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La Calandria
La Calandria

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La Calandria

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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FESSENIO. Altro in contrario dir non sai.

POLINICO. Ricordo a te, Lidio, che gli è sempre da tôr via l'occasione del male e di nuovo ti conforto che tu voglia, per tuo bene, levarti da questi vani innamoramenti.

LIDIO. Polinico, e' non è cosa al mondo che manco riceva il consiglio o la operazione in contrario che lo amore; la cui natura è tale che piú tosto per se stesso consumar si può che per gli altrui ricordi tôrsi via. E però, se pensi levarmi dallo amore di costei, tu cerchi abracciar l'ombra e pigliare il vento con le reti.

POLINICO. E questo ben mi pesa: perché, dove esser solevi piú trattabile che cera, or piú ruvido mi pari che la piú alta rovere che si trovi. E sai tu come ell'è? Io ne lasserò il pensiero a te. E sappi che tu ci capiterai male.

LIDIO. Io nol credo. E se pur ciò fia, non m'hai tu nelle tue lezioni mostro che è gran laude morire in amore e che bel fin fa chi bene amando more?

POLINICO. Orsú! Fa' pure a tuo modo e di questa bestia qui. Presto presto potresti cognoscere con tuo danno li effetti d'amore.

FESSENIO. Fermati, o Polinico. Sai tu che effetti fa amore?

POLINICO. Che? bestia!

FESSENIO. Quelli del tartufo, che a' giovani fa rizzar la ventura e a' vecchi tirar coregge.

LIDIO. Ah! ah! ah!

POLINICO. Eh! Lidio, tu te ne ridi e sprezzi le parole mie? Piú non te ne parlo; e di te a te lasso il pensiero; e me ne vo.

FESSENIO. Col mal anno. Hai tu visto come e' finge il buono? Come se noi non cognoscessimo questo ipocrito poltrone! che ci ha tutti turbati in modo che io né narrare né tu ascoltar potremo certa bella cosa di Calandro.

LIDIO. Di', di'; ché con questa dolcezza leverem l'amaritudine che ci ha lassata Polinico.

SCENA III

LIDIO, FESSENIO servo.

LIDIO. Or parla.

FESSENIO. Calandro, marito di Fulvia tua amorosa e padrone mio posticcio, che castrone è e tu becco fai, mentre che tu, li dí passati, da donna vestito, Santilla chiamatoti, andato da Fulvia e tornato sei, credendo che tu donna sia, si è forte di te invaghito e pregatomi che io faccia sí che egli ottenga questa sua amorosa: la qual sei tu. Io ho finto averci fatta grande opera; gli ho data speranza di condurla, ancor oggi, alle voglie sue.

LIDIO. Questa è ben cosa da ridere. Ah! ah! ah! Ed or mi ricordo che, l'altro dí, tornando io da Fulvia in abito di donna, mi venne drieto un pezzo; ma non pensai che fusse per innamoramento. Si vuol mandarla innanzi.

FESSENIO. Ti servirò bene: lassa fare a me. Gli mostrerò di novo aver fatti miraculi per lui; e sta' sicuro, Lidio, che egli piú crederrá a me che io non dirò a lui. Gli do spesso ad intendere le piú scempie cose del mondo per ciò che gli è il piú sufficiente lavaceci che tu vedessi mai. Potrei mille sua castronarie raccontarti; ma, acciò che io non vada ogni particularitá narrandoti, egli ha in sé sí profonde sciocchezze che, se una sola di quelle fusse in Salamone, in Aristotele o in Seneca, averebben forza di guastare ogni lor senno, ogni lor sapienzia. E quello che sommamente mi fa ridere delli fatti suoi è che gli pare essere sí bello e sí piacevole che e' s'avisa che quante lo vedeno subito se innamorino di lui, come se altro piú bel fante di lui non si trovasse in questa terra. In fine, come il vulgo usa dire, se mangiasse fieno, sarebbe un bue; perché poco meglio è che Martino da Amelia o Giovan Manente. Onde facil ci fia, in questo suo amorazzo, condurlo a quel che noi piú vorremo.

LIDIO. Ah! ah! ah! Io sono per morir delle risa. Ma dimmi: credendo esso che io sia femina, e maschio essendo, quando esso fia da me, come anderá la cosa?

FESSENIO. Lassa pur questa cura a me, ché tutto ben si condurrá. Ma oh! oh! oh! Vedilo lá. Va' via, ché teco non mi veda.

SCENA IV

CALANDRO, FESSENIO servo.

CALANDRO. Fessenio!

FESSENIO. Chi mi chiama? Oh padrone!

CALANDRO. Or be', dimmi: che è di Santilla mia?

FESSENIO. Di' tu quel che è di Santilla?

CALANDRO. Sí.

FESSENIO. Non lo so bene. Pur io credo che di Santilla sia quella veste, la camicia che l'ha indosso, el grembiule, i guanti e le pianelle ancora.

CALANDRO. Che pianelle? che guanti? Imbriaco! Ti domandai, non di quello che è suo, ma come la stava.

FESSENIO. Ah! ah! ah! Come la stava vuoi saper tu?

CALANDRO. Messer sí.

FESSENIO. Quando poco fa la vidi, ella stava … aspetta! a sedere con la mano al volto; e, parlando io di te, intenta ascoltandomi, teneva gli occhi e la bocca aperta, con un poco di quella sua linguetta fuora, cosí.

CALANDRO. Tu m'hai risposto tanto a proposito quanto voglio. Ma lassiamo ire. Donque l'ascolta volentieri, eh?

FESSENIO. Come «ascolta»? Io l'ho giá acconcia in modo che fra poche ore tu arai lo attento tuo. Vuoi altro?

CALANDRO. Fessenio mio, buon per te.

FESSENIO. Cosí spero.

CALANDRO. Certo. Fessenio, aiutami; ch'io sto male.

FESSENIO. Oimè, padrone! Hai la febbre? Mostra.

CALANDRO. No. Oh! oh! Che febbre? Bufalo! Dico che Santilla m'ha concio male.

FESSENIO. T'ha battuto?

CALANDRO. Oh! oh! oh! Tu se' grosso! Dico ch'ella m'ha inamorato forte.

FESSENIO. Be', presto sarai da lei.

CALANDRO. Andiamo dunque da lei.

FESSENIO. Ci sono ancora di mali passi.

CALANDRO. Non ci perder tempo.

FESSENIO. Non dormirò.

CALANDRO. Fallo.

FESSENIO. El vedrai: ché or ora sarò qui con la risposta. Addio. Guarda lo gentile innamorato! Bel caso! Ah! ah! ah! D'un medesimo amante son morti la moglie e il marito. Oh! oh! oh! Vedi Samia serva di Fulvia che esce di casa. Alterata parmi; trama c'è. Ed essa sa il tutto. Da lei saperrò quel che in casa si fa.

SCENA V

FESSENIO servo, SAMIA serva.

FESSENIO. Samia! o Samia! Aspetta, Samia.

SAMIA. Oh! oh! Fessenio!

FESSENIO. Che si fa in casa?

SAMIA. A fé, non bene per la padrona.

FESSENIO. Che c'è?

SAMIA. La sta fresca.

FESSENIO. Che ha?

SAMIA. Non mel far dire.

FESSENIO. Che?

SAMIA. Troppa…

FESSENIO. Troppa che?

SAMIA. … rabbia di…

FESSENIO. Rabbia di che?

SAMIA. … trastullarsi con Lidio suo. Ha' lo inteso mò?

FESSENIO. Oh! Questo sapevo io come tu.

SAMIA. Tu non sai giá un'altra cosa.

FESSENIO. Che?

SAMIA. Che la mi manda a uno che fará fare a Lidio ciò che la vuole.

FESSENIO. In che modo?

SAMIA. Per via di canti.

FESSENIO. Di canti?

SAMIA. Messer sí.

FESSENIO. E chi sará questo musico?

SAMIA. Che vuoi tu fare di musico? Dico che vo a uno che lo fará amare, se crepasse.

FESSENIO. Chi è costui?

SAMIA. Ruffo negromante, che fa ciò che vuole.

FESSENIO. Come cosí?

SAMIA. Ha uno spirito favellario.

FESSENIO. Familiare, vuoi dir tu.

SAMIA. Non so ben dir queste parole. Basta che ben saprò dirgli che venga a madonna. Fatti con Dio. Vedi, olá! non ne parlare.

FESSENIO. Non dubitare. Addio.

SCENA VI

SAMIA serva, RUFFO negromante.

SAMIA. Egli è ancor sí buon'ora che Ruffo non sará ancor tornato a desinare. Meglio è guardare se in piazza fusse. Ed oh! oh! oh! ventura! Vedilo che va in lá. O Ruffo! o Ruffo! Non odi, Ruffo?

RUFFO. Io pur mi volto né vedo chi mi chiama.

SAMIA. Aspetta!

RUFFO. Chi è costei?

SAMIA. M'hai fatta tutta sudare.

RUFFO. Be', che vuoi?

SAMIA. La padrona mia ti prega che or ora tu vadi da lei.

RUFFO. Chi è la padrona tua?

SAMIA. Fulvia.

RUFFO. Donna di Calandro?

SAMIA. Quella, sí.

RUFFO. Che vuol da me?

SAMIA. Ella tel dirá.

RUFFO. Non sta lá su la piazza?

SAMIA. Ci son due passi. Andianne.

RUFFO. Vattene innanzi ed io drieto a te ne vengo. Sarebbe mai costei nel numero dell'altre scempie a credere che io sia negromante e abbia quello spirito che molte sciocche dicano? Non posso errare ad intendere quel che la vuole. Ed in casa sua me n'entro prima che qui arrivi colui che in qua viene.

SCENA VII

FESSENIO servo, CALANDRO.

FESSENIO. Or vedo ben che ancor li dèi hanno, come li mortali, del buffone. Ecco, Amore, che suole inviscare solo i cori gentili, s'è in Calandro pecora posto, che da lui non si parte; che ben mostra Cupido aver poca faccenda poi che entra in sí egregio babuasso. Ma il fa perché costui sia tra gli amanti come l'asino tra le scimie. E forse che non l'ha messo in bone mane? Ma la piuma è cascata nella pania.

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