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Dopo il divorzio
Dopo il divorzio

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Dopo il divorzio

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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– È tardi, – ripeteva Giovanna. – Dio mio, è tardi…

Ma la calma della madre finì col calmare anche lei. Zia Bachisia scese in cucina e Giovanna la seguì; zia Bachisia preparò il caffè-latte e il pane per Costantino (essendo permesso alle due donne di recar da mangiare all'accusato), mise tutto in un canestro e s'avviò verso le carceri: e Giovanna la seguì.

Le vie erano deserte; il sole, appena sorto sulle cime granitiche dell'Orthobene, inondava l'aria di pulviscoli d'oro roseo; il cielo era così azzurro, e gli uccelli così lieti, e l'aria così calma e odorosa che pareva un mattino di festa, non ancora animato dalla gente e dal suono delle campane. Giovanna, attraversando la strada che dalla stazione (presso cui abitavano i Porru) conduce alle carceri, guardava i suoi violacei monti lontani, adagiati come un enorme diadema d'ametista sull'orlo delle grandi valli selvaggie, respirava l'aria piena di profumi selvatici, pensava alla sua piccola casa di schisto, al suo bambino, alla felicità perduta; e si sentiva morire.

La madre trottava avanti, col canestro sul capo. Arrivarono davanti alla mole rotonda, bianca e desolata delle carceri: nel silenzio e nella luminosità mattutina la sentinella immobile e muta pareva una statua: un cespuglio verde sorgeva accanto al muro del carcere, accrescendo la tristezza del luogo. Il portone verdognolo che di tanto in tanto si socchiudeva come la bocca d'una sfinge, s'aprì per inghiottire le due donne. Tutti là dentro, nell'antro orrendo, conoscevano le due sventurate; dal capo-guardiano, rosso e imponente, che sembrava un generale, all'ultima guardia pallida dai baffi biondi ritti, che aveva pretese d'eleganza.

Nell'andito buio e fetente si sentiva già tutto l'orrore dell'interno: le due donne non procedettero oltre; ma il guardiano pallido ed elegante venne a prendere il canestro, e Giovanna gli chiese sottovoce se Costantino aveva dormito.

– Sì, egli ha dormito, ma sognava, sognava. Diceva: Il peccato mortale.

– Ah, quel suo peccato mortale, che egli vada al diavolo!.. – disse zia Bachisia. – Dovrebbe finirla!

– Mamma mia, perchè lo imprecate? Non è egli abbastanza maledetto dalla sorte? – mormorò Giovanna.

Ritornate fuori, le due donne attesero l'uscita dell'accusato. Quando Giovanna vide i carabinieri che dovevano condurlo alla Corte, cominciò a tremare convulsivamente, sebbene anche i giorni avanti l'avesse visto uscire fra di loro. I suoi occhi neri s'allargarono, fissando il portone con uno sguardo pazzo. Minuti d'attesa spasmodica trascorsero: la bocca della sfinge si socchiuse ancora e fra i gendarmi dal viso grigio di granito e i lunghi baffi neri, apparve la figura di Costantino. Era alto ed agile come un giovane pioppo: due bende di capelli neri, lucidi e lunghi, incorniciavano il suo viso sbarbato d'una bellezza femminea, sbiancato dalla prigionia; aveva due grandi occhi castanei e una piccola bocca di fanciullo innocente. E la fossetta sul mento: sembrava un giovine Apollo.

Appena vide Giovanna, sebbene anch'egli aspettasse quel momento, si fece ancora più bianco e si fermò resistendo ai soldati. Giovanna gli si precipitò davanti e singhiozzando gli strinse la mano incatenata.

– Avanti, – disse un carabiniere, con voce dolce, – tu sai che non è permesso, buona donna.

Ma anche zia Bachisia s'era avvicinata, saettando il gruppo con lo sguardo dei suoi piccoli occhi verdi. I carabinieri si fermarono un istante, Costantino disse con voce ferma, quasi lieta:

– Coraggio! coraggio! – ed ebbe la forza di sorridere a Giovanna.

– L'avvocato ti aspetta là, – disse zia Bachisia mentre i carabinieri respingevano dolcemente le due donne.

– Buone donne, andate via, andate, – dissero, trascinando via l'accusato. Egli sorrise ancora a Giovanna, mostrando i denti bianchissimi fra le labbra fresche ma pallide, e s'allontanò fra le due figure che sembravano di granito.

Zia Bachisia a sua volta trascinò via Giovanna, che voleva seguire il marito; e la ricondusse in casa Porru per far colazione prima di recarsi alla Corte. Il sole inondava il cortile; sui pampini lucenti del pergolato, da cui pendevano lunghi grappoli d'uva acerba che parevano scolpiti in marmo verde, le rondini cantavano guardando il sole, e zio Efes Maria, montato sul suo cavallo baio, disponevasi a partire per la campagna. Che luce e che festa in quel cortile, cinto soltanto da un piccolo muro di pietre, e dal quale godevasi un vasto orizzonte! I bambini mangiavano la loro zuppa di caffè-latte seduti sul limitare della porta di cucina; Grazia era andata a mangiar la sua in un cantuccio, forse per non essere veduta dallo zio studente in quella prosaica operazione, mentre egli, in maniche di camicia, in piedi in mezzo al cortile, divorava il suo grande scodellone di zuppa. E zia Porredda gli lustrava le scarpe, tutta meravigliata per i racconti che andava narrandole il figliuolo.

– Come è grande San Pietro? (Bisogna spiegare che Paolo era stato solo quell'anno a Roma). Ebbene, è grande quanto una tanca. Non si può neppure pregare. Come si può pregare in una tanca? Gli angeli sono grandi come quella porta, gli angeli più piccini, sapete, quelli che sostengono la pila dell'acqua santa.

– Ah, allora bisogna metter la scala, per prender l'acqua.

– No, perchè essi sono inginocchiati, mi pare. Datemi un altro po' di caffè-latte, mamma. Ce n'è?

– Sicuro che ce n'è. Sei tornato ben affamato, piccolo Paolo mio: sembri un pesce-cane.

– Sapete quanto costa una zuppa così a Roma? Una lira, non meno. E il latte è acqua.

– Che sieno benedetti! È spaventevole ciò!

– Ah, sapete! Ho visto i delfini, in mare. Oh, come erano curiosi! Ah, ecco le ospiti. Buon giorno. Cosa avete fatto?

Giovanna raccontò l'incontro col marito, e voleva ricominciare a piangere, ma zia Porredda la prese per mano e la condusse in cucina.

– Oggi tu hai bisogno di forze, anima mia; mangia, mangia, – le disse, presentandole una gran tazza di caffè-latte.

Poco dopo le due donne uscirono per andare alla Corte d'Assise, e Paolo promise loro di raggiungerle.

– Coraggio! – disse zia Porredda, congedandosi da Giovanna.

Ella sentì già la condanna di suo marito nella voce dell'ospite, e andò via a testa bassa, come un cane frustato. Paolo la seguì con gli occhi, poi andò verso sua madre, zoppicando come un pulcino ferito, e le disse una cosa strana:

– Sentite. Non passeranno due anni che quella giovine riprenderà marito.

– Cosa dici, dottor Pededdu? – gridò la donna, che quando s'arrabbiava chiamava suo figlio col soprannome. – In verità mia, tu sei matto.

– Oh, mamma, io ho attraversato il mare! – disse egli. – Speriamo almeno che mi scelga per suo avvocato!

– Quel giovinetto! – diceva Giovanna a sua madre, mentre scendevano un ripido viottolo, – mangia come un cane, che Dio lo salvi.

Zia Bachisia camminava pensierosa, e rispose a denti stretti:

– Sarà un buon avvocato; rosicchierà i clienti fino all'osso: anzi li divorerà vivi e buoni.

Detto ciò tacquero entrambe. Ad un tratto zia Bachisia inciampò in un sassolino, e mentre inciampava, non si sa perchè, pensò che se Giovanna dovesse un giorno far divorzio, ella avrebbe pregato Paolo ad esser avvocato di sua figlia.

Erano le otto quando giunsero davanti la cattedrale, al cui fianco le piccole finestre del Tribunale riflettevano nei vetri la luminosità del mattino.

Nella piccola piazza di granito le due donne ritrovarono molti compaesani, testimoni del processo, alcuni dei quali le circondarono ripetendo la solita parola:

– Coraggio! coraggio!

– Ah, coraggio! Ma noi ne abbiamo, ma lasciateci in pace! – disse zia Bachisia, passando fiera come una cavalla indomita. Ella sapeva ben la strada e andò diritta all'aula triste e fatale.

Giovanna la seguì, seguirono i compaesani, uomini quasi tutti barbuti ed in rozzi costumi, ed entrò anche qualche curioso sfaccendato, ed anche una donna lunga e sdentata con gli occhi loschi.

I giurati, quasi tutti vecchi e grassi, sedevano già ai loro banchi; uno aveva un enorme naso aquilino, due con barbe folte e occhi selvaggi sembravano banditi, tre, aggruppati, con le teste vicine, ridevano leggendo un giornale.

Apparve il presidente, dal viso roseo circondato d'una scarsa barba bianca; il pubblico ministero, giovine, con baffi biondi diritti in un viso sanguigno di prepotente; il cancelliere, l'usciere: nelle toghe nere a Giovanna essi parevano maghi, feroci maghi venuti lì per stregare fatalmente il povero Costantino.

Egli stava nella gabbia, come un grande uccello fremente, tra le figure granitiche dei carabinieri, e guardava verso Giovanna, ma senza più sorriderle. Sembrava oppresso da cupa tristezza, e davanti a quegli uomini arbitri del suo destino, i suoi occhi limpidi di bambino s'offuscavano di terrore.

Anche Giovanna si sentì prendere il cuore da una mano di ferro; a momenti quella stretta le dava punture di dolore fisico.

L'avvocato, un piccolo giovine giallo-roseo, aveva cominciato a parlare con vocina stridula e femminile. La sua difesa era stata già abbastanza disgraziata: ora egli ripeteva le cose già dette, e le sue parole cadevano nel vuoto, come stille d'acqua in un gran vaso senza eco.

Il pubblico ministero dai baffi dritti conservava la sua aria insolente; qualche giurato credeva di far molto mostrando un viso paziente; gli altri, a giudicarli bene, si capiva che neppure ascoltavano. Soltanto zia Bachisia e Giovanna e l'accusato ponevano mente alla replica della difesa, e più l'avvocato parlava più si sentivano perduti.

Qualche altra persona giungeva, ponendosi dietro Giovanna, che ogni tanto volgevasi vivacemente per vedere se Paolo veniva. Non sapeva perchè, ma lo aspettava ansiosamente, quasi la presenza dello studente potesse giovare all'accusato.

Quando l'avvocato tacque, Costantino balzò in piedi, si fece rosso e chiese di parlare.

– Ecco… ecco… – disse con voce incerta, additando il difensore, – il signor avvocato ha parlato… mi ha difeso… ed io lo ringrazio; ma non ha parlato come volevo io… non ha detto, ecco, non ha detto…

Si fermò anelante.

Il presidente disse:

– Aggiungete pure alla vostra difesa tutto ciò che credete.

L'accusato rimase pensieroso ad occhi bassi, rifacendosi pallido: poi si passò la mano un po' convulsa sulla fronte, quasi graffiandosi, e sollevò il capo.

– Ecco, – cominciò a voce bassa, – io, io… – Non potè proseguire; strinse il pugno, si volse inviperito verso l'avvocato e gridò con voce tonante:

– Ma lo dica dunque che sono innocente, che sono innocente io!

L'avvocato mosse una mano accennandogli di calmarsi; il presidente sollevò le sopracciglia come per dire: – ma se egli lo ha detto cento volte; è colpa nostra se non possiamo crederci? – e un singulto di donna fremette per la sala.

Era Giovanna che piangeva: zia Bachisia la trasse fuori riluttante e piangente, e tutti, tranne il pubblico ministero, diedero uno sguardo alla lotta delle due donne.

Poco dopo la Corte si ritirò per deliberare.

Zia Bachisia, seguita da due compaesani, trasse Giovanna sulla piccola piazza, ed invece di confortarla si mise a sgridarla. Che era pazza del tutto? Voleva che la cacciassero via con la forza?

– Se non stai zitta ti dò tanti pugni, in fede mia, – concluse.

– Mamma mia, mamma cara, – singhiozzava l'altra, – me lo condannano, me lo perdono, che essi siano maledetti, ed io non posso far nulla, io non posso far nulla…

– Cosa volete farci? – disse un compaesano. – Non potete far nulla come è vero che son vivo. Abbiate pazienza. E del resto aspettiamo ancora un po'…

In quel momento apparvero tre figure nere, una delle quali rideva e zoppicava. Era Paolo Porru fra due giovani preti suoi amici.

– Eccola là, – disse lo studente. – Pare glielo abbiano già condannato.

– In mia coscienza, osservò uno dei preti – pare davvero una puledra: e dà anche dei calci, pare…

L'altro cominciò a guardar Giovanna con curiosità; poi tutti e tre i giovani amici si avvicinarono alle Era, e Paolo chiese se il dibattimento era finito.

Uno dei preti chiese:

– È quello che ha ucciso lo zio?

L'altro continuava a guardar Giovanna che andava calmandosi.

– Egli non ha ammazzato nessuno! – disse fieramente zia Bachisia, – Assassini sarete voi, corvi neri.

– Se noi siamo corvi, voi siete una strega, – rispose il giovine prete.

E qualcuno dei presenti rise.

Intanto Giovanna, che alle esortazioni di Paolo s'era calmata, promise di non far scene se la lasciavano rientrare nella sala. Rientrarono tutti assieme; mentre i giurati riprendevano i loro posti, dopo breve deliberazione.

Un silenzio profondo gravò sulla sala calda e cupa: Giovanna udì una mosca ronzare intorno ad un ferro della finestra; poi le parve che tutte le sue membra s'appesantissero, che lungo il corpo, lungo le gambe, lungo le braccia le si infilzassero delle spranghe di ferro gelido.

Il presidente lesse la sentenza con voce bassa e indifferente, mentre l'accusato lo guardava fisso, col respiro sospeso. Giovanna udiva sempre il ronzar della mosca, e provava un impeto d'odio verso quell'uomo roseo dalla barba bianca, non per ciò che leggeva, ma perchè leggeva con voce bassa ed indifferente. E quella voce bassa e indifferente condannava a ventisette anni di reclusione l'omicida che aveva premeditato lungamente il delitto e lo aveva compiuto sulla persona d'uno zio carnale suo tutore.

Giovanna era tanto sicura d'una condanna a trenta anni che ventisette le parvero assai di meno; ma fu un istante: subito calcolò che tre anni, in trenta, contavano niente, e si morsicò le labbra per non urlare. La vista le si ottenebrò, con uno sforzo disperato di volontà guardò Costantino e vide, o le parve vedere, il viso di lui grigio e invecchiato, e gli occhi di lui velati e smarriti nel vuoto. Ah, egli non la guardava; non la guardava più neppure! Era già diviso da lei per l'eternità. Era morto, essendo ancor vivo. E l'avevano ucciso quegli uomini grossi e pacifici che stavano ancora lì indifferenti, in attesa d'un'altra vittima. Ella sentì smarrire la ragione: all'improvviso udì grida selvagge echeggiare per la sala, qualcuno l'afferrò e la trascinò fuori nella piazza gialla di sole.

– Ma possibile, figlia mia? Ma tu sei pazza? Tu urli come una bestia; – disse zia Bachisia, trascinandola pel braccio. – A che pro poi? C'è l'appello, ora, c'è la cassazione, anima mia, sta' quieta!

Tutto questo accadde in pochi istanti. Tutti i testimoni, l'avvocato, Paolo Porru, circondarono le due donne e cercarono consolarle. Giovanna piangeva senza lacrime, con singhiozzi aridi che le tagliavano il petto: parole sconnesse, di tenerezza per Costantino, di minaccia per i giurati, le uscivano dalle labbra tremanti.

Pregò la lasciassero almeno assistere all'uscita del condannato, e attese. Egli apparve, infine, fra i due carabinieri freddi e impassibili; livido, curvo, con gli occhi infossati, improvvisamente invecchiato.

Giovanna gli si precipitò innanzi, e siccome i carabinieri non si fermavano, procedette alcuni passi di sghembo, rivolta al condannato, sorridendogli, dicendogli che la cassazione avrebbe rimediato tutto e che ella venderebbe anche la camicia pur di salvarlo. Egli la guardava con occhi spalancati pieni di stupore, e siccome i carabinieri lo spingevano ed uno di essi diceva:

– Va' via, buona donna, va' via, abbi pazienza; – anch'egli disse:

– Va' via, Giovanna: cerca di ottenere il colloquio prima che mi portino via: e… porta il bimbo… e fa coraggio.

Ella ritornò con sua madre in casa degli ospiti. Zia Porredda abbracciò le due donne e si mise a piangere; poi parve arrabbiarsi della sua debolezza e cercò rimediarvi.

– Ebbene, ventisette anni che sono essi? E se lo condannavano a trenta non era peggio? Voi volete partire? Con questo sole? Voi siete matte, in verità mia, io non vi lascerò partire.

– No, – disse zia Bachisia, – partiamo, perchè partono anche gli altri compaesani che ci terran compagnia. Ma Giovanna, se non vi disturba, tornerà fra qualche giorno col bambino.

– Che voi siate benedette: la nostra casa è la vostra.

Si misero a tavola, ma Giovanna non mangiò, pur tenendosi calma: per due o tre volte zia Porredda tentò parlare di cose indifferenti, chiese se il bambino aveva messo i primi dentini, osservò che forse gli nuocerebbe farlo viaggiare con quel sole, poi chiese se al paese delle Era la raccolta dell'orzo era stata abbondante.

Una gran pace regnava nel cortile, pieno di sole qua e là ricamato dall'ombra del pergolato. Le rondini venivano e volavano, cantando. – Paolo leggeva il giornale e mangiava: Grazia e Minnìa (il fratellino era andato via col nonno) coi loro abitucci neri stretti, scarmigliate, a metà del pranzo socchiudevano già gli occhi, colte dalla sonnolenza del meriggio, e le parole di zia Porredda cadevano nel vuoto, in quel silenzio, in quella pace luminosa, dove la figura tragica di zia Bachisia e il muto dolore di Giovanna sorgevano solenni.

Appena finito il pranzo le due donne sellarono il loro cavallo, prepararono le loro bisaccie e si congedarono. Paolo promise di sollecitare il loro avvocato per il ricorso in cassazione, e appena esse furono scomparse si mise a giocare con Minnìa per scuoterla dal sonno invadente, facendo il pazzo: rideva sfrenatamente, scuotendosi tutto, ed all'improvviso taceva, diventava cupo, con gli occhi fissi, poi ricominciava a ridere.

Le ragazze si divertivano; cominciarono anch'esse a ridere pazzamente, e tutto il cortile luminoso, e tutta la casetta tranquilla, liberata dalla presenza tragica delle ospiti addolorate, echeggiò di letizia nella gran pace del meriggio.

III

Le Era viaggiavano sotto il gran sole di luglio. Dovevano scendere la valle, percorrerne il fondo, risalirla e poi ascendere le montagne violacee che chiudevano l'orizzonte, ove i picchi selvaggi svanivano nel cielo reso d'una chiarezza cinerea dai vapori estivi.

Era un triste viaggio. Le due donne cavalcavano su uno stesso cavallo, mansueto e melanconico; dei compagni di viaggio chi precedeva e chi seguiva, sbandati, oppressi dal caldo, dal silenzio, dal dolore. Essi soffrivano per la condanna di Costantino, quasi quanto le due donne; tacevano rispettando l'angoscia muta di Giovanna, e se osavano parlare, la loro voce si smarriva senza vibrazioni, nel gran silenzio dell'ora e del paesaggio. Cammina cammina, la valle scendeva giù verso un torrente essiccato, per sentieri non precipitosi ma selvaggi, tracciati appena su chine inaridite, fra roccie, macchie polverose, stoppie gialle e melanconiche. Alberi strani, selvaggi e solitari come eremiti, sorgevano a grandi intervalli, muti e immobili su sfondi di una lucentezza desolante: la loro ombra cadeva per terra come l'ombra di una nuvola solitaria, smarrita, spaventata dalla luce immensa che interrompeva. E qualche strido di uccello selvatico sorgeva da quell'ombra, ed anche quel grido, prima acuto, pareva poi affievolirsi, vinto dal silenzio che interrompeva.

I grandi fiori dei cardi, d'un violetto vivo, le campanelle rosee dei vilucchi, le stelle color lilla delle malve, sfidanti il sole, accrescevano il senso di desolazione della valle. E giù e su serpeggiavano lunghe, infinite muriccie di pietra coperte di musco secco giallastro, saettate dal sole: campi di frumento non ancora mietuto, le cui spighe gialle parevano mazzi di spine, chiudevano la tacita lontananza. E cammina, cammina, Giovanna sentiva ardere la sua testa sotto il fazzolettone di lana bruciata dal sole, e lagrime silenziose le rigavano il volto. Ella sforzavasi di non farsi sentire a piangere da sua madre, che stava a cavalcioni in sella, mentre ella sedeva sulla groppa del cavallo – ma zia Bachisia vedeva, zia Bachisia udiva anche a spalle voltate, e oramai non ne poteva più.

– Senti, anima mia, – disse ad un tratto, mentre attraversavano il fondo della valle, fra grandi macchie di oleandri fioriti, – non potresti fare la carità di finirla? Perchè piangi? Non lo sapevi forse da molti e molti mesi?

Invece di finirla, Giovanna singhiozzò forte: allora zia Bachisia vedendo che i compagni di viaggio erano tutti lontani, si sfogò con voce bassa, rauca, che a Giovanna arrivava come da lontano, sfumata nel gran silenzio del luogo.

– Non lo sapevi tu, anima mia? possibile che tu sia così sciocca? Ha egli sì o no ammazzato l'avoltojo crudele? Sì, egli lo ha ammazzato…

– Egli non ha mai detto ciò – osservò Giovanna.

– Mancava soltanto che egli fosse così matto da dirlo, anche! Guarda un po', anima mia, mancava ciò soltanto! D'altronde io ero certa che egli, un giorno o l'altro, avrebbe schiacciato l'avoltojo come si schiaccia la vespa che ci ha punto. Tu dici che Costantino è un buon cristiano? Anima mia, ora tu sai un po' cosa sia l'odio. Ammazzeresti tu, sì o no, gli uomini che hanno condannato Costantino? Ebbene, egli ha ammazzato l'avoltojo, ed io lo compatisco, fino a un certo punto, perchè io conosco il cuore umano. Ma non gli ho perdonato, e non gli perdonerò mai la sua imprudenza. Ah, questo no, per amor di Dio! Egli aveva moglie e figlio, egli doveva far la cosa con prudenza, se voleva farla. E ora basta, e ora finiscila. Tu sei giovine, Giovanna, anima mia; figurati che egli sia morto.

– Ah, egli non è morto! – disse Giovanna con disperazione.

– Ebbene, allora appiccati. Ecco, vedi là quell'albero? Va e appiccati là. Ma non tormentarmi oltre! – esclamò zia Bachisia, alzando la voce. – Sei stata sempre il mio tormento. Se tu avessi sposato Brontu Dejas avresti fatto bene. No, tu hai voluto quel mendicante. Ebbene, ora va e appiccati.

Giovanna non rispose. In fondo anch'ella credeva Costantino colpevole, ma da molto tempo lo aveva perdonato; davanti al suo dolore non esisteva che la condanna, e non sapeva capacitarsi come semplici uomini potessero così disporre della vita d'un loro simile. Ah, come ella odiava la loro misteriosa potenza! La odiava come odiava i fantasmi terribili, mai visti ma spesso sentiti, che popolavano le notti di tempesta.

E cammina cammina, si risalì la valle, si cominciò a salir le montagne; il sole calava, l'orizzonte si apriva, il cielo intenerivasi, il paesaggio perdeva la sua crudele desolazione. Lunghe ombre calavano dalle cime, stendendosi come tappeti sulle basse macchie cenerognole dove fioriva ancora qualche rosa canina: spiravano soffi di vento, pieni di odori selvatici. L'anima si consolava in quell'improvviso refrigerio di ombra e di frescura. Un compagno di viaggio s'avvicinò alle due donne e cominciò a raccontare una storiella di non so quali avventure strane capitate una volta, in quelle vicinanze, ad un suo amico: e ad un certo punto la storiella diventò così amena che Giovanna sorrise vagamente.

E cammina cammina, venne il tramonto, e dall'alto delle montagne si vide il mare, steso come una fascia di vapori azzurrognoli nel chiaro orizzonte. Al di là delle brughiere, formate di macchie così potenti che resistono ai pazzi venti invernali ed alle saette del solleone, sugli altipiani melanconici, sorgenti come isole sconosciute in un mare di luce e di solitudine, sta il paesello delle Era, Orlei, nido di gente bella, forte e selvatica, dedita alla pastorizia e alla coltivazione del grano e del miele. I pascoli verdi, intersecati di roccie, in primavera folti di asfodelo e fragranti di menta e di timo, e i campi di frumento raggiungono e circondano il piccolo gruppo delle casette costrutte di pietra schistosa, lucente come argento brunito; e grandi alberi ombreggiano qua e là quel nido di quaglia posato fra il grano: in lontananza si vedono verdi linee di tamerice, foreste di timo e di corbezzoli, e gli sfondi infiniti dell'altipiano, stesi sotto un cielo chiaro di una dolcezza e d'una tristezza indicibili. A destra, su questo stesso cielo, posano, come immense sfingi, azzurre al mattino, color lilla al meriggio, e violacee o bronzine alla sera, le montagne solitarie, rigate di foreste, animate da aquile e da avoltoj.

Le Era giunsero al paese verso sera, quando appunto monte Bellu, il colosso delle sfingi, svaporava violaceo sul cielo cinereo. Il paesello era già deserto e silenzioso; sul selciato rozzo delle strade il passo dei cavalli risuonava come pioggia di pietre.

I compagni di viaggio si sbandarono di qua e di là, e le due donne arrivarono sole davanti alla loro casetta che sorgeva in una spianata sopra lo stradale. Un'altra casa, tinta di bianco, la sovrastava. Un gran mandorlo, rasente ad un tratto di muriccio a secco che partiva dalla cantonata di casa Era, sporgevasi sul sottostante stradale, al di là del quale cominciavano i campi.

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