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Acqua Dentro Acqua
Ma quando torna a casa ed entra infreddolito nel letto è felice. Perché abbraccia la moglie. E non sente più il peso dei problemi, del mutuo, dell'età; non ha più freddo. Lì, sotto quelle coperte, accanto a quella donna c'è solo benessere.
Non so. Forse non è così. E odia sua moglie e non ha figli.
Però mi piace immaginarlo felice. Senza soldi. Con la macchina sfasciata e un sacco di guai. Un abbraccio risolve un sacco di cose. Ed un abbraccio può far la differenza.
Non manca molto all'arrivo. Ed io non so ancora perché ho preso questo treno. Però sono felice di averlo fatto. Almeno credo. Ho sempre amato i viaggi in treno. Ma questo l'ho già detto.
Ci sono un sacco di persone. Di tutti i tipi. E c'è sempre qualcosa da guardare.
In silenzio.
4
La stazione non è molto affollata.
Nonostante la voce metallica degli altoparlanti e lo stridio dei freni dei treni, è piuttosto quieta. C'è il solito via vai di persone. Ferrovieri, qualche viaggiatore notturno. Non molti in verità. La maggior parte sta prendendo l'uscita, verso casa.
E poi c'è chi una casa non ce l'ha e si gode le ultime ore al coperto. La sera è fresca. La primavera si manifesta in una nota di dolcezza nell'aria. Anche se il vento è freddo. Pungente.
Indossavo il cappotto. Aperto.
Un clima strano. Tipico della primavera. Quando freddo e caldo si incontrano. Si scontrano. Battaglie. In alto, come sulla terra.
Il cielo era coperto. Nascondeva qualcosa; qualcosa che da qui non riuscivo a vedere. Era luminoso. Quasi bianco.
Non mi andava di andare in quel posto con la sera. Di giorno puoi fingere indifferenza. Puoi far finta di non sentire nulla o che nulla sia accaduto. Di giorno verità e immaginario si possono confondere. Mescolare.
Ma di notte non si può. Non riesco.
Avevo compreso che le cose accadono. A volte senza una ragione. E che la differenza non sta in cosa accade. Ma in come tu le vivi. Per me realtà e fantasia, dentro e fuori, hanno sempre avuto dei confini molto sfumati. Per me era tutto normale. Mi rendo però conto che così non fosse per tutti gli altri. Io pensavo, desideravo, qualcosa e non mi preoccupavo molto sul come realizzarla. Era come se mi costruissi una realtà. Non in modo consapevole. La immaginavo. E se sentivo che era così, diventava quella. Signore e signori ecco la realtà secondo Nero.
Tutto qui.
Capitava in questo modo. Niente di più, niente di meno. Un giorno, verso i sedici anni, mi son svegliato con la ferma convinzione di essere l'uomo più fortunato del mondo. Quel giorno non accadde nulla di eclatante. Certo, non fui interrogato in greco. Avrei preso due, sicuramente. Ma per l'uomo più fortunato del mondo, questo è nulla. Non fui infastidito dai ragazzi più grandi che ogni tanto si appostavano per rubare i soldi a noi piccoli. Niente di che.
Al mio rientro a casa non trovai il mio piatto preferito. Del resto non avevo voglia di lasagne.
Così decisi di concretizzare la mia fortuna: rubai qualche lira dalla borsa di mia madre ed andai a giocare al lotto. Non vinsi. Ma credo che quello fosse un segno. Non ero destinato a diventare ricco. E forse, se fossi diventato ricco, avrei perso la ragione, sarei impazzito e magari avrei commesso una strage; sarei finito in galera ad essere picchiato e sodomizzato per il resto dei miei giorni. “Wow” mi dissi. Ero davvero l'uomo più fortunato del mondo. Per fortuna non avevo vinto. Ecco. Io sono questo. Come si può definire un individuo così del tutto normale?
Vicino alla centrale ci sono decine di hotel a una, due, tre stelle. Crescevano come funghi, in un fitto sottobosco di idiomi, sapori e colori. Sbucavano fuori dai palazzi, s'insinuavano nei marciapiedi o tra le strade come lingue assetate.
Ne avevo trovato uno piuttosto economico e discretamente pulito. Il bagno in camera. A conduzione familiare. La reception aperta 24 ore al giorno. Non che mi interessasse questo dettaglio. Però è una di quelle cose che ti rimangono impresse. E poi avevo il balcone. Affacciava sulla strada. Mi piaceva prendere aria e magari dormire con la finestra aperta. In qualsiasi stagione.
Era dentro un palazzo di metà ottocento. Non distante dai giardini di Palestro. Quella di Porta Venezia è sempre stata una delle mie zone preferite qui nella grande città.
Mi sembrava di essere altrove ogni volta che vi passeggiavo. Negozi multietnici, il parco, profumi d'oriente e d'Africa. Tutto inserito in un contesto “basso”. Quello della Milano di fine ottocento, metà novecento. Niente alla moda; solo un pizzico di buon gusto. Almeno in parte.
Qui non c'erano palazzoni di vetro e acciaio. Non ancora almeno.
Certo che è curioso, pensai: amare una zona di una città proprio perché ti fa credere di non trovarti in quella città...ma anche questo in fondo è solo un altro dettaglio.
C'era aria di neve. La respiravo. Chissà se avrebbe nevicato. Torno a Milano a fine marzo e nevica. Sorrisi. Mi divertiva l'idea.
Ero entrato da pochi minuti nella stanza che mi avrebbe ospitato per alcuni giorni. Il bagno era pulito. C'era una bella doccia. Nuova. Alcune mattonelle intorno allo specchio sul lavabo erano rotte. Il materasso però era comodo.
Quando andavo in hotel ispezionavo sempre la camera. Il bagno, le sedie -se c'erano- aprivo gli armadi e i cassetti, come se avessi dovuto trovarci qualcosa...e poi leggevo tutte le regole dell'hotel. Solo alla fine mi sedevo sul letto per testare il materasso.
Se potevo, fumavo una sigaretta. Oppure scendevo nella reception ed uscivo a fumare per strada. Adesso ero sul balcone. Avevo appena fatto un tiro. Guardavo in alto. Il cielo. E poi il palazzo di fronte.
La bocca mi si era riempita del sapore dolciastro del sangue mentre buttavo fuori il fumo. Il dente. Aveva ripreso a sanguinare. L'avrei dovuto sistemare molti anni fa. Certo non me ne potevo lamentare.
“Nero, nel giro di tre mesi tornerai qui piegato in due dal dolore” mi disse il dentista.
Erano passati 14 anni. Non rividi mai più quell'uomo.
Sorrisi di nuovo mentre con la lingua raccoglievo un po' di sangue dalla gengiva.
Ero presuntuoso. E mi piaceva sbugiardarmi. Quasi tutti i giorni. Tranne quando pioveva. Quando pioveva stavo quieto. In silenzio. Sotto la pioggia. Come un cretino.
A volte chiudevo gli occhi e mi sembrava tutto in ordine. Il rumore delle gocce scandiva la perfezione dell'universo sulla mia pelle. E diventavo metro di quella perfezione. Diventavo acqua.
Feci un altro tiro.
Non mi dispiaceva sentire ogni tanto il sapore del mio sangue.
Mi misi ad osservare il fumo che volteggiava sospinto dal vento e alzai di nuovo lo sguardo. Il cappello abbassato sugli occhi. Iniziava a nevicare. I fiocchi erano senza peso. Cadevano pigri, indolenti, quasi svogliati. Come se non volessero.
Guardai per terra. Grigio uniforme ovunque. La neve lì non si vedeva ancora. Non era ancora arrivata. Mi sentii come una vedetta. Potevo osservare qualcosa prima di tutti gli altri. “Hey io c'ero quando il 21 marzo prese a nevicare! Io so com'è iniziata”
Ero un privilegiato. Anche un po' pirla probabilmente. Di sicuro ero diverso.
Presi la borsa col tabacco, la chiave della stanza ed uscii dalla camera.
Volevo passeggiare sotto quella candida neve. Prima che smettesse o prima che aumentasse. Volevo farlo. Ora.
Mi son sempre sentito spezzato. Scisso. Forse il mio corpo lo era davvero. Almeno nell'animo, nel profondo. Come se corpo e mente fossero sempre fuori tempo tra loro. Sentivo che c'era qualcosa che non andava. Non avevo reazioni normali. Spesso mi sembrava che tutto quello che accadeva era frutto delle mie proiezioni, dei miei sentimenti del momento.
In genere prima succede qualcosa e poi senti la risposta emotiva che ti procura quel qualcosa. Ecco, a me capitava l'esatto contrario.
Se uscivo di casa arrabbiato mi capitavano per strada mille cose che giustificassero quella rabbia.
Se mi svegliavo con la smania di amore, incontravo qualcuno di cui innamorarmi. E me ne convincevo. Non so, forse capita così anche a voi.
Solo che non sono mai riuscito a gestire questa cosa.
Mi sentivo come dio. Come se io stesso creassi quello che mi sarebbe accaduto. E forse era proprio così. Non saprei.
“Suo figlio ha problemi a relazionarsi...non riesce ad esprimere le sue emozioni in modo coerente”
Silenzio.
“Ha capito signora?”
Mia madre non parlava. Sembrava un'ebete.
“Mi scusi ma in che senso? A me sembra che sia normale, come tutti insomma” disse mio padre.
Mi guardò. E vidi che neppure lui era del tutto convinto.
“Vive in un mondo tutto suo...si isola e piange quando dovrebbe ridere o ride quando dovrebbe piangere...a lei sembra normale?”
“Io credo che lei non abbia alcuna competenza per fare queste affermazioni.” Bravo papà, cantagliene quattro.
La mia maestra aveva ragione. E i miei genitori lo sapevano.
Ma era pure una spocchiosa che credeva che tutti dovessero essere allo stesso modo. E chi era diverso era anormale, da curare. Da omologare. Certo, riconosco che all'apparenza potevo risultare strano...come quando non trovavo più Giasone e pensai che se ne fosse andato; iniziai a piangere. Il tutto accadde proprio mentre iniziavano i festeggiamenti della fine della scuola con tanto di spettacolino, recita, fischietti, cappellini e stronzate varie. Ma loro non capivano. Non trovavo più il mio panda! Giasone appunto.
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