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Ottavia

Ottavia
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Nerone, SenecaSeneca
Signor del mondo, a te che manca?Ner.
Pace.Seneca
L'avrai, se ad altri non la togli.Ner.
Interal'avria Neron, se di abborrito nodostato non fosse a Ottavia avvinto mai.Seneca
Ma tu, de' Giulj il successor, del lorolustro e poter l'accrescitor saresti,senza la man di Ottavia? Ella del sogliola via t'aprí: pur quella Ottavia or languein duro ingiusto esiglio; ella, che privadi te cosí, benché a rival superbati sappia in braccio, (ahi misera!) ancor t'ama.Ner.
Stromento giá di mia grandezza forseell'era: ma, stromento de' miei dannifatta era poscia; e tal pur troppo ancoradopo il ripudio ell'è. La infida schiattadella vil plebe osa dolersen? osapur mormorar del suo signor, dov'ioil signor sono? – Omai di Ottavia il nome,non che a grido innalzar, non pure udrassisommessamente infra tremanti labra,mai profferire; – o ch'io Neron non sono.Seneca
Signor, non sempre i miei consigli a viletenuto hai tu. Ben sai, com'io, coll'armidi ragion salde, arditamente incontroal giovanile impeto tuo mi fessi.Biasmo, e vergogna io t'annunziava, e danno,dal repudio di Ottavia, e piú dal crudosuo bando. In cor del volgo addentro moltoOttavia è fitta: io tel dicea: t'aggiunsiche Roma intera avea per doni infaustidi Plauto i campi, e il sanguinoso ostellodi Burro, a lei sí feramente espulsacon tristo augurio dati: e dissi…Ner.
Assaidicesti, è ver; ma il voler mio pur festi. —Forse il regnar tu m'insegnavi un tempo,ma il non errar giammai, né tu l'insegni,né l'apprend'uomo. Or basti a me, che accortofatto m'ha Roma in tempo. Error non lievefu l'espeller colei, che mai non debbe,mai stanza aver lungi da me…Seneca
Ten duoledunque? ed è ver quanto ascoltai? ritornaOttavia?Ner.
Sí.Seneca
Pietá di lei ti prese?Ner.
Pietade?.. Sí: pietá men prese.Seneca
Al tronocompagna e al regal talamo tornarla,forse?..Ner.
Tra breve ella in mia reggia riede.A che rieda, il vedrai. – Saggio fra' saggi,Seneca, tu giá mio ministro e scortaa ben piú dubbie, dure, ed incalzantinecessitá di regno; or, men lusingo,tu non vorrai da quel di pria diversomostrarmiti.Seneca
Consiglio a me, pur troppo!cher tu suoli, allor che in core hai fermagiá la feral sentenza. Il tuo pensieronoto or non m'è; ma per Ottavia io tremo,udendo il parlar tuo.Ner.
Dimmi; tremaviquel dí, che tratto a necessaria morteil suo fratel cadeva? e il dí, che reapronunziavi tu stesso la superbamadre mia, che nemica erati fera,tremavi tu?Seneca
Che ascolto io mai? l'infamegiorno esecrando rimembrar tu ardisci? – Entroquel sangue tuo me non bagnai;tu tel bevesti, io tacqui; è ver, costrettotacqui; ma fui reo del silenzio, e il sono,finch'io respiro aura di vita. – Ahi stolto,ch'io allor credetti, che Neron potriapor fine al sangue col sangue materno!Veggo ben or, ch'indi ha principio appena. —Ogni nuova tua strage a me novellidoni odíosi arreca, onde mi hai carco;né so perché. Tu mi costringi a torli;prezzo di sangue alla maligna plebeparran tuoi doni: ah! li ripiglia; e lasciaa me la stima di me stesso intera.Ner.
Ove tu l'abbi, io la ti lascio. – Espertomastro sei tu d'alma virtú: ma, il sai,ch'anco non sempre ella si adopra. Intattase a te serbar piacea l'alta tua fama,ed incorrotto il cor, perché l'oscurotuo patrio nido abbandonar, per questoreo splendore di corte? – Il vedi: insegnoio non Stoico a te Stoico; e sí il mio senno,tutto il deggio a te solo. – Or, poiché toltoti sei, quí, stando, il tuo candor tu stesso;poiché di buono il nome, ov'uom sel perda,mai nol racquista piú; giovami, il puoi.Me giá scolpasti dei passati falli;prosiegui; lauda, e l'opre mie colora;ch'è di alcun peso il parer tuo. Te credemen rio che altr'uom la plebe; in te gran possatuttor suppon sovra il mio cor: tu in somma,tal di mia reggia addobbo sei, che biasmodi me non fai, che piú di te nol facci.Seneca
Ti giova, il so, ch'altri pur reo si mostri:divisa colpa, a te men pesa. Or sappi,ch'io, non reo de' tuoi falli, io pur ne portola pena tutta: del regnar mi è datoil miglior premio; in odio a tutti io sono.Qual mi puoi nuova infame cura imporre,che aggiunga?..Ner.
Ei t'è mestier dal cor del volgotrarre Ottavia.Seneca
Non cangia il volgo affetti,come il signore; e mal s'infinge.Ner.
All'uopoben cangia il saggio e la favella, e l'opre:e tu sei saggio. Or va; di tua virtude,quanta ella sia, varrommi, il dí che appienodir potrò mio l'impero: io son frattanto,il mastro io sono in farlo mio davvero,l'alunno tu: fa ch'io ti trovi or dunquedocile a me. Non ti minaccio morte;morir non curi, il so; ma di tua famaquel lieve avanzo, onde esser carco estimi,pensa che anch'egli al mio poter soggiace.Torne a te piú, che non ten resta, io posso.Taci omai dunque, e va; per me t'adopra.Seneca
Assolute parole odo, e cospersedi fiele e sangue. – Ma l'evento aspetto,qual ch'ei sia pure. – Ogni mio ajuto è vanoa' tuoi disegni, e reo. Che a sparger sangueNeron per se non basti sol, chi 'l crede?SCENA SECONDA
Nerone– E con te pur la tua virtú mentita,altero Stoico, abbatterò. Punirtiseppi finor coi doni: al dí, ch'io t'abbiadispregievole reso a ogni uom piú vile,serbo a te poi la scure. – Or, qual fia questamia sovrana assoluta immensa possa,cui si attraversan d'ogni parte inciampi?Ottavia abborro; oltre ogni dir Poppeaamo; e mentir l'odio e l'amore io deggio?Ciò che al piú vil de' servi miei non vietaforza di legge, il susurrar del volgofia che s'attenti oggi a Neron vietarlo?SCENA TERZA
Nerone, PoppeaPoppea
Alto signor, sola mia vita; ingombrodi cure ognora, e dal mio fianco lungi,me tieni in fera angoscia. E che? non fia,ch'io lieto mai del nostro amor ti vegga?Ner.
Lunge da te, Poppea, mi tien talvoltail nostro amor; null'altro mai. Con gravee lunga pena io t'acquistava; or debbotravagliarmi in serbarti: il sai, che a costoanco del trono, io ti vo' mia…Poppea
Chi tormia te, chi 'l può, se non tu stesso? è leggeogni tuo cenno, ogni tua voglia in Roma.Tu in premio a me dell'amor mio ti desti,tu a me ti togli; e il puoi tu appien; com'iosopravvivere al perderti non posso.Ner.
Toglierti a me? né il pur potrebbe il cielo.Ma ria baldanza popolar, non spentadel tutto ancor, biasmare osa frattantogli affetti del cor mio: quindi m'è forza,che antivedendo io tolga…Poppea
E al grido badidel popolo?Ner.
Mostrar quant'io l'apprezzispero, in breve; ma a questa Idra rabbiosalasciar niun capo vuolsi: al suolo appenatrabalzerá l'ultima testa, in cuiRoma fonda sua speme; e infranta a terra,lacera, muta, annichilata cadela superba sua plebe. Appien finorame non conosce Roma: a lei di menteben io trarrò queste sue fole antichedi libertá. De' Claudj ultimo avanzoOttavia, or suona in ogni bocca; il suodestin si piange in odio mio, non ch'ellas'ami: non cape in cor di plebe amore:ma all'insolente popolar licenzagiova il fren rimembrar debile e lentodi Claudio inetto, e sospirar pur sempreciò che piú aver non puote.Poppea
È ver; tacersi,Roma nol sa; ma, e ch'altro omai sa Roma,che cinguettar? Dei tu temerne?Ner.
Esigliolieto troppo, ed incauto, a Ottavia ho scelto.Intera stassi di Campania al lidol'armata, in cui recente rimembranzavive ancor d'Agrippina. Entro quei petti,di novitá desio, pietá fallacedella figlia di Claudio, animo fello,e ria speranza entro quei petti alligna.Io mal colá bando a lei diedi, e peggiofarei quivi lasciandola.Poppea
Tenertidee sollecito tanto omai costei?Oltre il confin del vasto impero tuoche non la mandi? esiglio, ove pur basti,qual piú securo? e qual deserta piaggiaremota è sí, che t'allontani troppoda lei, che darsi il folle vanto ardisced'averti dato il trono?Ner.
Or, finché toltodel tutto il poter nuocermi le venga,stanza piú assai per me secura ell'abbiaRoma, e la reggia mia.Poppea
Che ascolto? In RomaOttavia riede!Ner.
A mie ragion dá loco…Poppea
Ove son io, colei?..Ner.
Deh! m'odi…Poppea
Intendo;ben veggo;… io tosto sgombrerò…Ner.
Deh! m'odi:Ottavia in Roma a danno tuo non torna;a suo danno bensí…Poppea
Vedrai tu tosto,ch'ella vi torna al tuo. Ti dico intanto,che Ottavia e me, vive ad un tempo entrambe,non che una reggia, una cittá non cape.Rieda pur ella, che Neron sul seggiolocò del mondo; ella a cacciarnel venga.Di te mi duol, non di me no, ch'io pressod'Otton mio fido a ritornar son prestaAmommi ei molto, e ancor non poco ei m'ama:potess'io pur quell'amator sí fermoriamare! Ma il cor Poppea non seppedivider mai; né vuole ella il tuo corecon l'abborrita sua rival diviso.Non del tuo trono, io sol di te fui presa,ahi lassa! e il sono: a me lusinga dolceera l'amor, non del signor del mondo,ma dell'amato mio Neron: se in partea me ti togli; se in tuo cor sovrana,sola non regno, al tutto io cedo, al tuttoio n'esco. Ahi lassa! dal mio cor potessiappien cosí strappar la immagin tua,come da te svellermi spero!..Ner.
Io t'amo,Poppea, tu il sai: di quale amor, tel dicaquant'io giá fei; quanto a piú far mi appresto.Ma tu…Poppea
Che vuoi? poss'io vederti al fiancoquell'odíosa donna, e viver pure?poss'io né pur pensarvi? Ahi donna indegna!che amar Neron, né può, né sa, né vuole;e sí pur finger l'osa.Ner.
Il cor, la menteacqueta; in bando ogni timor gelosocaccia: ma il voler mio rispetta a un tempo.Esser non può, ch'ella per or non rieda.Giá mosso ha il piè ver Roma: il dí novelloquí scorgeralla. Il vuol la tua non meno,che la mia securtá: che piú? s'io 'l voglio;io non uso a trovare ostacol maia' miei disegni. – Io non mi appago, o donna,d'amar, qual mostri, d'ogni tema ignudo.Chi me piú teme ed obbedisce, sappi,ch'ei m'ama piú.Poppea
… Troppo mi rende arditail temer troppo. Oh qual puoi farmi immensodanno! il tuo amor tu mi puoi torre… Ah! priamia vita prendi: assai minor fia il danno.Ner.
Poppea, deh! cessa: nel mio amor ti affida.Mai non temer della mia fede: al miovoler bensí temi d'opporti. Abborro,io piú che tu, colei che rival nomi.Da' suoi torbidi amici appien disgiunta,quí di mie guardie cinta la vedrai,non tua rival, ma vil tua ancella: e in breve,s'io del regnar l'arte pur nulla intendo,ella stessa di se palma daratti.ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Poppea, TigellinoPoppea
Comun periglio oggi corriam; noi dunqueoggi cercare, o Tigellin, dobbiamocomun riparo.Tigel.
E che? d'Ottavia temi?..Poppea
Non la beltá per certo; ognor la miaprevalse agli occhi di Nerone: io temoil finto amor, la finta sua dolcezza;l'arti temo di Seneca, e sue grida;e della plebe gl'impeti; e i rimorsidello stesso Nerone.Tigel.
Ei da gran tempot'ama, e tu nol conosci? Il suo rimorsoè il nuocer poco. – Or, credi, a piú compiutavendetta ei tragge Ottavia in Roma. Lasciach'opri in lui quel suo innato rancor cupo,giunto al rio nuziale odio primiero.Questo è il riparo al comun nostro danno.Poppea
Securo stai? non io cosí. – Ma il francotuo parlar mi fa dire. Appien conoscoNerone, in cui nulla il rimorso puote:ma il timor, di', tutto non puote in lui?Chi nol vide tremar dell'abborritamadre? di me tutto egli ardea; pur farmisua sposa mai, finch'ella visse, ardiva?col sol rigor del taciturno aspettoBurro tremar nol fea? non l'atterrisceperfin talvolta ancor, garrulo, e vuotod'ogni poter, col magistral suo grido,Seneca stesso? Ecco i rimorsi, ond'iocapace il credo. Or, se vi aggiungi gli urli,le minacce di Roma…Tigel.
Ottavia trarrepotran piú tosto ove Agrippina, e Burro,e tanti, e tanti, andaro. A voler spentala tua rival, lascia che all'odio anticonuovo timor nel core al sir si aggiunga.Ei non svelommi il suo pensier per anco;ma so, che nulla di Neron l'ingegnomeglio assottiglia, che il timor suo immenso.Roma, Ottavia chiamando, Ottavia uccide.Poppea
Sí; ma frattanto un passeggiero lampopuò di favor sforzato ella usurparsi.Ci abborre Ottavia entrambi: a cotant'iraqual ti fai scudo? il voler dubbio e fraledi un tremante signore? A perder noisolo basta un istante; a noi che giova,se cader dobbiam pria, ch'ella poi cada?Tigel.
Che un balen di favore a lei lampeggi,nol temer, no: di Neron nostro il coreella trovar non sa. Sua stolta pompad'aspra virtú gli incresce; in lei del pariobbedíenza, amor, timor gli spiace;quell'esca stessa, ove ei da noi si piglia,l'abborre in lei. – Ma pur, s'io nulla posso,che far debb'io? favella.Poppea
Ogni piú lievecosa esplorar, sagace, e farmen dotta;antivedere; a sdegno aggiunger sdegno;mezzi inventar, mille a Neron proporne,onde costei si spenga; apporle falli,ove non n'abbia; quanta è in te destrezza,adoprar tutta; andar, venir, tenerlo,aggirarlo, acciecarlo; e vegliar sempre: —ciò far tu dei.Tigel.
Ciò far vogl'io: ma il mezzoottimo a tanto effetto in cor giá fittoNeron si avrà; non dubitar: nell'artedi vendetta è maestro: e, il sai, si sdegnas'altri quant'ei mostra saperne.Poppea
All'iratutto il muove, ben so. Meco ei sdegnossidel soverchio amor mio poc'anzi; e ferosignor giá favellava a me dal trono.Tigel.
Nol provocare a sdegno mai: tu moltopuoi sul suo cor; ma, piú che amor, può in luiimpeto d'ira, ebrezza di possanza,e fera sete di vendetta. Or vanne:meco in quest'ora ei favellar quí suole:ogni tua cura affida in me.Poppea
Ti giuro,se in ciò mi servi, che in favore e in possanullo fia mai ch'appo Neron ti agguagli.SCENA SECONDA
TigellinoCerto, se Ottavia or trionfasse, a noiverria gran danno; ma, Neron mi affida.Troppo è il suo sdegno; troppa è l'innocenzad'Ottavia; scampo ella non ha. – Grand'arteoggi adoprar con esso emmi pur d'uopo:al suo timor dar nome di consiglioprovido; e fargli, a stima anco dei saggi,parer giustizia ogni piú ria vendetta. —Signor del mondo, io ti terrò; sol ioterrotti, e intero. Intimorirti a tempoe incoraggirti a tempo, a me s'aspetta.Guai, se vien tolto a te il timor del tutto!Al mal oprar qual piú ti resta impulso;qual freno allora al ben oprar ti resta?SCENA TERZA
Nerone, TigellinoTigel.
Signor, deh, perché dianzi non giungevi?Udito avresti il singhiozzar di donna,che troppo t'ama. Aspra battaglia han mossonel cor tenero e fido di Poppeadubbio, temenza, amore. Ah! puoi tu tantoaffligger donna, che cosí t'adora?Ner.
Cieca ella ognor di gelosia non giusta,veder non vuole il vero. Amo lei sola…Tigel.
Gliel dissi io pur; ma chi calmar può megliole fere angosce di timor geloso,che ríamato amante? A lei, deh, celaquella terribil maestá, che in voltoti lampeggia. Acquetare ogni tempestadel suo sbattuto cor, tu il puoi d'un detto,d'un sorriso, d'un guardo. Osai giurarlein nome tuo, che in te pensier non entradi abbandonarla mai; che ad alto fine,bench'io nol sappia, in Roma Ottavia appelli;ma non a danno di Poppea.Ner.
Tu il vero,fido interprete mio, per me giurasti.Ciò le giurai pur io; ma sorda stette.Che vaglion detti? Il dí novel che sorge,compiuto forse non sará, che fermofia d'Ottavia il destino, e appien per sempre.Tigel.
E queta io spero ogni altra cosa a un tempo,ove mostrar pur vogli Ottavia al volgorea, quanto ell'è.Ner.
Poich'io l'abborro, è rea,quanto il possa esser mai. Degg'io di proveavvalorare il voler mio?Tigel.
Pur troppo.Tener non puoi quest'empia plebe ancorain quel non cal, ch'ella pur merta. Ai roghid'Agrippina, e di Claudio, è ver, si tacque:tacque a quei di Britannico: eppur oggid'Ottavia piange, e mormorar si attenta.Svela i falli d'Ottavia, e ogni uom fia muto.Ner.
Mai non l'amai; mi spiacque ognora e increbbe;ella ebbe ardir di piangere il fratello;cieca obbedir la torbida Agrippinala vidi; i suoi scettrati avi nomarmispesso la udii: ben son delitti questi;e bastano. Giá data honne sentenza;ad eseguirla, il suo venir sol manca.Roma saprá, ch'ella cessava: ed eccoqual conto a Roma del mio oprare io debbo.Tigel.
Signor, tremar per te mi fai. Bollenteplebe affrontar, savio non è. Se giustamorte puoi darle, or perché vuoi che appajaКонец ознакомительного фрагмента.
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