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Delitti Esoterici
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Язык: Итальянский
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Stefano Vignaroli

DELITTI ESOTERICI

Stefano Vignaroli

La prima indagine del Commissario Caterina Ruggeri

Copyright © 2011 - 2018 Stefano Vignaroli

Tutti i diritti riservati

PROLOGO

Estate 1989

Confine tra Nepal e Repubblica Popolare Cinese

Quando gli Sherpa giunsero in prossimità dell'ennesimo ponte sospeso, in uno stentato inglese, spiegarono alle due donne, che li avevano assoldati a Kathmandu, che non sarebbero mai andati oltre quel punto. A loro non era consentito sfidare le proprie divinità, avevano troppa paura. Nessuno di loro si era mai avventurato oltre quel ponte e chi, in passato, aveva osato farlo, non era mai più ritornato. Se le donne avessero voluto proseguire, lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo. Avrebbero lasciato loro lo stretto indispensabile da portare in spalla negli zaini, alcuni viveri, delle tavolette di cioccolato, un fornelletto da campeggio e la leggera tenda biposto a igloo. Loro sarebbero rimasti tre giorni, non di più, ad aspettarle.

La giornata era tersa, l'aria rarefatta dei quasi quattromila metri di quota donava al cielo un colore azzurro intenso, e le vette delle montagne più alte della Terra sfidavano, con le loro guglie innevate, lo stesso cielo limpido. Aurora e Larìs avevano sfilato le calde giacche a vento in goretex, che le avevano fino allora protette dalle improvvise bufere di neve, spesso affrontate durante i cinque giorni precedenti. Il loro scopo non era certo quello di provare l'ebbrezza di una vacanza estrema, bensì quello di raggiungere il Tempio della Conoscenza e della Rigenerazione, per incontrare il Grande Patriarca. Avrebbero potuto attingere al sapere universale conservato al tempio e divenire così adepte del livello più alto della setta. Sapevano già che, da quel punto in avanti, avrebbero dovuto proseguire da sole, affidandosi al loro intuito e ai loro poteri. Se avessero fallito, se avessero sbagliato strada, sarebbe stato impossibile per loro salvarsi. Avrebbero solo trovato la morte tra quelle montagne. Aurora pagò il pattuito al capo Sherpa dicendogli che, se voleva, se ne poteva andare anche subito. Ma l'uomo dai lineamenti asiatici, che reggeva le redini di un lama, scosse la testa e ripeté: «Three days.»

Scaldò un tè forte per le due donne e le congedò, salutandole con un cenno della mano. L'anziana e la sua giovane amica issarono gli zaini in spalla e si avventurarono sul ponte, sospeso sopra un abisso di almeno ottocento metri di altezza.

CAPITOLO I

Caterina Ruggeri

La voce del comandante dell'aereo che avvertiva i passeggeri dell'ormai imminente atterraggio mi riportò alla realtà. Solo un'ora di volo da Ancona a Genova, ma la mia mente era stata impegnata in un turbinio di pensieri. I fatti degli ultimi giorni avevano portato la mia vita a una svolta. Pensavo al mio passato e pensavo al mio futuro. Ora avevo un incarico importante, ero stata nominata commissario a Imperia e non avrei mai creduto che questa nomina arrivasse così presto. Come responsabile delle Unità cinofile della Polizia di Stato presso l'aeroporto Raffaello Sanzio di Ancona avevo trascorso anni entusiasmanti. Avevo avuto la possibilità di realizzarmi in ciò che mi era sempre piaciuto fin dalla tenera età, lavorare con i cani della polizia e addestrarli, dai cani antidroga a quelli per il soccorso nelle macerie, dai cani antisommossa a quelli cosiddetti molecolari, adatti alla ricerca di tracce e persone scomparse. D'altro canto, oltre a essere impegnata in un lavoro che mi piaceva moltissimo, avevo avuto anche il tempo di dedicarmi allo studio e laurearmi in Giurisprudenza, specializzarmi in Criminologia e sperare nell'agognato avanzamento di carriera.

Di sicuro la passione per i cani non l'avrei mai abbandonata, quella passione che mi era stata trasmessa da un mio cugino veterinario, Stefano, ora cinquantenne, direttore sanitario della Clinica Veterinaria Aesis. Stefano era stato sempre il mio segreto amore, fin da ragazzina. Mio cugino di secondo grado, dodici anni più grande di me, mi aveva sempre attratto in maniera particolare. Il ricordo di un Ferragosto di venticinque anni prima era sempre vivo nella mia memoria. Allora ero poco più che una bambina, avevo frequentato la seconda media e dovevo ancora compiere tredici anni, mentre lui si era da poco laureato in Veterinaria a Perugia.

Ero in vacanza con la mia famiglia, il papà, la mamma e i miei due fratellini gemelli, Alfonso e Stella, in un'amena località dei Monti Sibillini, a 1.400 metri di quota. Mio padre, patito di vacanze alternative, non ci avrebbe mai portato in vacanza in albergo, e quindi usufruivamo del nuovissimo carrello tenda, da lui appena acquistato.

La mia famiglia e quella di Stefano erano molto unite. Il mio cugino ci aveva raggiunti di buon mattino, insieme alle sue due sorelle e sua madre, per trascorrere insieme a noi il Ferragosto. La giornata si presentava già splendida, serena, limpida, senza nuvole in cielo. L'aria frizzante della montagna ispirava una bella camminata e così decidemmo di raggiungere un rifugio distante un'ora e mezzo di cammino dal luogo in cui eravamo accampati. Da lì, un'altra mezz'ora di salita impegnativa permetteva di raggiungere una cima denominata Pizzo Tre Vescovi. Per tutto il percorso avevo ignorato la mia cuginetta coetanea, cercando di rimanere il più vicino possibile a Stefano e conversare con lui. Mi aveva parlato dell'Università, dei suoi progetti attuali e futuri, del come e del perché di recente avesse lasciato la sua fidanzata, con cui aveva condiviso oltre cinque anni di vita. Io e Stefano eravamo i più appassionati di montagna e i più temprati alla fatica fisica, così, giunti al rifugio, mentre gli altri avevano deciso di riposarsi e dedicarsi alla raccolta di mirtilli e lamponi, noi due avevamo prolungato l'escursione fino in vetta. Mio padre ci aveva accordato di ritrovarci al campo per pranzo entro l'una. Con un gesto un po' infantile ma mirato, avevo preso Stefano per mano e mi ero avviata con lui su per il sentiero scosceso e faticoso. Lo spettacolo in vetta aveva ripagato la fatica per arrivarvi. In una giornata così limpida si poteva scorrere lo sguardo dai monti dell'Umbria verso Ovest, al Mar Adriatico verso Est, dai monti del Pesarese verso Nord, alla sagoma massiccia del Monte Vettore verso Sud, che chiudeva l'orizzonte e impediva di gettare lo sguardo verso i monti della Laga e l'Abruzzo.

Osservavo il panorama, ma soprattutto guardavo i meravigliosi occhi verdi di Stefano, che mi indicava i nomi delle varie montagne che riusciva a riconoscere. Più lo osservavo e lo ascoltavo, più mi sentivo attratta da lui, che aveva un viso simpatico, ornato da una leggera barba, i capelli folti e scuri e due occhi che a me piacevano in una maniera incredibile. Essendo poco più che una bambina, non sapevo di preciso cosa significasse innamorarsi, ma in quei momenti capivo che stavo provando delle sensazioni nuove e che forse, per la prima volta, ero caduta vittima di questo strano sentimento.

Eravamo ridiscesi sempre conversando e scherzando, e avevamo raggiunto il resto della compagnia, giusto in tempo per il pranzo preparato da mia madre, un'ottima amatriciana, accompagnata da salsicce alla brace e, per finire, i lamponi raccolti da fratelli e cugine durante l'escursione. Al termine del pasto avevo proposto a Stefano di sdraiarci al sole. Avevo recuperato un plaid e ci eravamo allontanati un po', fuori dalla vista degli altri. Mi ero sfilata maglietta e jeans ed ero rimasta con un bikini rosa, appena sufficiente a coprire i miei seni ancora immaturi. Anche lui si era liberato della maglietta. Ci eravamo sdraiati l'uno accanto all'altra, godendo del sole pomeridiano che riscaldava la pelle. A un certo punto, mi ero girata verso di lui e avevo premuto i miei piccoli seni contro il suo torace.

«Insegnami come si bacia un ragazzo!»

Lui mi aveva guardato con aria interrogativa, ma io, affatto intimorita, avevo avvicinato il mio viso al suo, socchiudendo gli occhi. Avevo percepito le sue labbra unirsi alle mie e, per un attimo, ero andata in estasi. Non so quanto fosse durato, credo pochi attimi. Quando Stefano si era reso conto di ciò che faceva si era arrestato e, sia pur in maniera delicata e forse a malincuore, mi aveva allontanato da sé.

«Caterina, non è cosa possibile tra noi due, non dovevo lasciarmi andare. Sei una ragazzina molto carina e diventerai una bellissima donna. Hai due occhi azzurri splendidi, che spiccano ancor di più sotto la tua cascata di capelli mori. Non avrai alcuna difficoltà a trovare un bel ragazzo, adatto a te. Io ti conosco da quando eri in fasce e ti assicuro che ti voglio tanto bene, ma come a una sorella! E poi dodici anni di differenza sono un abisso. Tu sei poco più che una bambina e io sono già un uomo quasi pronto a sposarsi. Comunque, a Settembre partirò per la scuola di specializzazione in Malattie dei Piccoli Animali e rimarrò a Pisa per due anni. Ti assicuro che ti scriverò e ti farò avere il mio indirizzo. La mia amicizia e il mio affetto per te ci saranno sempre, ma consideriamo l'episodio di oggi come un gioco e non parliamone più.»

Arrossendo, avevo fatto sì con la testa, ma quel bacio sarebbe rimasto nella mia mente e nel mio cuore come il più bello che avessi mai ricevuto.

A quel tempo i cellulari non esistevano, e quindi i contatti si potevano tenere solo scrivendosi lettere e cartoline o tramite i telefoni fissi. Perciò, per qualche tempo, i rapporti con Stefano erano stati sporadici e solo due anni dopo ero riuscita a trascorrere di nuovo qualche giorno con lui.

Avevo terminato il primo anno di Scuola Superiore ed ero stata promossa con ottimi voti, ma l'estate si preannunciava noiosa e senza grandi prospettive di vacanze in quanto, in famiglia, i litigi tra mio padre e mia madre erano sempre più accesi e i due non riuscivano più a trovare un accordo su alcunché. Inoltre mio padre stava andando incontro a crisi depressive sempre più frequenti.

Era una calda giornata di Luglio quando mia madre mi aveva chiamato, dicendomi che mio cugino Stefano chiedeva di me al telefono. Mi ero precipitata all'apparecchio con il cuore in gola.

«Ciao Caterina, ho superato l'esame del secondo anno di specializzazione e ho qualche giorno di vacanza prima di iniziare i due mesi di tirocinio nella Clinica universitaria. Poi, a Ottobre, dovrò presentare la mia tesi, quindi per me si preannuncia un'estate molto impegnativa! Perché non mi raggiungi qui a Pisa e ci concediamo un giro in turistico Toscana? Una bella vacanza farà bene a entrambi, per te come distrazione dalla tua situazione familiare, per me come breve pausa dalle fatiche dello studio!»

Chiesto il permesso ai miei, che non avevano creato alcun problema, avevo preso il treno e raggiunto Pisa. Stefano mi aspettava nell'atrio della stazione. Gli avevo affibbiato il mio borsone e mi ero ritrovata a bordo della sua auto, una Citroen 2CV, con la quale avremmo girato la Toscana nei giorni successivi, pernottando in ostelli od ospitati presso suoi amici dell'università. Avevamo visitato bellissime città, Pisa stessa, San Gimignano, Siena, Arezzo. Ci eravamo spinti anche sull'Appennino Tosco-Emiliano per una breve escursione fino alle sorgenti dell'Arno, sempre animati dalla nostra ormai assodata passione per la montagna. Infine avevamo raggiunto Firenze, dove ci aveva ospitato suo fratello, iscritto alla facoltà di Architettura, ma che tutto faceva tranne che studiare. L'ultima sera, dopo cena, faceva caldo e io ero stanca. Passeggiando sul Lungarno, avevamo raggiunto Ponte Vecchio. Era una splendida serata, la luna quasi piena in cielo si rispecchiava nel fiume e lo spettacolo era proprio romantico. Approfittando della stanchezza, mi ero appoggiata a Stefano, passandogli un braccio intorno al collo. Lui, in risposta, aveva afferrato delicatamente la mia mano, che penzolava dalla sua spalla, carezzandola un po'. Poi aveva stretto i miei fianchi con l'altro braccio. Eravamo rimasti così, in silenzio, vicini e abbracciati, guardando il paesaggio fiorentino. Mi aspettavo un bacio, e invece non accadde nulla. Avrei voluto che quel momento non finisse mai, sarei voluta rimanere lì così per sempre, e invece, il mattino seguente, mi ero ritrovata alla stazione di Firenze, pronta a far ritorno a casa. La breve vacanza era terminata, ma io pensavo ancora all'abbraccio della sera precedente, sentivo ancora la mano che sfiorava la mia. Ero innamorata? Forse.

Giunta a casa, avevo trovato mio padre e mia madre impegnati nell'ennesimo litigio, e questo fatto aveva spento tutta la poesia creatasi nei giorni precedenti. Com'è possibile, avevo pensato, che due persone che si sono amate, che hanno condiviso la loro vita per oltre vent’anni, arrivino a trattarsi così? In quel momento avevo realizzato che il matrimonio non faceva proprio per me.

Avevo quasi 19 anni quando, in una tiepida giornata di inizio autunno, mio padre si era ucciso, sparandosi un colpo alla tempia. Come fosse venuto in possesso di una pistola, non lo seppi mai. Fatto sta che la sua vita era stata segnata da una tragedia, avvenuta circa dodici anni prima, in cui era rimasto ucciso il mio fratellino di circa tre anni.

A mio padre la domenica piaceva cucinare, preparando la brace nel caminetto, dove cuoceva di tutto, spiedini, salsicce, verdure gratinate, polli allo spiedo e altre prelibatezze. Il giorno dell'incidente, come suo solito, aveva acceso il fuoco e preparato tutto l'occorrente sul tavolo. Alfonso, per gioco, aveva preso una graticola e si era messo a correre per la stanza. Cercando di scongiurare un pericolo, mio padre lo aveva rincorso, lui era inciampato e caduto a terra. La graticola era volata in aria e gli era ricaduta sulla nuca. Una punta metallica aveva trovato giusto lo spazio tra due vertebre cervicali, infilandosi nel midollo spinale e provocando la morte immediata del piccolo. Il papà non si era mai dato pace per questo episodio. Insieme a mia madre, avevano deciso di avere un altro figlio per compensare la perdita e così, dopo qualche tempo, nacquero i due gemelli. Il fatto di chiamare uno dei due bimbi di nuovo Alfonso non era stata affatto una brillante idea, perché ogni volta che i miei pronunciavano il suo nome ritornava loro in mente la tragedia. Col passare del tempo, miei genitori litigavano sempre più spesso. Mia madre ogni volta faceva ricadere la responsabilità della morte del bambino sul marito, che era andato incontro alla depressione, per combattere la quale aveva iniziato a frequentare delle sedute di psicoterapia. Il suo terapeuta, a un certo punto, lo aveva imbottito di psicofarmaci che, anziché farlo star meglio, lo avevano portato al tracollo psichico e, alla fine, al suicidio.

Avevo sentito un forte rumore provenire dallo studio e mi ero precipitata nella stanza di mio padre con un brutto presentimento. Lo avevo trovato accasciato alla scrivania, con accanto un laconico biglietto, dove aveva scritto solo una parola: “Perdonatemi”.

Non ero riuscita a versare una lacrima. Mia madre non sembrava neanche troppo dispiaciuta della perdita, anzi forse per lei era stata una liberazione. Sentivo il bisogno di parlare con qualcuno che non fosse mia madre, con qualcuno che mi comprendesse, e l'unico che poteva farlo era Stefano. Lo avevo raggiunto nel suo Studio Veterinario, alla periferia di Jesi e solo tra le sue braccia ero riuscita a dare sfogo a tutte le mie lacrime.

«Ho sofferto troppo in questi ultimi anni, ho visto troppo male intorno a me e vorrei rimediare impegnandomi in un lavoro che sia utile a qualcuno e, nello stesso tempo, che sia di mia soddisfazione personale. Dammi tu un consiglio, ti prego!»

Lui mi aveva sorriso, cercando di asciugare le mie lacrime.

«Ti sei diplomata da poco con il massimo dei voti, hai una buona conoscenza di psicologia e sociologia, in più adori gli animali, i cani in particolare. Se può interessarti, un mio cliente, un sovrintendente della Polizia di Stato, mi ha esposto giusto qualche giorno fa un progetto per la realizzazione di un’unità cinofila dipendente dalla Questura di Ancona. In attesa che arrivino i fondi e le attrezzature, gli è stato assegnato un Pastore Tedesco, da utilizzare come cane antidroga al porto. Perché non provi la carriera in Polizia? Ti ci vedo bene! Poi, una volta entrata, avrai la possibilità di far valere le tue qualità di esperta cinofila. Io sono qui e ti aiuterò sempre quando ne avrai bisogno!»

Al momento, avevo giudicato l'idea un po' bizzarra, ma poi, considerando anche che non mi ritenevo donna dal matrimonio, data la pessima esperienza di quello dei miei genitori, pochi giorni dopo mi ero presentata in Questura ad Ancona e avevo compilato la domanda di ammissione al corso per allievi agenti.

Terminato il corso, la carriera non sarebbe stata facile come credevo. Era trascorso diverso tempo prima di essere chiamata in forza e, nel frattempo, mi ero iscritta alla facoltà di Giurisprudenza a Macerata, dedicandomi soprattutto alla criminologia.

Non ero riuscita ad affrontare neanche un esame, in quanto alfine era giunta la lettera di assunzione con la qualifica di agente scelto, di stanza presso la Questura di Ancona. All'inizio sembrava che a nessuno interessasse delle mie qualità di criminologa e delle mie doti nel saper lavorare con i cani. Passavo lunghe giornate a bordo delle volanti per le strade della città, fermando auto ai posti di blocco o arrestando ubriachi, drogati e prostitute. Di certo non era il lavoro che mi ero aspettata e inoltre, finito il turno, ero talmente esausta che era impensabile mettersi sui libri per riprendere lo studio.

Ma non abbassavo la guardia e cercavo sempre l'occasione per dimostrare ai miei superiori le mie vere capacità. Dopo un paio di anni di servizio, l'avanzamento al grado di sovrintendente era automatico e così si era aperta per me la possibilità di seguire i colleghi ispettori in qualche indagine.

L'idea di un gruppo cinofilo dipendente dalla Questura di Ancona era stata invece monopolizzata da un collega, il sovrintendente Carli, distaccato al porto, dove quest'ultimo non faceva altro che far fiutare qualche turista di passaggio dal suo Pastore Tedesco, così da sfilare di tanto in tanto, al malcapitato di turno, pochi grammi di droga dalle mutande. Ma la droga vera, quella che sapevamo benissimo transitare a chili attraverso il porto di Ancona, non l'aveva mai intercettata.

Finalmente, un giorno si presentò la mia grande occasione. Insieme all'ispettore Ennio Santinelli, un tipo in gamba, ma a cui mancava quella marcia in più che serve a distinguersi dagli altri, stavo indagando su un traffico di cani rubati, che secondo noi venivano esportati all'estero, dopo essere stati ripuliti dell'eventuale tatuaggio. Secondo il collega erano per lo più cani da caccia che poi avevano mercato in Grecia, Albania e Turchia. Secondo me c'era dell'altro, anche perché spesso si trattava di cani meticci e di tutte le età, anche anziani. Avevo interpellato Stefano e anche a lui, come veterinario, la cosa non quadrava troppo.

«Se si vuol speculare con traffici internazionali di cani, o sono cani da caccia di alta genealogia e giovani, o sono cani addestrati al combattimento. Qui c'è qualcosa che non torna» mi aveva detto al telefono.

Una mattina di marzo era giunto in centrale un fax dalla Greca. Un'associazione animalista segnalava che a Patrasso, a bordo un traghetto destinato ad Ancona, era stato imbarcato un TIR, che ufficialmente trasportava cavalli. Ma, in mezzo agli equini, c'erano almeno un centinaio di cani trasportati in condizioni disumane. Il sovrintendente Carli quel giorno non era in servizio e l'ispettore Santinelli, un po’ per il freddo pungente della mattinata, un po’ perché non voleva invadere il campo del collega, era un po' restio ad avviarsi verso il porto.

«Non credo che questa cosa c’interessi più di tanto» aveva detto Santinelli. «Vai tu, Caterina, a dare un'occhiata e, se lo ritieni necessario, fai intervenire il Servizio veterinario pubblico.»

Giunta alla banchina dove era attraccato il traghetto proveniente dalla Grecia, avevo subito notato un bel trambusto d’animalisti, che reclamavano il sequestro immediato degli animali. D'altra parte, il capitano del traghetto sosteneva che a bordo, come da convenzioni internazionali, le autorità italiane non potevano intervenire e lui aveva ricevuto un messaggio dall'armatore greco di non far sbarcare il TIR, che avrebbe fatto ritorno a Patrasso. Tutto ciò mi convinceva sempre di più che mi trovavo in presenza di un losco traffico. Avevo chiesto i documenti del TIR, il piano di viaggio e i documenti accompagnatori degli animali. Camion, motrice e rimorchio, provenivano dalla Turchia e avevano come destinazione finale Hannover. Dai documenti di trasporto, risultava che il mezzo doveva trasportare solo cavalli destinati alla macellazione. Cercando di esprimermi in lingua inglese con l'autista greco, ero riuscita a carpirgli l'informazione che, in mezzo ai cavalli, venivano trasportati anche alcuni cani. Mi aveva mostrato alcuni certificati sanitari, attestanti la vaccinazione antirabbica e altri trattamenti, ma che, scritti in greco, erano ben poco comprensibili. L'autista asseriva di avere una quarantina di cani a bordo, mentre gli animalisti sostenevano ce ne fossero almeno un centinaio. Avrei voluto far sbarcare il camion per controllarlo con calma, ma il capitano della nave continuava a opporsi. Avevo bisogno di uno stratagemma. Avevo afferrato il cellulare e, anche se a quei tempi le tariffe di telefonia mobile fossero ancora molto salate, avevo chiamato Stefano, che mi aveva fornito la dritta.

«Se gli animali sono in viaggio da più di 24 ore, per il loro benessere e per le vigenti leggi internazionali, devono essere abbeverati, alimentati e fatti riposare, quindi imponiti sul capitano e fai sbarcare il TIR. Vedrai che non potrà rifiutarsi. Se non si attenesse alle regole, infatti, rischierebbe di perdere il suo ben retribuito lavoro.»

Il capitano aveva minacciato che, in seguito, avrebbe protestato ufficialmente, ma al momento aveva fatto sbarcare il camion. Al suo interno, in effetti, c'erano pochi cavalli e tantissimi cani. Avevo chiamato subito l'ispettore Santinelli e il magistrato di turno, perché avevo intenzione di porre sotto sequestro l'intero carico. Avevo ottenuto ciò, superando la riluttanza del collega e del magistrato, che erano davvero inquieti, in quanto si sarebbe dovuto trovare un posto adeguato per ricoverare tutti gli animali.

Quando ero riuscita a controllare i cani, centodue all'appello finale, mi aveva colpito il fatto che erano tutti cani di media taglia, tutti meticci e tutti con groppe dalla muscolatura prominente.

Perché no? pensai tra me e me. Potrebbero aver trovato un modo per contrabbandare qualcosa infilandola nel sottocute di questi poveri animali! Ma come faccio a spiegarlo ai miei superiori?

E qui era intervenuto Stefano, ancora una volta, con il suo prezioso aiuto. Avevo provveduto a far sistemare i cavalli nella stalla di un suo amico e i cani in un moderno canile, costruito da poco, che lui seguiva dal punto di vista sanitario. Il canile era dotato di un'attrezzatissima infermeria, dove Stefano eseguiva interventi di pronto soccorso su cani feriti. La dotazione prevedeva anche un ecografo, usato per diagnosticare le gravidanze delle fattrici ospitate.

Bisognava agire in fretta, perché già si stavano muovendo avvocati di fama internazionale per ottenere il dissequestro degli animali, e ciò faceva aumentare ancor di più i sospetti e le ipotesi di traffici illeciti. Anche il collega Carli stava facendo fuoco e fiamme, perché avevamo invaso il terreno di sua competenza. Invocava conoscenze importanti nelle alte sfere, addirittura al Ministero degli Interni, ed esigeva che il caso fosse ricondotto a lui.

«Proviamo a fare qualche ecografia alle groppe di questi cani» mi aveva detto Stefano, carezzando con affetto una di quelle simpatiche bestiole.

Non appena tosato il pelo del cane, ci eravamo accorti che l'animale presentava una cicatrice lineare su ognuno dei due lati, a fianco della colonna vertebrale lombare.

«Sono cicatrici perfette. Non sembrano tagli chirurgici, perché non si evidenziano i segni trasversali dei punti di sutura. Ma un chirurgo che sa lavorare bene, eseguendo una particolare sutura sottocutanea, può ottenere cicatrici estetiche come queste. Io stesso non saprei far di meglio.»

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