avrà mai una buona ragione per mancarti di rispetto. Ficcatelo bene in quella testa”, rispose Candice puntando alla sua testa con l’indice.

Emma sussultò al tono che la donna aveva usato e sentì un leggero disagio. Scelse quel momento per accomiatarsi.

“Torno in albergo. Vado a riposarmi un po’ per domani…”

“Resta ancora un po’. Vuoi qualcosa da bere? Te lo offro. Cosa prendi?”

Candice alzò la mano per far venire uno dei camerieri. Emma giocò con le dita sotto il tavolo e si sentì costretta a rimanere. Provava pietà per la donna di fronte a lei. Temeva anche che le potesse succedere qualcosa nello stato in cui si trovava, se fosse rimasta sola.

Disse al cameriere che voleva del vino rosso, mentre Candice chiese un altro bourbon con ghiaccio. La donna fissò di nuovo Emma. Le ricordava vagamente qualcuno del suo passato che aveva significato molto per lei. Sembrava fragile, eppure dimostrava una certa forza. Le persone come Emma affascinavano Candice. Per lei era una debolezza far vedere la propria vulnerabilità. Emma si sentì ancora a disagio per essere così sotto osservazione. Era troppo intimidita per chiederle la ragione di tanta insistenza o per iniziare una conversazione. Poi si arrischiò a fare una domanda, pensando che avrebbero passato il resto della serata a guardarsi se una di loro non avesse rotto il silenzio.

“Ha avuto una bella giornata?”

“Una come le altre”, rispose Candice scacciando l’argomento con un gesto della mano e continuò: ”Hai potuto dormire un po’?”

“Sa, non sono abituata a passare la notte fuori, è piuttosto Charl…”

Emma si mise la mano davanti alla bocca e interruppe la sua risposta, rendendosi conto che stava per rivelare un comportamento intimo di Charlotte. Fornire quel tipo di dettagli sulla sua migliore amica non era molto utile ed era ancora meno saggio fornirli alla persona che l’aveva assunta professionalmente. Sentì un senso di colpa invaderla. Candice rise liberamente. La sincerità di quella risata sconcertò Emma. Dava un nuovo volto alla donna dura che conosceva e addolciva i tratti particolarmente freddi e intrattabili che la contraddistinguevano.

“Non ti preoccupare, Emma, non tradirò il tuo piccolo segreto. So molto di più su Charlotte di quanto lei possa immaginare. Stai solo confermando quello che pensavo e quello che ho sentito dire.”

“Avrei dovuto tenere la bocca chiusa. Non voglio che questo cambi l’opinione che ha di lei.”

Candice sorrise e posò la mano su quella della giovane donna, che si irrigidì al contatto e tolse subito la sua. Emma aveva molte difficoltà con la vicinanza fisica delle persone. Candice notò il suo gesto, ma preferì non farlo presente.

“Charlotte ha molto carattere. Andrà lontano, almeno finché la sua debolezza per il genere maschile non le sia di intralcio.”

“Ne sarei davvero sorpresa. Gli uomini sono seduti su sedili a espulsione con lei.”

Emma si morse la lingua. Si era resa conto di avere di nuovo parlato troppo, vedendo il sorriso di Candice disegnarsi sulle sue labbra. Continuava a dire spropositi e preferì stare zitta. Candice, nonostante l’effetto dell’alcol, si accorse del suo disagio e cercò di cambiare argomento.

“Hai sempre vissuto a Montreal?”

“No. Sono nata in un grazioso villaggio della Beauce, molto vicino al confine americano. Mio padre è americano.”

“Che lavoro fanno i tuoi genitori?”

“Mio padre lavora in una pescheria. Mia madre se n’è andata quando ero ancora bambina. Non fa più parte della mia vita.”

A Emma non piaceva parlare della sua famiglia. Spesso si limitava a rispondere brevemente alle domande che le venivano poste al riguardo, senza aggiungere dettagli superflui. Deviò la conversazione concentrandosi su Candice e sulle sue origini.

Quest’ultima non si rese conto di nulla, tanto alcol aveva in corpo. Cominciò allora a spiegarle che circolava una leggenda metropolitana sulla sua nascita. Non l’aveva mai negata. Alcuni avevano spinto la storia al punto di dire che aveva sangue reale. Persino che i suoi antenati discendevano direttamente da una principessa, ma era tutto falso. Candice proveniva da una famiglia modesta di un villaggio costiero dell’Inghilterra. Non aveva studiato a Oxford, ma aveva frequentato corsi di comunicazione per corrispondenza. Aveva incontrato suo marito, Nicolas Campeau, non a un ricevimento mondano dove erano stati entrambi invitati, ma mentre lei serviva le bevande in un bar dove lui era andato a festeggiare la firma di un importante contratto con un cliente del posto. L’aveva sedotta e le aveva promesso che non l’avrebbe mai abbandonata. Lei aveva finito per cedere, ignara che fosse un importante uomo d’affari nel suo paese d’origine. Era felicissima di abbandonare il suo villaggio sperduto e vivere finalmente la vita che aveva sognato. Era partita su due piedi e non immaginava che quell’uomo sarebbe stato ancora suo marito decenni dopo. Il monologo di Candice era presto diventato sconclusionato, così Emma le propose di andarsene e tornare in albergo.

CAPITOLO  4 – L’ASCENSORE

Candice camminava barcollando, sostenuta da Emma che la aiutava ad andare avanti. Quest’ultima si chiese per un attimo in che guaio si fosse cacciata volendo fare la salvatrice. Non aveva osato chiedere soccorso alla sua migliore amica, mandandole un messaggio. Non voleva che Charlotte vedesse il triste spettacolo che il suo capo stava offrendo. La sua amica le aveva già confessato di avere una certa ammirazione per Candice ed Emma non voleva rovinare l’immagine che se ne era fatta. Inoltre, per l’orgoglio di Candice, sapeva che era meglio che nessuno dei suoi dipendenti la vedesse in condizioni così deplorevoli.

Aveva chiamato un taxi per tornare all’albergo, anche se si trovava nelle vicinanze. Non si era persa nessuna fase dell’ubriachezza di Candice. Quest’ultima si era confidata, in modo abbastanza deprimente, sui suoi figli, che non erano ben riusciti. Aveva anche parlato di suo marito che la tradiva, senza nemmeno nasconderlo, con donne più giovani di lui, e aveva una relazione stabile con una delle sue assistenti. Candice temeva che alla fine l’avrebbe lasciata per quella ‘puttana’, come lei l’aveva soprannominata. Emma non aveva immaginato neanche per un secondo che la sua serata sarebbe andata così, a fare la psicologa improvvisata per una ricca donna d’affari. Provava compassione per quella donna che, dietro una spessa corazza, nascondeva una persona ferita e umiliata che aveva avuto una vita difficile, nonostante tutti i soldi che possedeva.

Candice si era mostrata nella sua vera luce. In tutta la sua vulnerabilità e senza andare per il sottile. Emma non poteva che rispettare quell’audacia, anche se incoraggiata dall’alcol. L’alcol era diventato una stampella per lei. Un modo come un altro per sfuggire alla realtà che stava diventando troppo difficile. Sotto quella facciata fredda e forte si nascondeva un’anima sofferente. Una donna con una sete irrimediabile di amore. Chi non aveva bisogno di essere amato? Emma era la prima. Eppure, come quella donna che indossava una maschera per tenere le persone lontane da sé, anche lei faceva tutto il possibile per evitare che gli altri le si avvicinassero troppo. Charlotte era una delle poche che accettava nella sua cerchia ristretta. Non dava nessuna relazione per scontata.

“Qual è il numero della sua stanza?” chiese, entrando nell’ascensore.

“Allora… wait a minute. It’s… ho… I think…”

Candice, appoggiata a Emma, cercò nella borsa e tirò fuori la sua smart card, che le consegnò. Emma constatò che non era al suo stesso piano e compose il numero corretto corrispondente al piano della camera di Candice. La trascinò lungo il corridoio fino al numero 349 e infilò la smart card. Quando aprì la porta notò che sembrava più una suite che la piccola stanza che lei e Charlotte condividevano. Avrebbe dovuto immaginare che, con i suoi mezzi finanziari e il suo status, si concedeva dei lussi.

“È arrivata a destinazione”, le disse piano, spingendo Candice all’interno della camera.

“Grazie mille”, mormorò lei.

“Se la caverà?”

La donna le sorrise, poi la abbracciò premendola contro di sé per alcuni secondi prima di baciarla sulla guancia e allontanarsi. Il suo respiro puzzava di alcol, il che fece fare una smorfia a Emma.

“Va tutto bene, Emma”, rispose infine, trovando la direzione del letto, impeccabilmente fatto, per sdraiarsi vestita.

Emma si avvicinò per assicurarsi un’ultima volta che la donna stesse bene, ma stava già russando. Tirò su una delle coperte e la pose su Candice, che socchiuse gli occhi per alcuni istanti prima di richiuderli, con un sorriso sulle labbra. Andò a mettere la borsa di Candice su una poltrona nell’angolo della stanza. Poi si diresse verso l’uscita e spense la luce lasciando immediatamente l’area. Dopo aver composto il suo numero di piano si appoggiò alla parete. La porta si chiuse e lei chiuse gli occhi finché l’ascensore non si fermò e lasciò entrare Gabriel Jones. Nonostante l’evidente stanchezza sul viso, l’uomo sorrise calorosamente a Emma.

“Le due quebecchesi, giusto?” disse con un sorrisetto agli angoli della bocca che sciolse la giovane donna.

Emma annuì e ricambiò il sorriso. L’uomo si ricordava di lei e le aveva anche rivolto la parola, cosa che non aveva fatto durante il loro breve incontro mattutino. Ne rimase colpita.

“Grande serata?” chiese timidamente sorridendogli.

“Sì. Chi avrebbe mai detto che un seminario potesse essere ancora più estenuante che fare ventiquattro ore al pronto soccorso?” reagì lui in tono ironico.

“Lei è un medico?”

Le stava per rispondere quando l’ascensore fece uno strano rumore e si fermò improvvisamente durante la discesa. Emma fu proiettata, suo malgrado, verso Gabriel e lo spinse involontariamente contro la parete alla sua sinistra. Farfugliò delle scuse, annusando en passant il profumo fresco e vivo che emanava, piacevolissimo alle narici. Il suo odore fece affiorare in lei l’immagine di un insegnante di francese del liceo che portava un profumo simile e per il quale aveva avuto una cotta passeggera. Si allontanò rapidamente dall’uomo, confusa.

“Sta bene?” chiese lui preoccupato.

“Sì, sorpresa, ma sto bene. Credo che l’ascensore ci abbia lasciati a piedi”, rispose Emma arrossendo.

Gabriel prese il telefono rosso per le emergenze e compose il numero di servizio per notificare il guasto. Scambiò qualche frase, poi riattaccò.

“Penso che rischiamo di passare molto tempo qui”, disse, “c’è un ragazzo nuovo alla reception e sembrava completamente perso. Richiederà assistenza immediata.”

Emma respirò lentamente. Cercava di mantenere la calma nonostante il panico che stava crescendo in lei. Ritrovarsi in un posto chiuso e senza via d’uscita la rendeva un po’ nervosa.

“Con un po’ di fortuna, potrebbe essere solo un piccolo guasto…”

“Lo spero. Ho un aereo domattina molto presto per tornare a casa. Non che non sia contento di essere bloccato qui con una signorina così graziosa”, disse Gabriel con un sorriso seducente.

Non volendolo, Emma rise al commento, ma preferì non dire nulla. Doveva essere un donnaiolo, vista la sua abilità nel parlare. Continuava a sentire il disagio di essere bloccata in un ambiente senza finestre e senza possibilità d’uscita. Imitò Gabriel quando lui decise di sedersi per terra e usare il telefono per controllare le sue e-mail. Udì la suoneria del suo e si mise a cercare in fondo alla borsa per trovarlo, togliendo nel frattempo alcuni oggetti strani che normalmente non si trovano nella borsa di una donna, sotto lo sguardo divertito del suo compagno d’ascensore. Quando finalmente mise le mani sul cellulare, notò un messaggio lasciato da Ian, che si affrettò a leggere. « Mi dispiace per stasera. Un’emergenza. I miei pensieri erano con te. Baci.» Emma fece una smorfia senza rendersene conto.

“Cattive notizie?”

“No, per niente. Qualcuno che mi ha dato buca e si è scusato.”

“Meglio tardi che mai, direi. Non è molto bello far aspettare qualcuno.”

Emma mantenne il suo sguardo su Gabriel. Lo trovava molto piacevole da contemplare e, all’opposto di Ian, sembrava un tipo piuttosto serio. Indossava un completo nero. Aveva aperto i primi tre bottoni della camicia e sciolto il papillon. Un chiaro segno che la sua serata era terminata. Fissò per un attimo la piccola cicatrice che aveva sulla fronte. Una linea dritta, orizzontale, sopra il suo occhio sinistro. Si chiese come se la fosse fatta. Pensò che probabilmente anche quello era stato giocando a hockey. Cosa che trovò esilarante, poiché non sapeva nemmeno se si interessasse di quello sport o se lo avesse mai praticato. Emma si divertiva immensamente a lavorare con la fantasia. Non che vivesse in un mondo parallelo, ma era nella sua indole inventare storie che finiva per mettere sulla carta. Per il piacere di creare aneddoti e personaggi più vivi di quelli reali.

“Credo nelle seconde possibilità”, gli rispose  tornando a guardare il suo telefono per leggere il secondo messaggio che aveva ricevuto.

“Ci credo anch’io. La vita spesso ci offre più di una chance, ma sovente sono le persone a non saperne fare buon uso”, rispose lui. Poi decise di cambiare argomento: “Come sta la signorina Riopel?” ponendo il telefono al proprio lato.

“Charlotte?”

Emma sentì affiorare una punta di gelosia. Era peraltro normale: gli uomini continuavano a ricordarsi di Charlotte. Le chiedevano regolarmente il suo numero di telefono, se avessero qualche possibilità o se frequentasse qualcuno. Anche se amava molto la sua migliore amica, a volte ciò diventava pesante. Anche lei avrebbe voluto suscitare l’interesse degli uomini. D’altra parte, era consapevole che la sua amica emanava un’aura di sesso, di piacere senza vincoli e spesso quello era tutto ciò che un uomo comune voleva. In quel campo avrebbe sempre vinto. Ma sapeva anche che la forza di Charlotte poteva essere una debolezza. Lei, Emma, era più mite, più discreta, mirava a relazioni più serie e non faceva a gara sul numero di amanti che passavano per il suo letto.

“Sì, Charlotte. Abbiamo passato un momento piacevole insieme, ieri sera. È riuscita a divertirmi con la sua vivacità di spirito e il suo umorismo…”

Emma sospirò e posò il telefono vicino a sé guardando Gabriel. Lui aspettò, osservandola attentamente.

“Presumo che stia bene. Almeno stava bene l’ultima volta che le ho parlato. Vuole che le dia il suo numero, immagino.”

Emma sapeva che Charlotte accettava i numeri degli altri e raramente dava il suo.

Le sue parole erano uscite d’impulso, senza che le potesse soppesare prima. Gabriel assunse un’aria perplessa e immerse il suo sguardo, ora divertito, in quello della sua compagna di ascensore. Capiva di aver toccato un tasto delicato senza volerlo.

“È carino da parte sua, ma no, grazie. Quando voglio il telefono di una ragazza glielo chiedo direttamente. Non sono un adolescente, le donne non mi spaventano. Lei, Emma, ha un fidanzato?”

Gabriel la guardò più intensamente. Quando il suo sguardo si posò sulla sua bocca, leggermente carnosa, sorrise per la buffa espressione imbronciata che aveva assunto. Capì che era dovuta all’irritazione di averlo sentito chiedere di Charlotte. Aveva solo chiesto educatamente notizie per riempire una conversazione tra due estranei costretti a condividere uno spazio così ristretto. Anche se le due donne dovevano essere molto amiche, aveva intuito che c’era una piccola rivalità tra loro. Charlotte era riuscita a ravvivare la sua attenzione il giorno prima, ma trovava Emma molto più attraente e interessante. Aveva un aspetto misterioso e serio che meglio corrispondeva alla sua natura. Sprigionava qualcosa di più profondo, meno superficiale, che lo spingeva a voler sapere di più sul suo conto. Sembrava anche avere una personalità più simile alla sua di quella di Charlotte.

“No, non ho un ragazzo.”

“E quanti anni ha?”

Emma rise brevemente. Gabriel non poté fare a meno di paragonare la sua risata a una dolce melodia.

“Non sa che non bisogna fare questa domanda a una signora?” rispose fingendosi severa.

“Sono davvero imperdonabile. Sono anche molto curioso”, disse, alzando entrambe le mani e scherzando.

“E lei quanti anni ha?”

“Trentanove, per la precisione.”

In quel momento suonò il telefono di Gabriel. Rispose al secondo squillo. Si mise a parlare in inglese ed Emma si alzò in piedi per non dare l’impressione di ascoltare la conversazione. Era praticamente inevitabile in uno spazio così limitato. Gabriel riattaccò dopo un paio di minuti. Da uomo, posò gli occhi sui glutei tondeggianti della donna e sulla sua vita sottile e ben definita. Immaginò molto bene le sue mani prenderla per i fianchi, ma scacciò rapidamente l’immagine dalla testa. Era stanco e non era affatto da lui abbandonarsi a tali pensieri in una situazione del genere. Ciò non gli impedì di ammirare il seno della giovane donna, evidenziato dalla canottiera a V che indossava.

“Poco fa, ha per caso detto di essere un medico?”

“Sì, sono un cardiologo”, rispose lui distogliendo lo sguardo.

Quel contesto lo imbarazzava. Emma non gli era indifferente e temeva che lei potesse capire l’effetto che stava provocando in lui. Si alzò e tornò al telefono di emergenza per avere il punto della situazione. Passandole accanto, la sua mano sfiorò quella di Emma e sentì un turbamento. Emma guardò l’uomo e immaginò per un attimo di passare le dita tra i suoi folti capelli. Il desiderio di essere Charlotte, per una notte, si insinuò in lei. Un’innocua avventura durante un viaggio di lavoro. Perché frapponeva così tante barriere? Non lo sapeva. Gabriel aveva riattaccato bruscamente e sembrava irritato. Alzò gli occhi verso di lei e le diede spiegazioni, cercando visibilmente di essere rassicurante.

“Non riescono ancora a far ripartire l’ascensore. Dicono che c’è un guasto meccanico fuori dal loro controllo. Faranno il dovuto, ma ci ritroveremo al buio. Toglieranno la corrente il tempo di mandare qualcuno a fare le verifiche necessarie.”

“Che fortuna!” mormorò Emma risedendosi e prendendo il telefono per scrivere a Charlotte della situazione.

Gabriel si sedette accanto a lei, continuando a fissarla, anche se la luce se ne era ormai andata ed era buio. Il suo cellulare in tasca vibrò e lo tirò fuori per metterlo accanto a sé. La sua mano sfiorò di nuovo quella di Emma, che aveva fatto la stessa cosa con il suo telefono. Respiravano all’unisono. Gabriel prese l’iniziativa, arrischiando un gesto di approccio. Posò la mano su quella di Emma e lei la chiuse invece di toglierla. Sentì il suo viso avvicinarsi al suo. Gabriel si fermò a pochi centimetri, come se stesse aspettando il permesso, poi baciò la giovane donna, che non fece alcuna resistenza. Rispose al suo bacio con ardore. Con passione. Il momento fu magico. Emma aveva dimenticato completamente Ian e Charlotte. Aveva dimenticato dov’era. Si stava solo godendo quell’istante. Carpe diem. Il dono che la vita le offriva. Il bacio che Gabriel le stava dando non poteva essere paragonato a nulla che avesse mai provato prima. Le trasmetteva un desiderio che non aveva mai sentito. Assaporò il suo profumo mentre le baciava il collo, provocandole una pioggia di formicolii al basso ventre. Tutto il suo essere sprizzava eccitazione e aveva la netta sensazione che il tempo si fosse fermato. L’unico rumore che udiva era il battito sincronizzato del loro cuore.

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