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Spirito, Anima, Persona Dall'Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo
Spirito, Anima, Persona Dall'Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo

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Spirito, Anima, Persona Dall'Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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Heinrich Maier da parte sua affermava l’ininfluenza per Socrate del credo nella sopravvivenza, almeno a fini etici: “Il Socrate dell’Apologia proclama solennemente: quel che importa nell’operare, non è se esso rechi vita o morte, ma soltanto se è giusto o ingiusto” – “Egli si stacca dalla morale teonoma altrettanto radicalmente quanto i Sofisti: anche per lui la vita morale è affare degli uomini, non degli Dèi […] per lui il fine normativo della vita morale è un fine dell’uomo individuale, non un fine della divinità […]”.

Secondo Socrate la vita morale e in lei la felicità sono per questa terra, “sicché tutta l’opera sua altro non è che lavoro d’illuminazione morale”, solo a tale scopo secondo lui, non per assicurarsi un paradiso, bisogna che ogni anima umana divenga buona il più possibile e senza trascurare, sempre al fine dell’essere felici, un accorto soddisfacimento dei bisogni naturali come il buon bere, il buon cibo e tutte le altre cose che, praticate con moderazione, rendono la vita più piacevole, anche se in esse sole non si trova la felicità. Se il Socrate storico dell’Apologia platonica afferma con forza che quanto conta nell’agire non è se esso porti vita o morte ma se sia giusto o no, perché è questo l’essenziale per una buona vita, quello sempre storico del Critone sottolinea che massimo bene non è vivere ma vivere nel migliore dei modi, moralmente, che non si può rispondere all’ingiustizia con l’ingiustizia; e un’eco se ne avrà nel platonico dialogo Gorgia in cui l’autore farà affermare con forza al proprio maestro ch’è meglio essere vittime d’ingiustizia che commetterla.

Per Bertrand Russell (in Storia della filosofia occidentale, cit., traduzione di Luca Tavolini) l’affermazione socratica, nel Critone, ch’è meglio soffrire ingiustizia che commetterla influenzerà il Cristianesimo. Tale principio però era già presente, assai prima, nell’etica ebraica. Socrate è stato paragonato a Cristo da molti, non solo dal Russell. Secondo alcuni critici, che sembrerebbero privi di sufficienti cognizioni giudeo-cristiane, l’ispiratore del Cristianesimo sarebbe stato proprio Socrate o, meglio, i dialoghi platonici: Gesú, prima della vita pubblica, avrebbe frequentato la filosofia greca invece della tradizione e dei testi sacri ebraici. In realtà la mentalità di Cristo risultante dai vangeli è giudaica e non socratico-platonica. Secondo il Russell inoltre, “il Fedone è importante in quanto espone non solo la morte di un martire, ma anche molte dottrine che poi furono cristiane. La teologia di San Paolo e dei Padri della Chiesa deriva largamente, in via diretta o indiretta, dal Fedone e difficilmente può essere capita se non si conosce Platone”. Ebbene, quanto a Paolo non si può essere d’accordo, anche s’egli conosceva certamente il Platonismo di mezzo oltre allo Stoicismo e se ne serviva; basti ricordare quanto scandalo avesse suscitato presso gli areopagiti, dopo ch'egli aveva richiamato aspetti della cultura greca per ingraziarseli, la sua inusitata asserzione sulla risurrezione del corpo raccontata dai neotestamentari Atti degli Aposotoli (At 17, 32). Alla risurrezione del corpo dei giusti credevano non solo i cristiani ma anche gli ebrei farisei (della cui setta lo stesso Paolo aveva fatto parte) per ragioni religiose derivanti da ragionamenti sulla giustizia di Dio. Quell'affermazione apolina niente ha a che vedere col Platonismo per il quale solo l’anima è immortale e il corpo è una prigione. Quanto ai padri della Chiesa, essi scrivono quand’ormai il Cristianesimo s’è ellenizzato per opera degli apologisti del II secolo; a suo tempo avevo scritto altrove (libro cartaceo Cristianesimo e Gnosticismo: 2000 anni di sfida, cit.) che “per gli apologisti, Bene = Buono = Verità = Giustizia = Amore secondo Platone; peraltro non dissimilmente, in sostanza, dal concetto della sapienza giudaica, che ritroviamo in Giovanni, di Dio come assoluto d’ogni bene”. Per quanto riguarda la teologia dei padri della Chiesa, dunque, l’affermazione del Russell è da tenere presente, purché si consideri l’apporto greco come meramente strumentale e non determinante, e tenendo presente che il Cristianesimo delle origini, cioè di Gesú e della prima Chiesa, non è platonico (cfr. Cristianesimo e Gnosticismo, 2000 anni di sfida, cit., in particolare il capitolo III - VERSETTI GNOSTICI NEL NUOVO TESTAMENTO? paragrafi: I Libri di Giovanni e le scuole apostoliche; Dualismo esseno e dualismo giovanneo - Il quarto vangelo… le Lettere…l’Apocalisse; La Lettera di Giacomo il minore; Altri autori anti-gnostici del Nuovo Testamento: Paolo, Pietro, Giuda, e il capitolo IV, INIZIA LA LOTTA. APOLOGISTI E PADRI DELLA CHIESA: CENNI, paragrafo Trionfa il concetto greco di anima – essenza: a) Apologisti del Cristianesimo).

L’anima secondo Platone

È insomma il Socrate letterario a credere nell’immortalità, cioè è Platone stesso che s’esprime per bocca dell’incolpevole maestro che, essendo ormai defunto, non può più, eventualmente, opporsi. Platone l'aveva incontrato nel 408 a.C. e lo aveva frequentato come discepolo sino alla fine del 399 quando, com'è ben noto, il maestro era stato processato e condannato a morte, per veleno, dai giudici del governo democratico-demagogico d’Atene.

È di Platone il primo sforzo di costituire un pensiero filosofico sistematico, fondando una costruzione intellettuale che accomuni le diverse credenze, giungendo ad assunzioni accettabili da ogni persona ragionevole: un tentativo troppo ambizioso che non riesce a realizzare e che, ancor oggi, è tradotto in realtà, parzialmente, solo in quella matematica che è un fondamentale strumento della ricerca platonica e dove il suo ideale di comunione universale di sapienti si è realizzato.

Platone afferma l'esistenza di due livelli di realtà e di conoscenza, quello del mondo sensibile e quello delle forme o essenze universali. Il secondo s’usa chiamare più sovente delle idee usando tale parola in senso ontologico, cioè secondo la scienza dell’essere.

Arriva alla sua teoria delle idee per il bisogno di riformare la scienza dell’essere dei filosofi detti eleatici, ontologia che fa capo al poema filosofico Della natura di Parmenide per il quale “l’essere è, e il non-essere non è”, apparente banalità che implica qualcosa di più profondo, che il non-essere è impensabile ed è indicibile perché l’essere c’è anche nel pensare e nel dire il non-essere; ma tale pensiero porta a dichiarare meramente illusori i fenomeni, i quali contemplano anche il venir meno e dunque il passare al non-essere e pure il trascorso non-essere di fenomeni che vengono poi all’esistenza; e tale concezione nega il valore dell’esperienza che invece li attesta.

Il problema di fondo è quello d’accordare l’immutabile mondo del puro essere, inaccessibile ai sensi e dove risiedono le idee, a quello dell’esistente ch’è soggetto al divenire e, in esso, al mutamento; ma Platone non riesce a spiegare il divenire, il sorgere, crescere e perire delle cose materiali nelle quali le idee immutabili si riflettono, mentre proprio il divenire è caratteristica tipica dei fenomeni del mondo materiale.

Per questo filosofo (Repubblica, V, 478, 479d.), se è vero che il mondo sensibile non è veramente essere, cioè non è essere che davvero è, mentre tale è solo il mondo delle idee, esso tuttavia non è non-essere ma è un intermedio fra essere e non-essere: cioè proprio quanto il principio di Parmenide afferma non possibile, perché assurdo. Dunque, da Platone il problema non viene risolto. Ci riproverà Aristotele.

Platone finisce con l’accontentarsi di relegare il mondo sensibile a una condizione semi-illusoria e d’attribuire importanza fondamentale solo agli eterni e immutabili Bene assoluto (Dio stesso) e mondo delle idee che sono al di là di tempo e spazio.

Per giustificare l’esistente egli introduce una sorta di sotto-Dio, il Demiurgo: il mondo sensibile è costituito dalle cose materiali plasmate da questa figura divina diversa e inferiore a Dio. Il Demiurgo appare nel dialogo Timeo ed è una sorta d’artigiano divino: il mondo fisico deriva sia dal mondo delle idee sia dalla materia eterna e il Demiurgo funge da mediatore, contemplando le idee stesse, facendole scendere e plasmando l’universo secondo il loro modello; idee, Demiurgo e mondo esistono da sempre, come da sempre esiste il Bene assoluto. Essendo semi-illusorio, l’imperfetto mondo materiale è soggetto a disgregarsi senza posa, per cui il Demiurgo deve occuparsene in continuazione per mantenerlo e, in questo, il mondo trascorre; tale divenire è raccolto dalle impressioni dei nostri sensi.

Questo dio secondario non è dunque creatore ma solo plasmatore e non è onnipotente, a differenza del Dio giudeo-cristiano; la materia lo limita, impedendogli di fare un mondo perfetto; e le idee, cui deve attenersi, lo determinano. È la concezione che sarà raccattata secoli dopo dallo Gnosticismo cristiano (cfr. Cristianesimo e Gnosticismo: 2000 anni di sfida, cit.) che identificherà nel Demiurgo la figura di Jahvè.

Si noti che l’opinione, che s’incontra talvolta, che la figura biblica del Creatore giudeo-cristiano – non di quello gnostico – derivi dai platonici Demiurgo e Bene assoluto, una sorta di figura di mezzo tra i due, o anche solo l’affermazione che l’idea di plasmatore si ritrovi nel Dio della Genesi che plasma il fango creando Adamo, sono congetture da respingere, se non altro per ragioni cronologiche; infatti il libro della Genesi originale, in ebraico, è scritto nel VI-V secolo avanti Cristo e deriva da tradizioni di molto precedenti la vita di Platone (427 - 347 a.C.) e precisamente dalle tradizioni Jahvista, Elohista, Deuteronomista che convergono nella tradizione Sacerdotale (ne parlo a fondo nel mio e-book "Il vento dell'amore" http://www.pagliarino.com/e-book_Il_Vento_dell'Amore.htm ).

Forse però, all'inverso, si tratta di tradizioni note a Platone? Intendo o come narrazioni orali raccolte dal filosofo presso membri della diaspora giudaica, oppure lette nella stesura originale della Genesi in lingua ebraica, sempre che il filosofo conoscesse tale lingua? Certamente non raccolte dalla traduzione in greco detta dei Settanta, quella poi frequentata dai Padri della Chiesa, che è del II secolo a.C. cioè assai successiva a Platone. Ch’io sappia, non ci sono fonti per sostenere una dipendenza delle figure platoniche del Bene assoluto e del Demiurgo dalla Bibbia in ebraico. È comunque interessante, relativamente al nome biblico di Dio, quanto scrive il teologo Joseph Ratzinger nel saggio “Introduzione al Cristianesimo – Lezioni sul Simbolo apostolico" (traduzione dal tedesco di Gianni Francescani, con un nuovo saggio introduttivo, 2005, Editrice Queriniana) al capitolo 2, La fede in Dio nella Bibbia, precisamente a proposito del quesito se il nome di Dio in Esodo, 3, 13-15 abbia a che fare con l’essere dei greci: “Il senso del testo è manifestamente quello di motivare il nome Jahwè come decisivo nome di Dio in Israele […] attribuendogli anche un preciso significato contenutistico. Quest’ultimo scopo viene ottenuto riconducendo l’incomprensibile termine Jahwè alla radicale hãjâ = Essere. […] Questa spiegazione del nome Jahwè attraverso il verbo ‘essere’ (Io-sono) viene poi sostenuta da un secondo tentativo di chiarificazione, dicendo che Jahwè è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe […]. Innanzitutto: che significato ha il fatto che qui si ricorra all’idea dell’essere quale spiegazione di Dio? Per i Padri della Chiesa provenienti dalla filosofia greca ciò apparve subito come una inattesa e audace conferma del loro passato di pensatori; sì, perché la filosofia greca considerava come la sua scoperta più decisiva l’aver colto, dietro le colluvie di cose singole con cui l’uomo ha quotidianamente a che fare, l’idea universale dell’essere, che essa aveva ritenuto subito la più adatta a esprimere il divino. Ora anche la Bibbia sembrava dire la stessa cosa, e proprio nel suo testo centrale concernente l’immagine di Dio. […] Essi ritennero tanto perfetta l’identità fra la ricerca da parte dello spirito filosofico e la ricezione avvenuta nella fede d’Israele, da nutrire l’opinione che lo stesso Platone non avrebbe potuto di sua iniziativa giungere a tale conoscenza, ma avrebbe conosciuto l’Antico Testamento e avrebbe da esso desunto il suo pensiero. […] In effetti, il testo in greco dell’Antico Testamento che i Padri avevano in mano,” – la citata traduzione dall’ebraico al greco cosiddetta dei Settanta (traduttori), N.d.A. – “poteva far nascere l’idea di una tale identità fra Platone e Mosè, mentre logicamente la dipendenza poteva, semmai, esistere proprio in senso inverso. I traduttori della Bibbia ebraica in greco, infatti, erano influenzati dal pensiero filosofico ellenico e a partire da esso avevano letto e inteso il testo; […] essi avevano, per così dire, già gettato il ponte di collegamento fra il concetto biblico di Dio e il pensiero greco allorché avevano tradotto il v. 14, ‘Io sono colui che sono’, con l’espressione ‘Io sono colui che è’. Il nome biblico di Dio viene qui identificato col concetto filosofico di Dio. […] La versione greca dell’Antico Testamento e le deduzioni dei Padri della chiesa basate su di essa poggiano […] su un equivoco? Su tale questione non solo gli esegeti sono oggi unanimi, ma gli stessi specialisti in teologia sistematica ribadiscono energicamente, e con buoni fondamenti, che questo problema va molto al di là di tutti i problemi di esegetica spicciola. Così, per esempio, Emil Brunner ha categoricamente asserito che il segno d’uguaglianza qui posto fra il Dio della fede e il Dio dei filosofi comporta il travisamento dell’idea biblica di Dio nel suo contrario. […] Si tratta di una caduta nell’ellenismo, di una apostasia dal Dio che il Nuovo Testamento chiama Padre di Gesù Cristo? […] Che cosa dice il nome Jahwè e quale significato ha la sua spiegazione mediante il verbo ‘essere’? […] Un’unica cosa si può asserire chiaramente: una sicura attestazione del nome Jahwè in tempi anteriori a Mosè, e in ambienti estranei ad Israele, manca completamente […] la coniazione del nome completo Jahwè, per quanto oggi ci è dato di sapere, è avvenuta soltanto in Israele: essa sembra essere opera della fede di Israele, che ha qui agito non senza collegamenti, ma comunque in maniera creativa, plasmandosi il proprio nome di Dio e quindi anche la propria immagine di Dio. Oggi, anzi, molti dati della ricerca parlano di nuovo in favore del fatto che la formazione di questo nome sia stata effettivamente opera di Mosè,” – siamo nel XIII secolo a.C., N.d.A. – “la quale ha potuto con esso infondere nuova speranza ai membri del suo popolo in schiavitù. La definitiva formazione di un proprio nome di Dio, e quindi di una propria immagine di Dio, sembra abbia costituito la base di partenza per la costituzione di Israele in popolo”.

Gli scrittori ecclesiastici antichi, anzitutto il grande Ireneo di Lione, definivano Adamo il protoplasto, il primo plasmato da Dio; questo però per ragioni bibliche – “allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen 2, 7) – e non platoniche, sebbene quegli scrittori ecclesiastici ben conoscessero, e usassero contro gli gnostici, la filosofia greca.

Ha contribuito forse all’equivoco il fatto che il Demiurgo è un dio personale come quello della Bibbia. D’altra parte i medesimi scrittori usavano anch’essi la parola Demiurgo, anche se per indicare il benigno Dio cristiano creatore, ben diversamente dagli autori gnostici cristianeggianti (cfr. - in moltissimi punti - l’opera in due volumi di Antonio Orbe, La teologia dei secoli II e III, traduzione italiana dallo spagnolo a cura di Maria Gilli, Piemme Theologica & Editrice Pontificia Università Gregoriana, II edizione, 1996).

Torniamo a Platone.

Quattro sono le caratteristiche dell’anima umana per lui: è composta di tre parti, la razionale, sede dell’intelletto, l’irascibile, luogo dei sentimenti nobili, tra cui il coraggio, e in genere della forza emotiva buona, e la concupiscibile, sede dell’istinto, delle voglie inferiori; è un principio di vita e si muove da sé, mentre quanto è mosso dall’esterno è privo di anima; è immateriale, le è proprio il pensiero ed è grazie all’intelletto che l’anima comunica col mondo intelligibile delle idee; solo l’anima razionale non muore col corpo ed è eterna.

Le idee sono per lui veramente esistenti oltre l’universo materiale, sono realtà perenni e universali, valori cui il mondo percepibile tende come al proprio fine: l’universo ideale è ordinato dall’idea di Bene divino, che coincide sostanzialmente con Vero, Giusto, Buono, Bello e con l’Amore: le idee sono l’obiettivo dell'anima umana, ch’è immortale grazie alla sua relazione d’amore con le idee. L’amore è intuizione e desiderio del bene e del bello mancanti all’uomo. Così per Platone l’anima supera i limiti della materia e ascende arrivando a contemplare l’idea di bellezza. Si parte dalla bellezza sensibile per giungere al bello assoluto, amando un corpo bello si è solo all’inizio, il fine è amarne l’anima così come dalla bellezza deperibile delle cose in genere si deve passare ad amare la bellezza della conoscenza che porta a contemplare il bello assoluto. Per Platone ammirare le cose belle risveglia il ricordo delle idee contemplate nel mondo delle essenze inducendo l’anima a una sorta di divino delirio ch’è la più alta forma d’amore. Com’egli espone nel celebre mito della caverna contenuto nel dialogo La Repubblica, gli esseri umani afferrano naturalmente, con le sensazioni, solo le ombre delle idee, come se queste fossero proiettate, grazie a un fuoco esterno, all’interno d’una caverna in cui essi vivono senza mai sortirne né poter voltarsi all’ingresso; alcuni tuttavia costituiscono un’eccezione, riescono con l’anima a uscire e ad accorgersi così della bellezza della realtà, quella vera, quella del mondo delle idee: si tratta dei filosofi cui, grazie alla matematica e all'esercizio della dialettica che educano all’ammirazione del bello e del vero, spetta di guidare gli altri alla conoscenza delle idee; e pure di governare lo Stato.

La vita terrestre condotta con rettitudine purifica le anime che, morendo, tornano alla loro dimensione spirituale, mentre una vita viziosa porta a reincarnarsi finché l’anima non giunga a purificazione perfetta. Si noti che per Platone, a differenza dei successivi gnostici, tutti gli esseri umani, anche se in gradi diversi, hanno l’anima razionale, cioè sopravvivono alla morte, benché chi abbia agito male si reincarni in un essere inferiore, a volte di molto, come uno scarafaggio. Non appare improbabile la dipendenza di tale concezione da quella di metempsicosi dell’Induismo, anche se per intermediazione di Orfismo-Pitagorismo.

L’essere umano per Platone non è interamente tale, nel senso che è solo la sua anima immortale, la più perfetta fra le realtà generate, a costituire la sua vera identità di uomo, non il corpo. Le particelle di Spirito dette anime infondono la vita ai loro corpi materiali, cui sono preesistenti.

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